mercoledì 29 dicembre 2010

La dignità del dolore

appello dei genitori restituiteci nostra figliaAd oltre un mese dalla scomparsa di Yara Gambirasio, la ragazza tredicenne di Brembate di Sopra, anche i genitori escono allo scoperto. Lo fanno nel corso di una breve incontro con i giornalisti, accompagnati dal sindaco di Brembate, nel corso del quale hanno letto un breve comunicato scritto a mano, evidentemente di getto e con il cuore. Fulvio e Maura Gambirasio, tenendosi per mano, chiedono ai rapitori di lasciar libera Yara essendo convinti che sia ancora viva, ma tenuta prigioniera chissà da chi e chissà perchè.
Implorano i rapitori di restituire loro la figlia per poter riprendere a vivere nella normalità quotidiana. I genitori dicono che hanno basato la loro famiglia sull’amore, sul rispetto, sul quieto vivere. Ma non accusano nessuno, desiderano semplicemente che la figlia Yara possa ritornare ed essere restituita così all’affetto della sua famiglia.

Come non commuoversi di fronte alla composta dignità di queste due persone chiamate ad una prova così terribile e dolorosa. Come non andare con la memoria alle immagini urlate e strombazzate senza ritegno del delitto di Avetrana (Sarah Scazzi) e di altri casi similari? L'uno all'antitesi dell'altro. Due mondi così diversi e così distanti da non sembrare nemmeno espressioni dello stesso paese, l'Italia. Un paese ormai abituato a vivere come in un grande reality show dove tutto fa e deve far spettacolo e assumere toni e forme eclatanti per arrivare a far parlare di sè. Brembate non è Avetrana, al punto che i due genitori sembrano quasi due marziani, capitati per caso sulla terra. Ma sono persone vere, come tante altre per fortuna, che vivono il proprio dolore senza bisogno di mostrarlo in tv, con dignità e riservatezza. Che il destino sia lieve e pietoso con loro e con la piccola Yara.

Ecco il testo integrale dell'appello, poche semplici righe che toccano il cuore : «Noi siamo una famiglia semplice, siamo un nucleo di persone che ha basato la propria unità sull'amore, sul rispetto, sulla sincerità e sulla solarità del nostro quieto vivere. Da un mese - prosegue l'appello - ci stiamo ponendo innumerevoli domande sul chi, il che cosa, il come, il quando e il perchè ci sta accadendo tutto ciò. Noi non cerchiamo risposte, noi non chiediamo di sapere, noi non ci assilliamo per capire, noi non vogliamo puntare il dito verso qualcuno, noi desideriamo solo, immensamente, che nostra figlia faccia ritorno nel suo mondo nel suo paese, nella sua casa, nelle braccia dei suoi cari. Noi imploriamo la pietà di quelle persone che trattengono Yara chiediamo loro di rispolverare nella loro coscienza un sentimento d'amore; e dopo averla guardata negli occhi gli aprano quella porta o quel cancello che la separa dalla sua libertà. Noi vi preghiamo, ridateci nostra figlia, aiutateci a ricomporre il puzzle della nostra quotidianità, aiutateci a ricostruire la nostra normalità. La gente ci conosce bene, non abbiamo mai fatto o voluto il male di nessuno, ci siamo sempre dimostrati come una famiglia aperta, trasparente e disponibile verso gli altri e non meritiamo di proseguire la nostra vita senza il sorriso di Yara. Grazie».

lunedì 27 dicembre 2010

Film visti. Radical chic in crisi

La bellezza del somaro

Regia di Sergio Castellitto. Con Sergio Castellitto, Laura Morante, Enzo Jannacci.

Voto: 2 su 5
 
Poteva essere l'occasione per trattare temi seri e attuali con la mano leggera della commedia, sobria, elegante e sottilmente acuta. Invece no, il risultato è la solita mezza farsa troppo urlata in chiave caciarona-porchettara alla romana. Stile, sobrietà, leggerezza, argutezza narrativa e tutto quello che poteva essere e non è stato. In poche parole, questo è La bellezza del somaro, laddove per somaro deve intendersi quella istintività un po' ignorante (nel senso positivo del termine), che arriva al cuore dei problemi con l'intelligenza, il buon senso e l'istintività, lasciando da parte sciocchi intellettualismi e artefatte costruzioni mentali.
Una banda di esaltati, ecco cosa sembrano di primo acchito i protagonisti di questo film di Castellitto. Non si salva nessuno, dal primo all'ultimo, protagonisti e personaggi collaterali. Denominatore comune: la mania di essere politically correct; di fare-agire-pensare-parlare nel modo giusto e moderno e con un manuale di psicologia impresso nella testa come dogma assoluto; rispettosi di tutti ma rispettosi di niente; aperti a tutto, non prevaricatori e non autoritari fino all'eccesso nei confronti dei figli, ma di fatto sostanzialmente incapaci di dare loro un indirizzo di vita concreto e certo; agiatamente borghesi e benestanti fino al midollo con tanto di casale rustico in Toscana e alto tenore di vita, ma pronti -a parole- a dichiararsi invece radicalmente antiborghesi; radical chic con il terrore di invecchiare che coltivano il mito dei "figaccioni" anche dopo i cinquanta; con l'amante giovane e bonazza, ma innamorati persi della moglie; con il chiodo fisso della "canna" che fa tanto "giovane e ribelle", panacea di una gioventù ormai persa soprattutto nella mentalità ancorata a schemi vecchi e obsoleti; con la mania delle citazioni dotte e intellettuali quale sfoggio di cultura à la page; bisognosi di uno psicoterapeuta di pronto uso per ogni evenienza o difficoltà della vita... Con questo bagaglio di soffocanti attributi ecco i protagonisti del film che dipinge impietosamente una generazione di quasi-cinquantenni radical chic in crisi nera, perdenti e di inconcludenti, incapaci di crescere e diventare pienamente adulti.
La loro conclamata e sbandierata modernità e apertura mentale viene messa in discussione dall'arrivo del nuovo fidanzato della figlia diciassettenne della coppia protaginista (Castellitto-Morante) che si rivela essere un canuto settantenne dall'aria tranquilla e inoffensiva, che ben presto però dimostra di saperla lunga sulla vita e sulle persone. Una specie di filosofo che gira con un bonsai sotto il braccio. Molto più aperto alla vita di quanto si vantino i genitori quasi-cinquantenni radical chic e tutta la loro sconclusionata combricola di amici. In certi casi -ahimè-  non si va oltre alla macchietta di maniera.
Così il ponte di Ognissanti da passare allegramente tutti insieme nel casolare in Toscana, in una gestione assembleare dei tempi e dei modi di vivere, diventa un momento di scontro con la realtà che viene sbattuta loro in faccia senza riguardo e senza preavviso. Un fulmine a ciel sereno in seguito al quale tutti vanno in crisi, membri della famiglia, amici e conoscenti/estranei aggregati alla bella compagnia (il paradosso è che la moglie Morante in quanto psicoterapeuta si porta dietro per il ponte un paio di allucinati pazienti "per non creare in loro alcuna crisi di abbandono"...) e perfino l'amante ripudiata di Castellitto inviperita per essere messa da parte senza tante storie.
Insomma un film eccessivo in tutto, dove la vicenda nasce, sia pure sopra le righe, in maniera per la verità interessante arrivando addirittura a citare, nel momento in cui la figlia presenta il "fidanzatino" in famiglia, il famoso "Indovina chi viene a cena" (due premi Oscar nel 1968 con i grandi Spencer Tracy, Katharine Hepburn e Sidney Poitier). Salvo poi buttare tutto in caciara troppo gridata ed esasperata con le solite macchiette romanesche già viste e riviste troppe volte. Radical chic alla vaccinara, verrebbe da dire.
Un peccato, perchè l'argomento era di per sè molto stimolante sia per la tematica che per il contesto in cui si svolgeva e poteva essere affrontato in  maniera ben diversa, pur mantenendola nei binari della commedia. Invece Castellitto (regista) e la moglie Mazzantini (autrice) si buttano sulla commedia in maniera piuttosto greve e prevedibile, finendo per fare del male a se stessi e al film.
Un discorso a parte per il senex della situazione, Enzo Jannacci, chiamato alla prova cinematografica nel ruolo del fidanzatino settantenne. Un personaggio dallo sguardo stranito (perfetto per il vero Jannacci) che  in quell'ambiente roboante e caciarone è chiaramente del tutto fuori posto, tant'è vero che alla fine leva sommessamente le tende e il disturbo andandosene in punta di piedi non senza aver lasciato intendere che tra lui e la ragazzina non ci sia mai stato nulla di più di un fuggevole bacio. Signori si nasce.

sabato 25 dicembre 2010

Una brutta storia

Nella retorica del Natale, quando tutti dovrebbero essere più buoni, c'è una notizia pubblicata sui giornali locali della mia regione che va in controtendenza. L'antefatto della vicenda risale a qualche mese fa, ma l'epilogo, tragico, è arrivato proprio in questi giorni natalizi. Andiamo con ordine.

Succede che in un sobborgo di Padova, un certo giorno nella piazza principale compare uno striscione scritto alla meno peggio, con questo testo: "Luisa F. ucciderà sua sorella se non dona". Dopo qualche interrogativo e le comprensibili perplessità iniziali la vicenda viene a galla. Paola F. è malata di leucemia e per cercare di guarire dovrebbe sottoporsi ad un trapianto di midollo, a condizione che vi sia compatibilità con il donatore per evitare il rigetto. La migliore compatibilità, è risaputo, c'è tra consanguinei, quindi il donatore è da ricercare nella ristretta cerchia di familiari stretti. L'unica candidata possibile è la sorella Luisa, che però rifiuta il trapianto nel timore di subire delle conseguenze fisiche dannose o dolorose per se stessa. Niente donazione, niente trapianto. Gli altri familiari di Paola non la prendono bene ovviamente. E' vero che non vi è garanzia assoluta che il trapianto riesca anche nel caso di donatore consanguineo, ma le probabilità di successo sono enormemente superiori rispetto al donatore non consanguineo. E' mai concepibile che si possa rifiutare la donazione alla propria sorella malata sapendo che ciò significa destinarla a un salto nel buio con un donatore estraneo?
Il fatto esce dalla piccola comunità padovana ed ha addirittura risonanza nazionale finendo sui giornali e in tv, dove, come al solito, non si cerca di meglio che azzannare questo tipo di notizie per specularci sopra sfruttando l'onda emozionale della vicenda. Ricordo di aver intravisto di sfuggita una trasmissione domenicale della solita Barbara D'Urso su Canale 5 con tanto di collegamento via satellite e interviste varie in diretta. Ma al di là delle jene strappalacrine della televisione, quella di Paola e della sorella Luisa rimane una vicenda drammatica e inquietante su cui riflettere.
Inutile dire che le reazioni sono state molteplici e principalmente suddivise tra accusatori e difensori della scelta di Luisa nel rifiutare la donazione. Come sempre si sono formati due partiti del sì e del no, del contro e a favore. Con tanto di gruppo sull'onnipresente Facebook che ha fatto da centro di raccolta, nel bene e nel male, sia delle reazioni sdegnate che delle ricerche del possibile donatore.

E siamo giunti all'epilogo di questa vicenda. Il fatto che coincida proprio con questi giorni natalizi intrisi di mieloso buonismo, di retorica consumistica dei regali ad amici e parenti più o meno cari  a dispetto dei valori cristiani che invece ispirano (o dovrebbero ispirare) il vero Natale, tutto questo è reso più drammatico e stridente. Paola è morta qualche giorno fa in seguito ad una crisi di rigetto dopo il trapianto eseguito da un donatore non consanguineo. Un donatore rintracciato forse in Germania grazie alle banche dati internazionali che mettono a disposizione di chi ne ha bisogno i dati cruciali per stabilire una possibile compatibilità. Paola F. è morta a 57 anni in Nuova Zelanda dove risiedeva da tempo. Ha finito la sua lotta con la leucemia, perdendola.

Esiste un obbligo a donare? Nel vasto serbatotio della morale e dell'etica esiste qualche regola che imponga un gesto di generosità quando il donatore è dubbioso al punto di tentennare? No, certamente. Nessun obbligo pende sul potenziale donatore ed egli si regola e decide secondo coscienza. Dunque la scelta del rifiuto di Luisa va rispettato, sia pure a denti stretti. Sia pure non condividendo la sua scelta, ma senza giudicare nulla e nessuno. Ma rimane comunque una brutta storia, comunque la si veda e la si valuti. Come non pensare al dolore per la morte di Paola e alla sua vita interrotta, ma anche alle angosce della sorella Luisa a cui il no deve essere costato non poco, nonostante tutto.

Che brutto Natale passeranno i suoi familiari di Paola. Ma non voglio neppure pensare a quello che trascorrerà sua sorella Luisa. Sarà comunque per tutti un Natale triste, perchè l'angoscia di fronte al passaggio dalla vita alla morte non fa eccezioni.

venerdì 24 dicembre 2010

Auguri

"Non vi è nulla di più triste che svegliarsi la mattina di Natale e scoprire di non essere un bambino"

(Erma Bombeck, 1926/1996)





Per ritrovare lo spirito, lo sguardo e l’innocenza di quando eravamo bambini
Volpe56

giovedì 23 dicembre 2010

martedì 21 dicembre 2010

Libri. XY o dell'ordinario impossibile

XY
di Sandro Veronesi

Trentino, Italia. Nel bosco adiacente a Borgo San Giuda (San Giuda Taddeo, protettore delle cause impossibili, non il Giuda Iscariota traditore di Gesù) si verifica un'orribile eccidio. Undici persone sono uccise e una bambina è scomparsa. La comunità tranquilla e sonnacchiosa di montanari trentini ne rimane sconvolta al pari dell'intera opinione pubblica nazionale. Si scatenano i mass media e il piccolo borgo montano di una cinquantina di anime e un prete viene altrettanto sconvolto dall'arrivo di orde di giornalisti e di curiosi. Nel frattempo una giovane psichiatra ed ex sciatrice di alto livello si sveglia nella vicina Cles con una inspiegabile ferita ad una mano, lì dove quindici anni prima si era tagliata affettando maldestramente il pane. Il mistero si infittisce.
Questo è l'inizio strepitoso del libro che per qualche decina di pagine lascia intravvedere, per le modalità della strage e i fatti ad essa connessi, risvolti romanzati illimitati ed imprevedibili. Ma ben presto, quando si delineano alcuni particolari specifici delle morti, il lettore si rende conto che il castello iniziale è talmente impossibile che non può essere sfruttato a lungo nel prosieguo del libro. E infatti il libro devia radicalmente, abbandonando il mistery per fluire ad una introspezione di personaggi e situazioni molto sofisticata e intellettuale. La chiave di tutto sta nel taglio estrememente improntato all'analisi psicologica e psicanalitica di tutta la vicenda. Tutto, da un certo momento in poi, nel libro diventa occasione e pretesto di analisi psicologiche. Un'orgia di analisti e terapeuti. I personaggi ragionano e si muovono in questa chiave e il libro diventa noioso e per certi versi deprimente. Vero è che personalmente provo una diffidenza istintiva verso tutto ciò che "puzza" di psicanalisi, di psiciologia esasperata e di strizzacervelli usati come il prezzemolo, ossia in tutte le salse, ma grande è stata la caduta verticale del mio interesse verso il libro. L'ho lasciato lì per qualche giorno, impantanato in dotte e intellettuali riflessioni e masturbazioni mentali, per poi riprenderlo solo per vedere come andava a finire. Faccio un esempio, giusto per dare un'idea di cosa intendo dire. I protagonisti del libro sono due, Giovanna la ex sciatrice-psichiatra e don Ermete il parroco del borgo montano. Ad un certo punto lei (un tipetto che non esita a definire "maschio immaturo" il suo ex compagno lasciato dalla sera alla mattina che ha la grave colpa di non accettare la sua decisione come se niente fosse) smarrisce il suo telefonino, dimenticandolo sul bancone della farmacia del paese. Una volta ritrovato, la sua riflessione è che del fatto (cioè del telefonino smarrito) dovrebbe parlarne al suo terapeuta e "lavorarci su". Allucinante. Come dire che ogni cosa, ogni avvenimento nella vicenda ed ogni personaggio sono visti ed affrontati in chiave psicologica e psicanalitica. Esasperante, almeno per i miei gusti. Il che non è del tutto un'invenzione di Veronesi specifica per il suo libro, ma credo che possa essere un certo atteggiamento mentale (una moda? un clichè?) abbastanza diffuso in certi ambienti intellettuali o pseudo intellettuali. La psicanalisi sempre e ovunque. Insopportabile.

Ma cosa vuole dirci Veronesi con questo suo XY? Che messaggio vuole mettere in campo? C'è molta carne al fuoco, sotto questo aspetto. Intanto la scelta del titolo può essere interpretata come l'unione e contrapposizione di due opposti: il bene e il male, il maschio e la femmina, l'inzio e la fine, Dio e Satana... Certo è che l'eccidio da cui prende le mosse il racconto è qualcosa di talmente impossibile che la pista dell'indagine deve essere abbandonata non potendo dare alcuna parvenza di razionalità (e quindi indagabile e analizzabile) a quanto accaduto. Preferisco evitare di scendere in dettagli, ma assicuro che è un guazzabuglio diabolico. Altrettanto vero è che l'impossibile descritto è materia della cronaca di tutti i giorni. Quante volte ci capita di pensare "ma come è possibile che succedano cose del genere" leggendo i fatti cronaca quotidiana? L'orrido della porta accanto, l'evento raccapricciante e sconvolgente della nostra quotidianità malata di violenza. Tutto questo è assimilabile all'eccidio nel bosco del Trentino che apre il libro. E come reagiamo di fronte a questi fatti eccezionali ed eccezionalmente feroci? Che strumenti abbiamo per resistere alla facile tentazione di abbassare la guardia e farci travolgere inermi dalla ferocia della nostra società? Con la Fede (don Ermete) e/o con la Ragione (Giovanna, la psichiatra).  ...X e Y, appunto.

Onestamente non so se consigliare la lettura di questo libro. Direi senz'altro di sì (non fosse altro perchè è scritto molto bene), se non avete preconcetti verso l'uso esasperato della pscicanalisi nel banale quotidiano, come invece ho io. Vedete voi...

sabato 18 dicembre 2010

Film visti. Facebook, una montagna di “fuffa”

THE SOCIAL NETWORK
Regia di David Fincher, con Andrew Garfield, Justin Timberlake.

Voto: 3,5

Facebook, un simbolo della nostra epoca. Il film The social network presenta la storia di come sia nato Facebook, di come si sia evoluto e con quale spirito si sia modificato e modellato nel corso degli anni. Mica tanti, parliamo del 2003. Quindi a ben vedere l’altro ieri, considerando di quanto viaggi veloce il mondo dell’informatica. L’ideatore di tutto l’ambaradan è Mark Zuckerberg, all'epoca un brufoloso giovanotto americano, geniale al computer quanto stronzo nel profondo dell’animo. Sotto questo aspetto il film è spietato e aderente alla realtà dei fatti: gliene va reso pieno merito. L’ambiente è quello dei college americani (Harvard), con le loro regole di impenetrabilità e le loro gerarchie sociali precise e granitiche, in cui o sei qualcuno che conta per qualche motivo (reddito, fama, capacità, provenienza sociale) o non sei nessuno e dunque non vali niente. In piena sintonia con la società americana di cui i grandi, rinomati e costosissimi college sono una delle massime espressioni come momento di formazione della classe dirigente. La scalata sociale del geniale stronzetto parte proprio da questa sua sete di apparire, ma anche e soprattutto dalla sua incapacità a costruire un rapporto umano degno di questo nome. Amici, amiche, fidanzate o perfetti sconosciuti, sono tutti accomunati dallo stare alla larga dal genietto informatico che di conseguenza cerca spasmodicamente una rivalsa per tutto quello che non è in grado di costruire ed ottenere sul piano peronale. Nell’autunno del 2003, per sfogare la sua rabbia dovuta all’essere stato scaricato dalla sua ragazza, progetta e mette in rete un sito in cui si può esprimere un giudizio sulla bellezza delle compagne di college. Strafighe o bruttone, promosse o bocciate, …e sotto un’altra. Questo è lo spessore del giovanotto e dell’ambiente da cui prende vita facebook. Con questi presupposti (che non conoscevo affatto prima di vedere il film), viene da chiedersi come il giochetto stupido di affibiare le pagelle alle compagne di scuola sia potuto diventare il fenomeno che è attualmente. E invece… se la memoria non mi inganna, gli iscritti a Facebook ammontano a circa 500 milioni e il valore della società costituita dal brufoloso genietto di Harvard è cresciuta fino alla astronomica cifra di 25 miliardi di dollari. Ed entrambi i dati sono in continua crescita! Successo su tutta la linea di portata planetaria. Dunque, se consideriamo l’essenza di facebook (figa o non-figa), è agghiacciante che qualcuno ci abbia guadagnato sopra montagne e montagne di soldi. Il film ricostruisce le vicende processuali in cui gli ex amici ed ex soci di Zuckerberg intendono rivalersi legalmente accusandolo di aver loro rubato l’idea originaria che diede origine al libro delle facce. Il regista Fincher e gli autori non si schierano per nessuna delle parti ma non risparmiano nulla al neo miliardario nel momento di dipingerlo nella maniera più antipatica possibile. Insomma, antipatico quanto si vuole, ma dal punto di vista legale meglio stare su una prudenziale e rigorosa attinenza i fatti nudi e crudi. Hai visto mai che scatta una causa civile da paura….
The social network è dunque un film che assomiglia molto ad una specie di docufiction televisiva, di quelle che supportano un programma giornalistico allo scopo di romanzare i fatti narrati nell’inchiesta. Ma è anche un film che varrebbe la pena di proiettare nelle scuole affinché i giovani riescano ad avere una visione critica di questo fenomeno. Ma vista l’età media degli iscritti al libro delle facce e la facile accessibilità di cui gode il mondo di internet senza filtri e senza controlli efficaci, bisognerebbe incominciare le proiezioni a tappeto fin dalla prima elementare….

Già, perché in facebook c’è di tutto e di più. Del resto viviamo nel mondo di internet, nel mondo della rete e della comunicazione via computer. Io stesso che scrivo e voi stessi che in questo momento mi leggete utilizziamo un blog, ovvero uno strumento informatico della rete. La rete è principalmente sinonimo di informazione e comunicazione. Così è nata e si è sviluppata fino ad entrare in maniera indissolubile nella nostra vita quotidiana. Informare e comunicare hanno però un utilizzo alternativo, ludico e di evasione, costituito dai cosiddetti social network. Facebook, Twitter, il vecchio Icq degli anni 90, MSN e tanti altri ancora.

Personalmente sono arrivato tardi a Facebook, per semplice ignoranza e un po’ di diffidenza, per l’esigenza di non stare dietro a tutte le novità che vengono sfornate a getto continuo, perché è o era uno strumento inizialmente riservato alle fasce più giovani del popolo della rete. Ma poi ho ceduto anch’io alla moda dilagante e ho aperto una pagina personale. Dopo un primo periodo di ambientazione, di esplorazione e, devo dire di curiosità, la sensazione attuale a distanza di un anno circa, è di grande delusione. Facebook ossia letteralmente libro delle facce, quindi in altre parole “album”, è tutto qui? Un megafono di emerite sciocchezze che circolano di pagina in pagina, salvo poche e rarissime eccezioni che potrebbero trovare (e trovano) altre forme di divulgazione in molti altri modi? Facebook nel suo concreto è l’apoteosi del micro pensiero sintetico con tutte le possibili riserve sul termine “pensiero”. Una sorta di messaggistica in stile sms telefonico evoluto. Un esempio? Tizio diventa amico di Caio; Caio dice mi piace; Sempronia condivide la notizia di Caio che diventa amico di Tizio…. E tutte le facce dell’album contemporaneamente leggono via internet che Tizio diventa amico di Caio… che Caio dice mi piace… che Sempronia condivide la notizia di Caio che diventa amico di Tizio…eccetera eccetera… in un vortice senza fine. Il tutto moltiplicato per milioni e milioni di pagine e di facce collegate tra loro. Certo facebook può anche essere un formidabile veicolo di informazione, ma di fatto il grosso delle comunicazioni (diciamo pure la quasi totalità) è solo “fuffa” e nulla più. D’altronde, visti i presupposti per i quali è stato creato, come aspettarsi altro? Per non parlare dell’uso disonesto e fraudolento di Facebook, dello stravolgimento delle identità degli iscritti attraverso l’uso di soprannomi, pseudonimi o nomi di fantasia o del tutto falsi. Si sta alla buona grazia dell’interlocutore che dice di chiamarsi Elisabetta, ma in realtà è Giuseppe con tanto di barba e baffi. Conseguenza pratica: pedofili e malintenzionati a gogò che si scapricciano su vittime ingenue e indifese…

mercoledì 8 dicembre 2010

Libri. L'alfabetista

L'ALFABETISTA
di Torsten Petterson

Recente esempio del filone scandinavo di romanzi a sfondo poliziesco sull'onda lunga del grande successo della trilogia del Millennium di Stig Larsson. Solitamente interessanti, piacevoli, ben scritti, non solo polizieschi, ma con un certo spessore. Ma, attenzione, non tutto è oro quel che luccica....
Nel tranquillo parco pubblico di Forshälla, in Finlandia, qualcuno ha strangolato una donna, le ha cavato gli occhi e le ha inciso una A sulla pancia. Il detective Lindmark interroga e arresta il fidanzato della vittima, che - messo sotto pressione - confessa l'omicidio. Dopo pochi giorni, però, vengono ritrovati altri due cadaveri. Anche loro sono stati strangolati, sono nudi, senza occhi e con una lettera incisa sulla pancia: la macabra firma di un serial killer.
Messa così, tutto lascerebbe pensare a sviluppi scoppiettanti, a forza di lettere incise a sangue e con tutto l'alfabeto a disposizione... Invece no. Sotto questo aspetto il libro è una delusione perchè dopo non succede più niente che vada ad alimentare la tensione poliziesca. Prende invece il sopravvento l'inserimento e la descrizione accurata e approfondita di personaggi che inizialmente non si capisce che ruolo giochino nel racconto. Anche se poi ogni tessera andrà al suo posto. O quasi. Perchè molto rimane in sospeso, quasi dimenticato e non si capisce che fine faccia e che ruolo debba rivestire, salvo pensare che vi sarà un seguito al romanzo. Infatti da qualche parte ho letto che si tratterebbe del primo episodio di una trilogia. Eddai. Non so se avrà successo e se sarà alla'ltezza dell'illustre precedente di Millennium che ha dato il "la" al filone scandinavo.
Suspence assente, come detto, tuttavia l'autore ci presenta un buon quadro di varia umanità che ruota sulla scena del racconto della fredda Finlandia. Francamente il personaggio dell'investigatore, il commissario  Lindmark, risulta da subito visceralmente antipatico quando conduce le indagini sul presunto colpevole del primo omicidio in maniera arrogante e supponente, con tesi precostituite studiate a tavolino e poi adeguate a forza sul caso.  Un pacchiano errore giudiziario che tuttavia non lo scuote più di tanto, nella presunzione di essere comunque nel giusto. Insomma un poliziotto che va controcorrente rispetto alla moda attuale, molto politically correct. Tuttavia non si riesce a vedere in lui una simpatica canaglia, bensì solo un fascistello arrogante  e supponente. Le cose migliori vengono dai personaggi che si delineano successivamente che l'autore ci presenta uno per volta attraverso dei diari che narrano le loro storie drammatiche e tragiche. Anche qui siamo di fronte solo a tessere del mosaico che lì per lì lasciano alquanto interdetto il lettore, salvo poi collimare a dovere.
Come detto, tutto sembra restare in sospeso e la stessa conclusione del libro giunge quasi a sorpresa, ma senza pathos, senza coup de theatre mirato a risollevare l'apprezzamento dell'investigatore, cosa che pure ci sarebbe potuta stare tranquillamente. Resta comunque antipatico e saccente.
Andrà meglio nel seguito della trilogia annunciata?  Vedremo. Ma prima devo convincermi che ne valga la pena e al momento siamo un po' distanti.

martedì 7 dicembre 2010

Il caso Yara. Giustizia sì, razzismo no!

Mohammed Fikri, il 22enne marocchino fermato sabato su un traghetto diretto a Tangeri e sospettato dell'omicidio della tredicenne Yara Gamberasio non c'entra nulla. E' finito con l'essere coinvolto solo a causa di una errata traduzione dall'arabo di una sua frase intercettata al telefono. Ebbene, la frase incriminata (Allah mi perdoni) è stata derubricata a semplice imprecazione e la presunta fuga via nave era un viaggio programmato da tempo. Dunque indizi traballanti, sospetti, non certezze, nè tanto meno prove. Ma tanto è bastato per sbattere il mostro in prima pagina. Ma tanto è bastato per i bravi concittadini di Yara per innalzare cartelli razzisti contro i marocchini (tutti, indistintamente e genericamente). Cartelli addirittura con stampato un bel bersaglio, giusto per essere chiari ed espliciti su quale fine dovrebbero fare secondo lorsignori i marocchini. Del marocchino sospettato si è saputo prontamente il nome, dei due italiani sospettati invece nulla. Per loro vige la regola del riserbo e della prudenza. Due pesi e due misure. Ma la vicenda della strage di Erba non ha insegnato niente a nessuno? Anche in quell'occasione il marito e padre delle vittime fu additato subito come il responsabile della strage. Tunisino, dunque presunto, anzi probabile, anzi certo colpevole. Salvo poi doversi rimangiare tutto. Anche per Yara il presunto colpevole dato in pasto ai media è stato prontamente individuato nell'extracomunitario di turno... La storia si ripete e i razzisti, tutta brava gente che lavora e paga le tasse, probi ed esemplari cittadini modello, sono sempre pronti ad inalberare i loro cartelli forcaioli. Questa è l'Italia di oggi. Che non si dice razzista, ma lo è. Eccome se lo è.

Povera Yara. Tredici anni, nel fiore della vita. Che fine misera per una ragazzina che si aspettava una vita normale, felice come è giusto che sia e altrettanto giusto attendersi e che invece molto probabilmente ha trovato la morte per mano di qualche delinquente criminale.
Yara di Brembate e Sarah Scazzi di Avetrana, agli antipodi d'Italia, entrambe poco più che bambine, accomunate in una fine tragica della loro giovane e breve esistenza. Ma è inevitabile il confronto tra le due famiglie e i due ambienti. Da un lato ad Avetrana un nucleo famigliare votato in tutto e per tutto alla televisione. Dai genitori alle zie, dalle cugine fino al parente di terza generazione, tutti hanno sfilato in televisione. Prima, durante e dopo il ritrovamento di Sarah. Un fiume in piena di presenze in video, sempre, tutti i giorni, a tutte le ore. Ovunque e su tutte le reti televisive, sui giornali, sui setimanali, alla radio, in internet. Per giorni e settimane, per mesi siamo stati bombardati su Sarah Scazzi e sulle vicende della sua famiglia. Ben altro atteggiamento ha esibito la famiglia di Yara. Un dignitoso e stretto silenzio. Nessun clamore, nessuna intervista, nessuna comparsata. Le barbaredurso e i brunivespa della tv questa volta resteranno all'asciutto e non sguazzeranno nel fango delle sventure della povera gente. Povere bambine.

lunedì 29 novembre 2010

Film visti. The killer inside me

THE KILLER INSIDE ME
Regia di Michael Winterbottom, con Casey Affleck, Kate Hudson, Jessica Alba.

Voto: 2,5 su 5

Una carogna, una vera carogna. Ecco chi è il vice sceriffo Ford. Una mezza calzetta di vice sceriffo in una cittadina qualsiasi nel profondo sud degli Stati Uniti degli anni 50. Una cittadina storicamente insignificante, salvo poi crescere economicamente con il boom industriale del dopoguerra. Casey Affleck (il protagonista) interpreta il ruolo principale con un piglio sardonico che da solo basta a rendere visceralmente antipatico il personaggio. Una mezza calzetta con le mani in pasta dappertutto, che dispensa favori più per cogliere la benevolenza dei concittadini che per sua bontà d'animo, che non esita ad approfittare di una giovane e bella prostituta (una splendida Jessica Alba) e contemporaneamente mantenere la sua relazione  con la fidanzata ufficiale (una sciapa Kate Hudson). Relazioni coltivate con una quantità non propriamente modica di deviazione sadomaso, realizzata a suon di pugni e sculaccioni. Sotto la scorza del bravo ragazzo e del tutore della legge si nasconde in realtà uno spietato assassino, disposto a tutto pur di soddisfare la sua indole sadica. Perchè tutto quello che succede nel film non avviene secondo cliché sulla spinta della sete di denaro o sete di successo o altri forti stimoli, ma solo per dare sfogo alla proria indole omicida (da cui il titolo). Ecco che allora, oltre ad una girandola di sesso estremo, emerge imperiosa e inarrestabile una sete di vendetta (inconsciamente?) covata e pianificata da tempo. Una ciliegia tira l'altra...

Un noir di genere? Un pulp alla Tarantino? Nè l'uno nè l'altro. The killer inside me non ha lo stile nè l'eleganza di un classico noir, non ha la simpatica truculenza sanguinolenta di un pulp. E' solo un film violento. Nasce e rimane una storia di violenza piuttosto gratuita in quanto non spiegata, se non superficialmente, da motivazioni psicologiche appena abbozzate qua e là nel film. E il vice sceriffo Ford rimane agli occhi dello spettaore solo una mezza calzetta di provincia senza fascino e fondamentalmente sgradevole nonostante il faccino da bravo ragazzo. Niente a che fare con quei criminali d'antan, dalla mascella di pietra e lo sguardo di ghiaccio che riuscivano a far innamorare il pubblico con un solo sguardo... Prendete uno come Robert Mitchum e mettetelo a confronto con Casey Affleck e il gioco è fatto.
Michael Winterbottom è un regista britannico con un passato di cinema civile e sociale anche a tinte molto forti e drammatiche (9 songs....), che alla sua prima uscita americana sforna questo film ambiguo e non del tutto convincente la cui visione lascia alla fine un vago sapore di opera incompiuta....
Bella, però, la colonna sonora.

lunedì 22 novembre 2010

Il rugby "pane e frittata" esiste ancora?

Gira una storiellina sul rugby e i rugbysti. Lo spunto è quello solito: mettere a confronto il mondo del rugby semplice e ruspante con quello del calcio superprofessionistico e modaiolo. Ma in fondo il confronto può valere anche in senso allargato. Va doverosamente premesso che nessuno vuole demonizzare lo sport del calcio, bensì il mondo che gli sta intorno, che con lo sport vero non ha nulla a che fare.

C'è da dire che il rugby di oggi di alto-altissimo livello è sempre più lanciato verso l'olimpo calcistico (olimpo?). I soldi che girano nel rugby sono solo un'infima parte di quelli del calcio e inoltre tutto il movimento di base resta semiprofessionsitico o del tutto dilettantistico. Insomma soldi pochi e pane&frittata tantissimo.... La storiellina fa leva proprio sulla genuinità del pane&frittata e sui valori altrettanto genuini del rugby come sport che avvicina e non divide.
Buona lettura:


Un rugbysta ed un calciatore si trovavano al bar, discutendo dei rispettivi sport....

Il rugbysta ovviamente faceva notare che il suo stipendio era basso, che non aveva Veline o modelle che gli facessero la corte,
che doveva sudare per stare attaccato al proprio compagno, perdendo a volte anche per colpa sua......
ma di tutto ciò non si lamentava....
Il calciatore, dopo un po', chiese al rugbysta "ma allora perchè fai tutto questo,
prendi un sacco di botte, ti fai male spessissimo, i tuoi avversari non vedono l'ora di tirarti giù,
non hai un grosso conto in banca, una bella ragazza al tuo fianco te la devi cercare,
per colpa dei tuoi compagni perdi tu, che magari sei senza colpe.....ma allora sei proprio uno scemo...."
A tali parole, il rugbysta prese per il bavero il calciatore sollevandolo di un metro dal pavimento e lo scaraventò a terra.....
Adesso ti spiego: primo motivo: un intervento come questo è più che regolare....."
poi, porgendogli la mano "il secondo è questo: non disprezzo gli avversari...."
infine, porgendogli una birra"questo è il terzo: il rugby è la guerra con l'armistizio più bello che c'è".


sabato 20 novembre 2010

Margherita e il tabaccaio. Un bacio tira l'altro

Ieri giornata interessante. Di baci di vario tipo. Mo' vi spiego.

In pausa pranzo sono andato in uno dei soliti bar dove consumo un pasto veloce, visti i tempi ristretti. Un locale con un sacco di gente e due cameriere che girano come trottole tra i tavoli affollati di gente, spesso nervosa e comunque di fretta. Mi fanno un po' pena sballottate come sono tra un insalata e un panino allo speck. Una di loro si chiama Margherita, la più simpatica delle due. Magrissima, carina, uno scricciolo che ispira tenerezza. Ma anche efficiente, rapida e attenta al cliente. In fin dei conti, col mestiere che faccio (sono un "commerciale"), dovrei avere l'occhio allenato. Non occorre neppure ordinare, sa bene a memoria cosa prendono i clienti abituali e va via spedita. Tuttavia il precedente gestore, noto cafone maleducato e inviso a tutti, trattava Margherita e la sua collega in maniera indegna. Modi bruschi e autoritari, del tutto inutili vista la lena con cui le due ragazze sgambettano senza sosta. Se non ricordo male qualche volta il padrone si è preso le lagnanze di qualche avventore per come venivano trattate le ragazze. Acqua passata, la nuova gestione è tutt'altra cosa. Gente educata e con il sorriso sulle labbra. Con tutti.
Succede che oggi Margherita accompagna un cliente al tavolo davanti al mio, lo fa accomodare, poi gli si avvicina e gli da un bacetto sulla guancia. Ohibò. Osservo divertito la scena e quando mi passa accanto dico a Margherita con una strizzatina d'occhio: Beh, cosa sono questi trattamenti speciali? A lui un bacio e a me solo l'acqua minerale?. Ma no, -risponde Margherita- lui è un mio amico da tanti anni. Un cliente speciale.
Ah, ho capito, -dico io-  favoritismi. Ecco la verità.  Margherita sorride divertita dimostrando di stare al gioco. E poi aggiunge: Però per un cliente come lei, posso anche fare uno strappo alla regola! Si avvicina e da un bacetto sulla guancia anche a me. Accidenti, non me l'aspettavo. Sono diventato rosso come un peperone in un nanosecondo. Per fortuna che la barba ha coperto la reazione imbarazzata. Grande Margherita, hai acquistato un sacco di punti nella scala di gradimento. Oltre che simpatica ed efficiente, anche spiritosa... e in grado di far arrossire un orso come me. Tralascio i risolini divertiti di quelle jene dei miei colleghi... Peccato che Margherita abbia più o meno l'età di mia figlia. Se avessi 30 anni di meno penso che le farei la corte.
Pomeriggio. Finisco di lavorare e faccio un giretto per il centro, visto che il mio ufficio è proprio in zona centralissima; per chi non conosce Padova, a due passi dall'isola pedonale, dal Caffè Pedrocchi, il palazzo del Bo e le Piazze. Una "vasca", come si usa dire. Di venerdi dopo una settimana di lavoro, è particolarmente gradita e rilassante. Guardo un po' di vetrine, adocchio un paio di orologi che mi piacerebbe avere (sono un patito di orologi). Insomma bighellono in pieno relax. Passo in tabaccheria, in vero non la mia solita, ma una qualsiasi che trovo girovagando a caso. Faccio la solita scorta settimanale di sigari, compro un paio di gratta&vinci (non si mai, la fortuna bisogna stimolarla...). Totale 40 euro. Pago con un biglietto da 50 e il tabaccaio mi consegna il resto e il sacchettino con i toscani. Metto tutto in tasca ed esco. Poi mi fermo in un bar delle Piazze per uno spritz. Faccio per pagare e mi trovo in tasca due biglietti da 10 euro. Strano. Faccio un po' di mente locale e ricostruisco che il tabaccaio mi ha dato 10 euro in più di resto. Due biglietti da dieci invece che uno soltanto. Lì per lì me ne compiaccio, una specie di piccolo regalo inaspettato. Ma poi penso che non sarebbe giusto tenerseli. Mi tornano in mente gli anni di quando lavoravo in cassa e a fine giornata anche la differenza di cinque o diecimila lire nella contabilità (era ancora l'epoca delle vecchie lire) dovevano essere ripianate e questo mi dava un fastidio terribile. Il più delle volte degli errori nei resti non ci si accorge e non c'è malafede, salvo quando non si tratta di pagamenti più importanti per i quali il cliente non sia arrivato con i conti già fatti e il denaro già contato. Significa che sa quanto deve pagare e che resto gli spetta. Ma in tutti gli altri casi di pagamenti più banali e frettolosi, non c'è mai o quasi malafede. Epperò chi ci rimette i soldi, alla fine, è il cassiere. In questo caso, il tabaccaio. No, non sarebbe giusto, dal momento che me ne sono accorto. Faccio dietrofront e ritorno in tabaccheria. Entro e dico al titolare che si deve essere sbagliato nel darmi il resto. Questi fa una faccia sorpresa e infastidita. Evidentemente pensa d'istinto che sia io a reclamare qualcosa. Invece gli spiego che l'errore è a suo danno e gli restituisco i 10 euro.
Mi guarda ancora più sorpreso e fondamentalmente incredulo. Mi dice: E' raro trovare persone oneste come lei. Vorrei quasi spiegargli che anni addietro lavoravo in cassa ed ho una certa esperienza in materia. Ma lascio stare.
Mi limito semplicemente a dire che era mio dovere. E allora per riconoscenza il tabaccaio, con un inquietante paio di baffi dall'aspetto infido, mi da un bacio. Ohibò. Stavolta ad essere sorpreso sono io. Ma allora è questa è proprio la giornata dei baci.
Per fortuna che questo era un bacio perugina. Meglio Margherita...!!

lunedì 15 novembre 2010

Violenza gratuita. Ma c'è un perchè.

Violenza sempre. Gratuita e immotivata. La legge del più forte come regola di vita, come strumento per imporsi con tutti e su tutti. Agli angoli delle strade, con sfacciataggine e anche sotto gli occhi delle forze dell'ordine. Cosa che forse è l'aspetto più grave e inquietante della vicenda. Perchè ci si aspetta che Polizia e Carabinieri siano un punto di riferimento al di sopra delle parti.

Ma la vicenda accaduta a Roma di cui oggi si legge sui giornali dimostra che non è sempre così.

Roma, tarda serata, auto in sosta vietata che sta per essere rimossa dal carro attrezzi. Il propritario si oppone e si offre di spostarla immediatamente per non pagare i costi della rimozione. Per forzare la situazione fa salire in auto la moglie e il figlioletto per impedire che sia portata via. Invoca il sequestro di persona. Fin qui niente di eccezionale, purtroppo scene del genere si vedono molto spesso sulle strade delle nostre città. Sul posto ci sono i Carabinieri a controllare la situazione e vigilare sulla rimozione dell'auto. Una garanzia per tutti? Una sicurezza per entrambi i contendenti (con moglie e figlioletto)? Macchè. Niente di tutto questo. Anzi... l'uomo del carro attrezzi è talmente intimorito e messo in riga dalla presenza dei Carabinieri che si sente autorizzato a colpire con un terrbile pugno diretto al viso il proprietario dell'auto (fratture multiple e 35 giorni di prognosi). I Carabinieri a questo punto intervengono con decisione e bloccano l'aggressore? Niente affatto: si indirizzano al figlio dell'aggredito e gli intimano di esibire i documenti e di cessare di riprendere la scena con il telefonino. Che cosa succede per giustificare questo capovolgimento di ruoli e di azioni in cui si vede la vittima a terra curato da un soccorritore dell'ambulanza e un carabiniere fermare il figlio della vittima col telefonino, mentre l'aggressore continua indisturbato a fare ciò che stava facendo, ossia rimuovere l'auto in divieto di sosta col carro attrezzi invece di essere portato in caserma con l'accusa di lesioni e aggressioni? Il mondo è capovolto? Va al contrario? Qualcuno è forse impazzito?

No. La spiegazione è semplice: l'auto da rimuovere è di uno straniero, un rumeno. L'uomo del carro attrezzi -italiano- evidentemente per questo motivo si sente autorizzato ad alzare le mani e spaccargli la faccia (in presenza di moglie e figli), il carabiniere a sua volta con la scusa di esibire i documenti entro tre secondi pena l'arresto immediato si sente autorizzato a bloccare il figlio del rumeno impedendogli di fare le riprese video.
E' rumeno, adesso si capisce tutto. Persona "speciale", di serie B. Tutto si spiega.
Bastava dirlo subito, perdio.

L'articolo: http://roma.repubblica.it/cronaca/2010/11/14/news/romeno-9110738/
Il video: http://tv.repubblica.it/cronaca/l-aggressione-al-cittadino-romeno/56567?video=&pagefrom=1

venerdì 12 novembre 2010

La scomparsa di Patò

Vigàta, 21 marzo 1890: il ragioniere Antonio Patò, direttore della locale sede della "Banca di Trinacria", funzionario irreprensibile, marito integerrimo e padre amoroso, scomparve nel nulla durante la sacra rappresentazione del Mortorio il giorno di Venerdì Santo, nella quale egli stesso medesimo interpretava il ruolo di Giuda. Che fine fece, meschino? Morì? Si nascose? E soprattutto, perché scomparve? Il mistero è fitto a Vigata e la gente in paese non parla d'altro.

Formidabile. Geniale. Diavolo di un Camilleri, questo suo libro-racconto scritto in forma di dossier, a metà tra la commedia di costume e il giallo è qualcosa di memorabile. Invece che la solita classica narrazione Camilleri sceglie di proporre ai suoi lettori una sorta di raccolta di articoli di stampa, di rapporti di polizia, di resoconti di cronaca ed epistolari attraverso cui i personaggi prendono vita come se si trattasse di un racconto in forma classica. Una sorta di mosaico le cui tessere vanno a comporre un po' alla volta il disegno complessivo della vicenda. Con grande sollucchero finale da parte del lettore... Il tutto con il linguaggio ampolloso e ridondante dell'epoca tardo ottocentesca, in siculo-italiano macheronico e con un senso dell'humour stentatamente tenuto a freno dal taglio di cronaca quotidiana e di burocratese, ma che in realtà colpisce profondamente nel segno riuscendo spesso a far sbellicare dalle risate il lettore. Certi rapporti di polizia sono da antologia nella loro pedanteria apparentemente inutile e stupida. La coppia di inquirenti costituita dal maresciallo dei Regi Carabinieri e dal delegato di Pubblica Sicurezza assomigliano a Gianni e Pinotto per la loro goffaggine e inadeguatezza. Ma attenzione a non farsi ingannare dalle apparenze, perchè come dice il proverbio "scarpe grosse e cervello fino...".

La scomparsa di Patò è purtuttavia di una modernità assoluta. Sebbene la vicenda si svolga come detto alla fine dell'ottocento, i caratteri dell'attualità ci sono tutti: politici ammanicati con il potere finanziario e mafioso, funzionari statali preoccupati di compiacere i politici piuttosto che fare fino in fondo il proprio dovere, media borghesia agiata e popolino ignorante cibato a forza di storie popolari e dicerie di paese, religione e fanatismo da sagrestia che vanno a braccetto con disinvoltura. Ma su tutto regna l'ironia e il sarcasmo di Camilleri nel descrivere questa sua personalissima Sicilia tra le immaginarie Vigata e Montelusa che poi si ritrova tal quale ai giorni d'oggi nei romanzi del Commissario Montalbano. Un piccolo esempio: durante la rappresentazione del Mortorio, ossia la Passione di Cristo, la gente del paese si appassiona così tanto che finisce con l'intervenire direttamente sostenendo o contestando taluni personaggi. E' il caso di Giuda il traditore per antonomasia. Ad un certo punto qualcuno gli tira un coltello che lo manca di poco e si conficca sulle tavole del palcoscenico. Il rapporto di polizia chiarisce le circostanze stabilendo senza ombra di dubbio alcuno che non trattasi di attentato vero e proprio ma di un gesto simbolico di un pio e fedele spettatore che intendeva punire per le vie brevi il tradimento di Giuda che vende Gesù per i famosi trenta denari. Nulla di cui preoccuparsi.  Parola di Andrea Camilleri.

P.S.: all'erta! Del libro è stato tratto un film di prossima uscita con Nino Frassica, Maurizio Casagrande, Neri Marcorè. Personalmente non me lo perderò.

mercoledì 10 novembre 2010

Film visti. Last night

LAST NIGHT


Regia di Massy Tadjedin
con Keira Knightley, Eva Mendes, Sam Worthington, Guillaume Canet.

Voto: 2 su 5

Dare un due come voto a questo film è forse fin troppo generoso, perchè per tutta la sua visione l'ho trovato semplicemente irritante. A cominciare dalla confezione patinata, che trasuda ricchezza e successo alquanto stridenti in periodi di crisi planetaria come quelli attuali. E' l'America-bene bianca e debordante di dollari quella che troviamo in questo film della sconosciuta regista di origini iraniane Massy Tadjedin presentato la settimana scorsa al Festival del cinema di Roma. Un'America della middle class che non sembra avere altri problemi esistenziali se non quella di riempirsi il bicchiere ogni cinque minuti e pensare a come passare la notte. E soprattutto con chi.
Tutta la vicenda si svolge nell'arco di circa 24 ore e vede l'intrecciarsi delle vite di una coppia sposata con due "esterni" che in qualche modo entrano in rotta di collisione con loro. Un giro a quattro con Lui (Sam Worthington, belloccio quanto spento) che lavora seriosamente nel campo immobiliare, mentre Lei (Keira Knightley, brava e caruccia) scribacchia di moda come freelance, ma la sua attività ci appare più come un hobby che un vero mestiere. Niente figli, ma molte frequentazioni sociali "giuste". Su tutto e su tutti regna sovrana una noia palpabile. Succede che lui incappa in una collega di una bellezza vistosa (Eva Mendes, uno schianto di muchacha ispanica) che attira la gelosia immotivata della moglie. Ma guai a svegliare il can che dorme.
Accade tutto dopo una scenata di lei per la troppa disinvoltura con cui lui sembra rapportarsi con l'appariscente collega di lavoro. Una gelosia piuttosto gratuita oppure fin troppo previdente, dipende dai punti di vista dello spettatore. Il caso vuole che Lui e la collega debbano assentarsi per lavoro lasciando sola Lei. Ma ecco che improvvisamente salta fuori una vecchia fiamma di Lei che risveglia vecchie passioni mai sopite....  Da qui in poi il film si sdoppia narrando in contemporanea le due vicende (Lui con la collega in trasferta e Lei con il suo ex in città). Un intreccio di sguardi, di passioni e di dialoghi del genere "intelligente e brillante che fa tanto figo", con una sequenza interminabile di approcci più o meno diretti e dichiarati in un tentennamento estenuante e per nulla appassionante. E anche con risvolti francamente ridicoli oltre che improbabili. Mi riferisco per esempio ad un galeotto bagno in piscina di Lui con la collega belloccia, col favore delle ombre fedifraghe della notte. Ma pudicamente vestiti... per non eccedere reciprocamente nelle tentazioni della carne. Comico e sguaiatamente puritano. Perchè è questo il limite maggiore del film: dopo aver portato lo spettatore nel pieno dell'intreccio di potenziali infedeltà e torbidi tradimenti, tutta la matassa si srotola in maniera piatta e priva di interesse. Come leggere un libro noioso che, pagina dopo pagina, non decolla mai. Il film è infarcito di una quantità di situazioni molto cerebrali giocate sul filo del dialogo da sofisticated comedy, ma senza averne il brio e l'interesse, rivelando in realtà di avere poco o nulla dire oltre a manifestare un'esistenza annoiata e agiata tale da togliere stimoli e spinte emozionali che non siano una bottiglia da scolare dopo l'altra. E questa è una caratteristica insopportabile del film, ma anche di un certo cinema patinato americano. Da quando negli Usa il fumo è stato criminalizzato e bandito da tutti i luoghi pubblici in virtù delle crociate salutiste tipicamente americane, l'esercito di sceneggiatori cinematografici si è trovato col problema di cosa far fare in scena agli interpreti tra una dialogo e l'altro. Finchè si tratta di un film d'azione o comunque di una trama movimentata, il problema non si pone, ma se si tratta di altro genere più "dialogato" e statico i protagonisti tengono sistematicamente un bicchiere in mano che riempiono e svuotano in continuazione. Un bere continuo e con grande varietà di gusti: vino bianco, rosso, alcoolici di tutti i tipi, caffè e risciacquature varie. Qualunque cosa pur di avere un bicchiere in mano. Stomachevole e diseducativo. Ma agli occhi dei perbenisti stelle e strisce è evidentemente molto più disdicevole fumare che svuotare a raffica bottiglie di alcoolici...
Dalla padella nella brace. SPQA (Sono Pazzi Questi Americani).
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giovedì 4 novembre 2010

Libri. La bolla solipsistica

Grande Ammaniti. Grazie Ammaniti. Il nuovo romanzo torna alle vette alle quali Niccolò ci aveva abituati con i suoi precedenti lavori, ad eccezione del deludente e francamente eccessivo e grottesco Che la festa cominci, pubblicato l'anno scorso. Parlo di Ti prendo e ti porto via, di Come Dio comanda. Veri capolavori. Che sollievo ritrovare intatta quella sua capacità di descrivere situazioni e personaggi con eleganza e una immediatezza quasi fotografica. Il fluire sciolto e magnetico del suo narrare. Una volta iniziato a leggere Io e te è difficile fermarsi. La costruzione del libro di Ammaniti è scarna e ridotta all'essenziale. Pochi i personaggi, poche le vicende che si susseguono dall'inizio alla fine. Ma splendidamente descritti. Cosa chiedere di più?

L'unico neo, del tutto marginale, è il layout del libro. Sulla disadorna copertina, uno scarabocchio (scarno come il romanzo...?), pomposamente spacciato per disegno (dello stesso Ammaniti). Ho visto di meglio. Mai come in questo caso, però, la sostanza sopravvanza la forma.

Faccio un passo indietro e torno al titolo del post. Che vuol dire "bolla solipsistica"? Boh, francamente me lo sono inventato, ma a dire il vero un significato ce l'ha. Mi è venuto in mente dopo aver letto il libro quasi tutto d'un fiato (è un romanzetto tanto breve quanto bello, circa 100 pagine) perchè tra le altre, mi hanno colpito due cose. Nel risvolto di copertina si parla di sogno solipsistico di felicità del giovanissimo protagonista. Il termine e il concetto mi hanno inizialmente "incagliato" non poco, non capendo che volesse dire. Una breve ricerca e il mistero è svelato: solipsismo, dal latino solus (solo) e ipse (stesso), ossia "solo se stesso". Infatti Lorenzo, il ragazzino, va alla ricerca di una propria dimensione e di una identità tutta sua isolandosi e chiudendosi in cantina, facendo credere a tutti (riuscendoci) di essere andato in settimana bianca a Cortina, ospite di compagni di scuola. E la bolla che c'azzecca? Lì in quella cantina, un piccolo mondo chiuso ma confortevole all'interno del quale Lorenzo decide di installarsi in segreto ma in maniera accogliente, succederanno delle cose e verrà in contatto con una persona che lo segneranno indelebilmente per sempre. Il riferimento in sè alla bolla lo si trova in un passaggio del libro appena accennato marginalmente e in modo quasi insignificante, allorquando ci si imbatte in una descrizione brevissima sullo stato d'animo di Lorenzo che si trova imbottigliato in auto con sua mamma nel traffico di Roma. Un paio di righe, non di più. Ma illuminanti. Beh, qui siamo di fronte ad una di quelle situazioni che assomigliano molto a una rivelazione. Come quando si gira intorno ad una idea o ad un concetto che sono più o meno abbozzati, ma che poi si appalesano e si svelano completamente in un attimo. Spesso per merito di fattori esterni. Una lettura, un discorso, una chiacchiera. Che bella l'immagine della bolla, accogliente e confortevole, che ci circonda e ci protegge. Fragile, incosistente, fatta di nulla se non di sensazioni. Ma comunque protettiva. Quante possono essere le bolle che ci fanno sentire bene con noi stessi e spesso non dipendenti da nessuno? Ognuna ha la sua, di bolla. Ognuno se la può inventare o costruire. Per esempio una delle mie bolle preferite ha una dimensione e un collocamento ben preciso: di sera nella mia camera, un buon libro che attende solo di essere letto, la penombra della stanza rotta solo dalla abat-jour sul comodino e la radio che diffonde musica jazz di sottofondo, discreta e calda. Il piacere di poter fare tardi senza di preoccupazioni di risvegli odiosi per andare al lavoro. Ecco cos'è una bolla, una delle mie bolle. Geometricamente, una sfera. Ovvero una delle figure geometriche perfette. Tridimensionale, perfetta nella forma, perfetta nell'equilibrio che la governa, perfetta da qualunque punto la si osservi. Mi ricordo ancora la formula del volume, memorizzata in forma quasi di cantilena, come si usava a scuola (ai miei tempi). Sono passati circa trentacinque anni, ma mi sembra praticamente l'altro giorno....quattroterzipigrecoerretrè. Olè.
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martedì 2 novembre 2010

La spettinatura



Non condivido la tua idea, ma darei la vita perchè tu possa esprimerla.

Francois-Marie Arouet (Voltaire)

Se fosse ancora vivo e putacaso si trovasse qui in Italia al giorno d'oggi, Voltaire non si farebbe nemmeno spettinare per difendere certi miserevoli personaggi che governano il nostro paese.
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lunedì 1 novembre 2010

Film visti. Angelina, bella e terribile

SALT


Regia di Phillip Noyce, con Angelina Jolie, Liev Schreiber, Chiwetel Ejiofor.
[Voto: 2.5 su 5]

Giornataccia di pioggia, una noiosa domenica pomeriggio senza grossi avvenimenti sportivi da seguire, nè dal vivo, nè in tv. Cosa c'è di meglio di un pomeriggio al cinema? Peccato che la stessa idea l'abbiano avuta migliaia di persone, tutte insieme contemporaneamente, col risultato di un casino incredibile al solito cinema e mangiatori di pop corn inarrestabili nelle poltroncine di fianco e intorno alla mia. Vabbè, cerchiamo un lato positivo: almeno chi rumina pop corn non parla e non disturba con chiacchiere inopportune e fastidiose.
Prima di tutto dico che ho scelto Salt non perchè fossi particolarmente interessato al film sollecitato da qualche nota di pregio letta sulle recensioni. Bensì solo perchè tra gli interpreti c'è Angelina Jolie, una delle donne più belle e affascinanti che sia dato di vedere in circolazione attualmente. E anche discreta come attrice. Dopo questo outing doveroso sulla mitica Angelina, c'è da dire che la regia è di Phillip Noyce, un solido ed affidabile mestierante dietro la macchina da presa, specializzato in film polizieschi di buona fattura (Collezionista di ossa, Giochi di potere...). Dunque le premesse per un film appassionante, ben girato e da ammirare esteticamente (...Angelina) ci sono tutte e tutte sono rispettate. Quindi il film è raccomandabile per gli amanti del genere. Inoltre si torna a parlare (e vedere) di lotte spionistiche tra Est e Ovest, Americani e Russi, insomma un po' di sano revival di Guerra fredda, dopo un sacco di terroristi islamici sempre più o meno incazzati neri. Ed anche la giusta dose di inverosimiglianza della trama rientra nelle regole del gioco. L'agente Cia Eve Salt (proprio lei, Angelina) sembra una copia al femminile dell'Uomo ragno per come salta da un tir all'altro senza sfracellarsi minimamente. Ha una determminazione e spietatezza sovrumane nel compiere la sua missione, in puro stile KGB. La trama riserva una serie di colpi di scena che fanno sì che lo spettatore non allenti mai l'attenzione, anche se un occhio "allenato" riesce a prevederli e anticiparli in buona parte. Ma questo è un altro discorso.
Insomma un buon film, che appassiona e piace. Alla fine si esce soddisfatti e ...ancor più innamorati di Angelina, dopo averla sentita languidamente mormorare più volte "voglio unirmi a te, voglio stare con te", come se la richiesta/offerta, invece che ad un killer bieco e spietato e con lo scopo di ammazzare qualche milione di persone, fosse rivolta con ben altri fini proprio a noi spettatori maschietti, tutti allineati in platea con la bocca spalancata e gli occhi sognanti.
Vabbè, mi fermo qui. Non occorre aggiungere altro, se non che oggi piove ancora a dirotto, è festa e quindi anche oggi pomeriggio si va al cinema...! Sacrifici piacevoli che si fanno sempre volentieri.

martedì 26 ottobre 2010

L'eschimese

Capita a tutti, prima o poi, di pensare a Dio e alla sua esistenza. Chi più chi meno, salvo rare eccezioni, siamo tutti stati educati alla religione e alle sue istituzioni, perchè Dio e la Chiesa sono insiti nella nostra cultura (cristiana, italiana e occidentale). Naturalmente Dio e la Chiesa sono cose diverse e ben distinte, anche se nel sentire comune è difficile che la differenza venga colta in maniera chiara e netta. Che piaccia o no è così, anche se nella maggior parte dei casi l'approccio a Dio e alla Chiesa avviene più per abitudine o tradizione, piuttosto che per vera convinzione o vera fede. D'altronde cos'è la fede? Chi può dirsi realmente fedele o non fedele; credente o non credente? Credo che molto spesso queste etichette siano abbastanza di facciata o formali e molto raramente siano realmente sentite, ponderate, volute e quindi vere. Io per esempio, sono stato educato a credere a Dio e a frequentare la chiesa. Fino a quando non ho cominciato a ragionare con la mia testa e a pormi delle domande. I classici dubbi della crescita e della maturazione, sia fisica che mentale. Ma penso che si tratti di un percorso non solo mio, bensì di molti se non di tutti. Poi ognuno con la sua testa potrà confermare o rafforzare gli insegnamenti ricevuti oppure discostarsene per scelta. Si tratta di una crescita individuale opportuna e necessaria che deve fare i conti anche con le esperienze maturate. Frequentare o non frequentare la chiesa fa evidentemente la differenza, perchè spesso non si sa di cosa si parla in realtà e non si conosce nulla o quasi di cosa significhi vivere dentro l'istituzione ecclesiale (banalmente: la parrocchia), sia dall'interno, come religioso che dall'esterno, come laico.

Ciò detto, torno al punto di partenza. Capita di fermarsi a riflettere su Dio e sulla sua esistenza. Esiste o no un dio? E in che modo si manifesta? Belle domande. Ma senza risposta, se non quelle che possono venire dalla riflessione soggettiva e personale.
Leggete questa storiellina. L'ho sentita in un film (non ricordo più quale), pronunciata da un personaggio di contorno, ma che mi è rimasta impressa.

L'eschimese.
Dio, Gesù, Allah, Maometto o Buddha non esistono. Ne sono sicuro. Ogni volta che ho avuto bisogno di loro li ho invocati con fede, ma nessuno si mai fatto vivo. Sono cristiano e sono stato educato a credere in Dio e Gesù, ma in realtà non esistono. E lo posso dimostrare. Tempo fa mi sono trovato nell'estremo nord dell'Alaska. Il mezzo di trasporto che utilizzavo è andato in panne e si è fermato. Ero bloccato a 40 sotto zero, in mezzo al ghiaccio e nella tormenta, a decine e decine di km dalla città più vicina. Non sapevo che fare, ero spacciato. E allora ho invocato Dio che mi aiutasse e mi salvasse. L'ho pregato di far ripartire il motore, di far cessare la tormenta, di non farmi morire congelato. E invece niente. Non si è fatto vivo. Mi ha lasciato lì, abbandonato nel ghiaccio. Si è dimenticato di me ed ha ignorato le mie preghiere.
Come posso raccontarlo adesso, vivo e vegeto? E' semplice. Al terzo giorno che stavo lì e ormai ero semi congelato e rassegnato a morire, è passato da quelle parti un eschimese con la sua slitta trainata dai cani. Mi ha visto e mi ha salvato portandomi al caldo e dandomi da bere e mangiare. Se sono vivo lo devo a lui, all'eschimese, mica a Dio. Lui neanche s'è fatto vedere.
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domenica 24 ottobre 2010

Film visti. In nome del dio denaro

WALL STREET - "Il denaro non dorme mai"
Regia di Oliver Stone, con Shia LaBeouf, Michael Douglas.

Voto: 1 su 5

Questo sequel di Wall Street dello stesso Stone (l'originale risale addirittura al 1987, con Oscar a Michael Douglas) vorrebbe tornare ad essere cinico e spregiudicato come il primo, vorrebbe mostrarsi ancora una volta come film di denuncia del marciume che regna nel mondo finanziario che conta davvero, vorrebbe dare dignità umana e accreditare di sensibilità paterna anche le iene di Wall street. Ma in realtà è solo una ciofeca. Perchè fare un film così? Per sfruttare il successo di un precedente film vecchio di svariati anni poichè il marcio sta sempre lì? Per cavalcare il malcontento dell'opinione pubblica in questi anni di crisi? Per dare addosso ai banchieri felloni e agli speculatori che hanno messo in ginocchio il mondo intero? Per far sapere agli spettatori di non fidarsi di chi promette soldi facili senza alcuna responsabilità personale? Qualunque sia la motivazione, il risultato è scadente. Mi dispiace per Oliver Stone, ma questo film è una vera delusione. Irritante prima di tutto per il linguaggio criptico e iniziatico infarcito di tecnicismi incomprensibili a chi non abbia una cultura o una formazione di carattere finanziario. Lo spettatore medio, quale io mi ritengo, è impegnato per tutto il film a inseguire i significati di espressioni gergali, di acronimi incomprensibili, di definizioni oscure da Piccolo Bignami del perfetto finanziere. Ma irritante anche per l'inconcludenza della vicenda dove tutto è prevedibile, dove ci sono i buoni e i cattivi rigidamente inquadrati e con un finale in sfacciata controtendenza con tutta la ferocia morale ed etica mostrata fino a pochi minuti prima, con un voltafaccia da stendere un cavallo per la piatta banalità della soluzione conclusiva. Insomma, come ho già detto, una vera ciofeca. Michael Douglas ormai ha messo in bacheca l'Oscar del 1987 e recita solo se stesso, sempre con quel cinico sorrisetto sardonico stampato in faccia qualunque cosa succeda e qualunque ruolo interpreti, mentre il giovane LaBeouf farebbe meglio a tornare a dedicarsi a filmetti su giovani collegiali brufolosi alle prese con i primi tiramenti amorosi. Con tutta la stima per Oliver Stone, che pure in passato ha fatto grandi cose, questo Wall street parte seconda è da evitare assolutamente. Ci basta e avanza la realtà quotidiana per farci un'idea del livello morale che regna tra le iene di Wall street.

martedì 19 ottobre 2010

" 'A livella" non è uguale per tutti

'A livella secondo il grande Totò era la Morte, quella con la M maiuscola, perchè l'unica cosa in grado di azzerarci tutti e di renderci tutti uguali, nessuno escluso. Non ricchi, non potenti, non umili, non santi. Davanti alla morte gli uomini vengono piallati tutti indistintamente senza pietà.
Ebbene, se oggi Totò fosse vivo, non so se la penserebbe allo stesso modo. Il paradosso lo abbiamo visto reale e concreto ieri quando la polizia ha eseguito l'arresto del balordo che ha ucciso con un pugno alla stazione di Roma una donna di trentacinque anni, madre e moglie. Il colpevole dell'omicidio ha ricevuto il sostegno, la solidarietà e il conforto di circa duecento persone che si erano radunate sotto casa sua e che hanno riempito di improperi i poliziotti che hanno compiuto l'arresto. Perchè tutto questo? Perchè la morte non è uguale per tutti. C'è morte e morte...  La vittima del bullo romano aveva una colpa grave che la rende diversa dagli altri, anche da morta: era rumena. In forza di ciò la gente sotto casa dell'assassino si è sentita in diritto di contestare l'arresto e di invocare la libertà per il bullo. Che peraltro è stato colto in flagrante dalle telecamere della stazione Anagnina e dunque non vi è alcun dubbio sullo svolgimento dei fatti che hanno portato alla morte della giovane donna.
Il giovanotto, pregiudicato per reati minori, si è detto più volte pentito del suo gesto. Ma guardate la foto a lato: la sua faccia coperta in parte dal cappuccio non sembra la faccia di un pentito roso dal rimorso. Ride. Un ghigno beffardo, altro che contrizione e disperazione per aver spezzato una vita. Evidentemente il sostegno degli amici ha fatto il suo effetto, al di là delle dichiarazioni di circostanza probabilmente suggerite dal suo avvocato. E' diventato una specie di eroe. Ma è e rimane un assassino che ha sfogato la sua stupida aggressività su una donna, dopo averci litigato e averle sputato addosso. Uno schifoso vigliacco, altro che eroe.
Dal Corriere della Sera:
Quando sono arrivati i carabinieri , sotto casa di Alessio Burtone si era radunata una folla, che ne ha chiesto la liberazione, con amici che hanno urlato frasi come «Alessio uno di noi» o «Alessio libero». Tensione e applausi. Si aprono così le porte del carcere di Regina Coeli per Alessio Burtone, il giovane di 20 anni accusato di avere con un pugno provocato la morte di Maricica Hahaianu, infermiera romena deceduta venerdì scorso in un ospedale romano. Il gip Stefano Di Lorenzo lunedì ha firmato l'ordinanza notificata dai carabinieri a Burtone che lascia gli arresti domiciliari e viene condotto nel carcere di Regina Coeli. E’ accusato di omicidio preterintenzionale. L'ordinanza è motivata per pericolo di fuga e di inquinamento delle prove.


Questa vicenda fa il paio con l'altra di Milano, in cui un tassista è in fin di vita dopo essere stato massacrato di botte -un vero e proprio linciaggio ad opera di un branco- dagli amici della padrona di un cane che era finito sotto le ruote del suo taxi. il cocker era sfuggito al controllo della padrona, probabilmente perchè senza guinzaglio. Gli amici della ragazza hanno selvaggiamente picchiato il tassista. Perchè? Per quale meccanismo logico si picchia a morte l'autore di un atto di cui non ha nessuna responsabilità? E soprattutto perchè dopo gli amici degli indagati se la sono presa con i testimoni del fatto, minacciandoli e bruciando la loro automobile?  
Ciò che lega i due episodi, oltre alle considerazioni sulla diversa valutazione della morte di una persona straniera, è la violenza brutale, cieca e sproporzionata di cui sono rimasti vittime i due aggrediti. Perchè è la violenza, fisica e verbale, il paradigma di vita dei nostri tempi. E di esempi ne vediamo tutti i giorni. I modelli di vita e di comportamento che ci vengono offerti dai media, televisione in primis, sono comunque pervasi da un fondo di violenza inaudita. Non è forse violenza l'azzuffarsi dei politici in qualsiasi dibattito, anche parlamentare? Non è violenza il cosiddetto tifo dei cosiddetti sportivi da stadio di calcio? Non è violenza la dinamica che mette di fronte i concorrenti di certi show per teen agers di largo successo (grandi fratelli, tronisti, naufraghi, ecc....)?

domenica 17 ottobre 2010

Libri. Tre secondi per vivere o morire

TRE SECONDI
di Anders Roslund  e Börge Hellström

Questa notte ho fatto le tre per finire Tre secondi. Non è un gioco di parole, è la verità. Mi sono tenuto le ultime 150-200 pagine per il fine settimana sapendo di poter poi dormire un po' di più al mattino. Sì perchè questo libro è veramente avvincente e quando si incomincia a leggerlo le pagine e le ore scorrono senza accorgersene. Così è stato.

Roslund e Hellstrom, svedesi,  hanno scritto a quattro mani questo poliziesco che ha un gran ritmo narrativo e ottime descrizioni di personaggi, luoghi e situazioni. Nulla di approssimativo e "tirato via" come a volte accade nel genere poliziesco, è un signor romanzo a tutti gli effetti. La particolarità dei due autori, secondo quanto si legge sulla fascetta pubblicitaria, sta nel fatto che il primo è un giornalista e il secondo un ex delinquente. Non so di preciso che abbia fatto di male Hellstrom, ma evidentemente la minuziosa descrizione delle atmosfere carcerarie e delle dinamiche investigative sono frutto di esperienze personali. Buon per noi (e per lui) che abbia intrapreso la carriera letteraria abbandonando quella criminale.
Le vicende narrate si sviluppano nell'arco di una decina di giorni in tutto e abbracciano scenari che vanno dall'Europa (è ambientato in Svezia) agli Usa, passando da Polonia e Danimarca. Ma, attenzione, l'ambientazione scandinava non deve far pensare alle tipiche atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare sulla scia del successo editoriale di Stig Larssonn e del suo Millennium, in questo caso la fredda e gelata Svezia non ha un ruolo particolare come in molti romanzi del filone, bensì l'azione si sviluppa in estate e i protagonisti soffrono addirittura il caldo.
In Tre secondi abbiamo a che fare con poliziotti infiltrati, mafia dell'est europeo, politici felloni, burocrati statali infedeli e un commissario anzianotto e cicciottello con notevoli angosce esistenziali e un caratteraccio che non lo rende simpatico a nessuno. Però ha tenacia e fiuto investigativo come pochi altri...
Basta. Non dirò assolutamente nulla della trama, perchè tutta la vicenda va gustata pagina dopo pagina, senza anticipazioni. Buona lettura.

venerdì 15 ottobre 2010

Film visti. Rapinatori si nasce

Locandina The TownTHE TOWN
Regia di Ben Affleck, con Ben Affleck, Rebecca Hall, Jeremy Renner, Jon Hamm.
Voto: 2.5 su 5

Dalle parti di Boston, a Charlestown, l'attività più diffusa dagli autoctoni locali è la rapina. Lo dicono le statistiche e i rapporti di polizia e FBI. I ragazzi di strada vengono allevati fin da piccoli all'arte dell'irruzione in banca tra mafiosi irlandesi e armi da fuoco. Le loro famiglie sono per lo più allo sbando e si dibattono tra droga e meretricio. Un bell'ambientino, non c'è che dire. Purtroppo per Ben Affleck, di film "di strada" nel dispregio della legge e nel degrado sociale ci sono precedenti illustri che hanno fatto la storia del cinema. Scorsese e De Niro e i loro Goodfellas sono un punto di riferimento per chiunque si cimenti con questa tematica. Bel Affleck ci prova con impegno e il suo compitino lo porta a termine con dignità, sia pure non superando il livello della sufficienza. Troppe pause e troppe cadute di ritmo che finiscono con l'impantanare la storia dei ragazzi di strada di Charlestown e della loro ricerca di redenzione. Questi giovani rapinatori esibiscono un certo stile e seguono proprie regole per arrivare al massimo risultato con il minimo rischio e spargimento di sangue. Naturalmente non tutto fila liscio e l'imprevisto è dietro l'angolo... L'impossibilità di una reale alternativa alla vita marcia del quartiere è il tema di fondo del racconto narrato con amarezza e disincanto. Una situazione che pare cristallizzata e non modificabile che però viene messa in discussione e scardinata alle fondamenta per mezzo dell'amore per una donna e la nausea per il marciume malavitoso. Queste saranno le molle che scatteranno nel protagonista per trovare il coraggio di dire basta con quella vita. Ci riuscirà? Come? E a che prezzo? Vedere il film per avere le risposte, please.
Innanzitutto la prima sorpresa del film è vedere proprio Ben Affleck cimentarsi dietro la macchina da presa. Corre quasi l'obbligo di andare alla ricerca di agganci con il grande Clint Eastwood, perchè lo stile asciutto e pervaso di malinconia  del giovane Ben Affleck in qualche modo ricorda molto quello del Maestro. La seconda nota positiva viene dal cast, composto da simpatiche facce da schiaffi, tra cui spiccano il "fratello di rapine" di Ben, quel Jeremy Renner che abbiamo visto nei panni dello sminatore in The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, l'agente FBI Jon Hamm (belloccio e apprezzato attore televisivo) e la fresca bellezza di Rebecca Hall, nel ruolo di "donna della redenzione" (vista anche nella comedy Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen).
Insomma, un canovaccio di storia da sviscerare e approfondire, una regia abbastanza personale e promettente, bravi attori emergenti e con le facce giuste: gli ingredienti per un buon film di genere ci sono tutti. Basta non pretendere troppo.