mercoledì 29 settembre 2010

E allora la impicchiamo...

Sakineh Mohammadi Ashtani, la donna accusata di adulterio e di complicità nell’omicidio del marito sarà impiccata e non più lapidata. Per Sakineh, la cui sentenza di lapidazione era stata sospesa da alcune settimane per un riesame del caso, la grande mobilitazione nel mondo occidentale, Italia compresa, aveva puntato il dito contro la barbarie della lapidazione, una condanna secondo la legge islamica che prevede che la donna colpevole di adulterio venga sepolta fino al torace e che la parte che sporge dal terreno sia ripetutamente colpita da lanci di pietre, fino alla morte. Ecco la risposta del regime iraniano alle pressioni internazionali che volevano strappare alla morte la giovane donna: impiccagione.
Se non ci fosse in ballo la vita o la morte di un essere umano la vicenda avrebbe risvolti addirittura grootteschi. Il mondo intero si indigna per la lapidazione e allora il regime che fa? La impicca cambiando la motivazione. Non più adulterio, ma complicità in omicidio e dunque non più lapidazione, ma impiccagione. Perversamente geniale. E' chiaro il percorso logico degli iraniani: vediamo se qualcuno osa lamentarsi ancora, visto che la pena di morte per impiccagione o altre forme di morte considerate più "civili" sono normalmente praticate in molta parte delle nazioni in tutto il mondo. Come attaccare sul piano dei diritti civili l'Iran dal momento che tantissime altre nazioni fanno la stessa cosa? Donne comprese; è di un paio di giorni fa la notizia dell'esecuzione capitale in USA di una condannata, per di più afflitta da minorazione mentale.
Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra....

lunedì 27 settembre 2010

Film visti. La Passione

LA PASSIONE

Regia di Carlo Mazzacurati, con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Corrado Guzzanti, Kasia Smutniak.
[Voto: 2,5 su 5]

E' sempre difficile per me esprimermi serenamente e con distacco sui film di Mazzacurati. Perchè padovano e dunque mio conterraneo, ma anche perchè mio ex compagno di scuola al liceo (nella mitica quinta B, maturata nell'anno di grazia 1975). E' facile essere troppo severi per non scadere in indulgenti giudizi di parte e al tempo stesso è altrettanto facile l'esatto contrario. Tant'è.
Purtroppo ci troviamo di fronte all'ennesimo film di Mazzacurati del "vorrei, ma non posso", ovvero dell'opera che potrebbe fare il salto di qualità, ma le manca un soldino per farcela. Cominciamo dai pregi. La Passione riesce a far ridere senza mai scadere nel volgare, cosa rara nel panorama del cinema italiano, dove la commedia scollacciata e greve è genere dominante. Per contro, La Passione riesce ad essere lieve e divertente con eleganza, arguzia e semplicità. Tuttavia non è un film riduttivamente leggero, perchè è al tempo stesso intensamente drammatico, immerso com'è nella crisi personale ed artistica del protagonista, regista in crisi di creatività, Gianni Dubois. Silvio Orlando da corpo al personaggio con il suo solito repertorio ben collaudato. E questo è già un primo limite. Infatti risulta per nulla nuova ed originale proprio la figura del regista in crisi che lo stesso Orlando ha già interpretato -se non sbaglio- in un film di Nanni Moretti (Il caimano). Un clichè, quello dell'insicuro in crisi di identità, che calza sì a pennello su Orlando, ma troppo ripetitivo e dunque già visto che non aggiunge e non inventa nulla. Va molto meglio con i personaggi di contorno, primi fra tutti Corrado Guzzanti, spassoso nel ruolo dell'attore-cane che si crede un grande artista e Giuseppe Battiston, povero diavolo che cerca nella recitazione da strada una via di redenzione personale.
La vicenda è semplicissima e prende spunto da un episodio realmente occorso a Mazzacurati. Al regista viene proposto di curare la rappresentazione della Passione del Venerdi Santo in cambio di sorvolare sui danni ad un prezioso affresco del Cinquecento causati dalla perdita di un tubo idraulico rotto. Con varie vicissitudini grottesche e qualche dramma si arriva al  momento della verità con tutti i tasselli che vanno -quasi- al loro posto...
Qui sta il punto di svolta del racconto. Battiston-Gesù spezza il pane nell'Ultima cena, ma cade malamente scatenando l'ilarità impietosa e irrispettosa del pubblico. La rappresentazione va avanti con fatica tra mille difficoltà e l'imperversare delle intemperie meteo. Facile vedere in questo una rappresentazione dell'Italia di oggi dove troppo spesso si sta alla finestra a guardare con indifferenza e con disperezzo le disavventure e le difficoltà altrui, forti della propria posizione di forza (esemplare l'arroganza del produttore cinematografico che copre di angherie il povero Dubois).
Ma dopo la Passione del venerdi, arriva sempre la Pasqua della Resurrezione... Speriamo.

domenica 26 settembre 2010

Film visti. La vita è un sogno...

INCEPTION
Regia di Christopher Nolan. Con Leonardo Di CaprioMarion Cotillard, Ellen Page.
[Voto: 3.5 su 5]

Di Caprio è un futuristico ladro sui generis. Riesce ad insinuarsi nei sogni altrui per carpirne i segreti più reconditi, solitamente a fini di spionaggio industriale. Questa volta gli viene proposto di fare il contrario: insinuare un'idea nella mente della vittima inducendolo a ritenere che sia una sua idea e comportarsi di conseguenza secondo i voleri di chi in realtà ne ha disposto l'innesto. Insomma una specie di telecomando mentale senza fili. E' bene partire da queste informazioni preliminari perchè infatti il film è complicatissimo e il rischio è di non capirci un bel niente o quasi. Almeno io non ci ho capito niente per almeno la prima ora. Infatti nelle due ore e mezzo di durata del film, la prima parte se ne va in pseudo spiegazioni e preparazione dell'evolversi successivo. Difficile da decifrare tra concetti non propriamente all'ordine del giorno. Troppo verboso, troppo contorto e soprattutto dando per scontato che si sappia cosa diavolo sia il procedimento di inception; da qui, appunto, ecco servita l'introduzione lunghissima e incompresibilissima. Non so neppure se l'inception (= innesto) sia una pratica mentale di pura fantasia degli sceneggiatori del film o se esista davvero un procedimento artificiale per inserirsi nella mente altrui tramite i sogni. In qualche laboratorio sperimentale potrebbe succedere questo e altro... Ma le vie della psicanalisi sono infinite e spesso fantasiose. Spero comunque di no e che la mente possa essere territorio inviolabile, anche se mi viene il dubbio che certe forme di ipnosi siano in realtà proprio uno strumento per scandagliare a fondo i pensieri degli altri senza che i soggetti se ne rendano effettivamente conto. Roba da strizzacervelli.
Tornando al nostro film bisogna dire che la realizzazione dell'idea guida è senz'altro affascinante e le immagini sono altrettanto spettacolari, anzi direi superlative. Superata la fase introduttiva del film, il tutto diventa più comprensibile (quasi rassicurante) sotto forma di action-movie con scontri, inseguimenti e sparatorie riportando tutti ad una realtà più "normale" cinematograficamente parlando, a suon di scazzottature e smitragliate. Ma comunque rimane a fare da filo conduttore una sovrapposizione molto appassionante tra realtà e finzione, del sogno nel sogno, tra vero e non vero che coinvolge tutto e tutti. Affascinantissima (si può dire?) la mescolanza tra vita e morte che si verifica attraverso i diversi piani narrativi in cui si dipana il racconto: si può essere feriti o ammazzati in un certo livello di sogno, ma al tempo stesso rimanere illesi in un altro, si può saltare da un sogno all'altro ma anche restarvi intrappolati per sempre. Per non parlare dello scorrere del tempo. Questo è un aspetto del sogno che a ciascuno di noi sarà capitato di notare. Il tempo nel sogno scorre decisamente in maniera diversa che nella realtà. Succede spesso di addormentarsi solo per pochi minuti, magari per un pisolino, sognare a lungo e in maniera complessa ed articolata, essere convinti di aver sognato per ore e ore per poi invece svegliarsi e rendersi conto che invece sono trascorsi solo pochi minuti. Ebbene su questa particolarità reale e individualmente appurabile del sogno si basa gran parte del film che è un meccanismo perfetto di tempi che scorrono diversamente l'uno dagli altri. Sotto questo aspetto il film è un vero gioiello. Non manca neppure l'aspetto sentimentale e intimistico con venature melodrammatiche che emerge dal passato del protagonista Di Caprio, che da qualche parte ha una moglie (morta suicida a causa delle manipolazioni esasperate con i sogni effettuati in coppia) e due figli che non può vedere a causa della proibizione di fare ritorno negli Stati Uniti proprio in seguito alla morte della moglie (l'affascinante Marion Cotillard).
Alla fine del film si rimane con un po' di amaro in bocca perchè quel sadico del regista Christopher Nolan (già apprezzato autore di Insomnia con Al Pacino e Robin Wiliams e di un paio di Batman) lascia in sospeso l'immagine finale senza farci sapere quale sia l'epilogo. Non posso dire di più per non levare l'effetto sorpresa, ma c'è veramente del perversamente sadico nel taglio delle ultime sequenze. Andate a vedere il film e mi darete ragione (occhio alla trottolina...!).
Un'ultima annotazione, anzi due. La prima: pensate ad una forma alternativa di vacanza in cui ci si addormenta e si sogna ciò che si vuole rimanendo pienamente coscienti e consapevoli anche al risveglio, come se si fosse trattato di una vacanza vera. Da soli o insieme con gli amici, con la persona amata, con quella che si vorrebbe amare (consenziente o no, non fa differenza)..., per esempio, chessò, una vacanza ai Caraibi lunga, interminabile, appagante, avventurosa, erotica e molto altro ancora a seconda dei propri gusti.... Certo è solo un sogno, ma se fosse un sogno iperrealistico quanto quelli che sono descritti nel film vi assicuro che sarebbe fantastico.
Seconda annotazione. Ad uscirne largamente riabilitato dopo questo Inception è il lungamente vituperato Gigi Marzullo che aveva già capito tutto ben prima che questo film fosse pensato e scritto: "la vita è un sogno e i sogni aiutano a vivere meglio". Meditate gente, meditate.

domenica 19 settembre 2010

Film visti. The American

The American
Regia di Anton Corbijn con George Clooney e Violante Placido.

Voto: 1,5 su 5

Definire imbarazzante questo film è dir poco. Il regista Corbijn (proviene dal mondo dei video musicali e lì ce lo rimanderei al volo...) ci offre un film sciatto, prevedibile e presuntuoso che si regge unicamente sulla bravura di Clooney e sulla bellezza dei luoghi dove la vicenda è ambientata, l'Abruzzo. Vorrei aggiungere che il film punta molto anche sulle tette di Violante Placido, generosamente messe in mostra in mancanza di talento d'attrice, ma non vorrei passare per volgare... Per il resto si sfiora il ridicolo con un finale da antologia tanto è banalmente prevedibile e rozzo; nelle intenzioni la melodrammatica conclusione vorrebbe essere addirittura strappalacrime, ma finisce solo per essere irritante per la stupidità delle ultime scene. Di storie di redenzione finale da parte di criminali incalliti per opera di una bella fatalona sono pieni gli annali di cinema, con esercizi di stile di grandi maestri e di grandi attori, ma questo The American francamente scivolerà nel dimenticatoio in poco tempo, non appena il film farà il solito giro in DVD e in tv sfruttando al massimo il faccione imbronciato di Clooney e le belle tette di Violante, dopodichè buonanotte a tutti.
Il tenebroso George Clooney ce la mette tutta per dare interesse ad un personaggio immusonito e privo di spessore e bisogna dire che il suo onesto mestiere lo fa piuttosto benino, ma decisamente non basta a sostenere il peso dell'intero film, contornato com'è da personaggi maldestramente abbozzati. Una chicca la partecipazione di un più che mai ruvido Filippo Timi nel ruolo di "dottore delle macchine" (meccanico), che si stacca nettamente dalla media recitativa del resto del cast. Della prostituta Clara, alias Violante Placido, che redime il killer ho già detto tutto quello che c'è da dire (cioè nulla) e aggiungerei che il personaggio è così approssimativamente costruito che non risulterebbe credibile in niente, nè come prostituta, nè come strumento di redenzione, nè come lavandaia; il prete di campagna Paolo Bonacelli è a metà strada tra il filosofo "de noantri" e il saccente ambiguo e ficcanaso, e in più probabilmente anche fedifrago segreto padre di famiglia. Il tutto nello stesso personaggio. Oltretutto ogni personaggio italiano che nella storia viene a contatto con il protagonista -che è un americano rifugiatosi in Italia per sfuggire a chi lo vuole ammazzare- si intende benissimo con lui e tutti si capiscono perfettamente. Forse che nei paesini sperduti sulle montagne abruzzesi tutti conoscono l'inglese e lo parlano come seconda lingua dimostrando grande senso di ospitalità per gli eventuali killer americani che si trovano colà di passaggio...? Ma dai. A voler rigirare il coltello nella piaga cercando tra le ridicolaggini del film, ci sarebbe di che sbizzarrirsi. Ma mi auto-limito per eccesso di buonismo. Tuttavia mi piacerebbe chiedere agli sceneggiatori che ci faccia un bordello con quattro-cinque prostitute (tra cui Clara-Violante) in un paesetto di montagna abruzzese dove in tutto il film si vedono si e no una decina di abitanti a farla grande, forse meno. Farà affari d'oro a palate.....

mercoledì 15 settembre 2010

Italia, un paese in pieno delirio

Ok, vabbè che al peggio e alla stupidità non c'è mai limite, ma insomma.... sarebbe ora di porre un freno alla tracotanza arrogante e supponente di qualcuno.  L'episodio da delirio civile è quella riportato dalla stampa odierna e si riferisce ad un fattaccio avvenuto domenica scorsa a Venezia, nel corso della Festa della Padania organizzata dalla Lega che si svolge annualmente nel capoluogo veneto. Per internderci quella con l'ampollina di acqua del Po raccolta amorevolmente alle sorgenti e versata in pompa magna nelle acque della laguna di Venezia. Quest'anno la manifestazione si è fregiata nientepopodimenoche della presenza a fianco di Bossi del "Trota", ovvero il figlio del senatur, ovvero il "delfino" dinastico della Lega. Insomma un'apoteosi padana in un trionfo di bandiere verdi.
Ma ecco il fattaccio come lo riporta la Repubblica:

"Portavamo il tricolore a Venezia, insultati dai leghisti, identificati dalla polizia.

"Denuncia di un consigliere comunale della Lista 5 stelle: "In una decina avevamo 2 bandiere italiane durante la festa della Lega e per questo siamo stati fermati mentre i militanti del Carroccio inveivano"

ROMA - "Fermati ed identificati dalla polizia per avere con noi il tricolore. Insultati e derisi da decine di leghisti esaltati ed urlanti - rischiando il linciaggio da parte di questi ultimi e una denuncia (per manifestazione non autorizzata e per aver provocato disordini) da parte della polizia". Questo, secondo la denuncia di un consigliere comunale di Venezia Marco Gavagnin della lista Cinque stelle e del Blogger Paolo Papillo di Informazione dal basso che domenica scorsa, durante la Festa dei popoli padani hanno voluto provare a vedere cosa sarebbe successo a passeggiare per il capoluogo veneto con indosso una bandiera italiana. Il risultato per quanto sorprendente è descritto da loro stessi: "Siamo stati identificati noi, non quelli che ci insultavano; e ci avrebbero senz'altro aggrediti, se non ci fosse stato il cordone di polizia a proteggerci. Ci hanno cacciato, accompagnati distanti dal luogo della manifestazione leghista e fatti disperdere. Esporre il tricolore durante la festa della Lega - festa che vedeva presenti numerosi esponenti politici del partito e lo stesso Ministro degli Interni - è diventata una provocazione politica".
"Eravamo in una decina - raccontano - ci eravamo incamminati lungo il ponte dopo il quale iniziava a svolgersi la manifestazione leghista, ci è stato impedito da agenti in tenuta antisommossa e da uomini della Digos di proseguire verso Riva dei Sette Martiri e Via Garibaldi: luoghi paradossalmente scelti quali teatro della manifestazione di questa forza di governo che non si riconosce nei simboli della nostra Repubblica e ne disconosce la storia scritta nel sangue di tanti patrioti. Sì, perché i sette martiri veneziani a cui è intitolata la riva sono partigiani morti durante Resistenza al grido di "viva l'Italia".
"Subito dopo - continua il racconto - decine di leghisti (uomini e donne, vecchi e giovani) ci hanno spintonato e strattonato, cercando anche di sottrarci le telecamere; ci hanno insultato anche pesantemente, con vari improperi che andavano da "pirla" a "cretini", da "pagliacci" a "omossessuali" e "culattoni". Naturalmente ci hanno accusati di essere "comunisti", dei "rompicoglioni", o più semplicemente dei "lazzaroni": "andate a lavorare!" ci dicevano, "andate a casa!"
"Questi però - si lamentano - non sono stati identificati. No. Eravamo noi - quelli col tricolore - l'anomalia, quelli fuori posto, i sobillatori. Mentre loro - quelli che inneggiavano alla secessione, i fautori della "padania che non c'è", con le magliette e gli striscioni con la scritta "padania libera" - erano quelli normali... un completo ribaltamento di senso!".
(15 settembre 2010) http://www.repubblica.it/politica/2010/09/15/news/cacciati_bandiera-7098896/?ref=HRER2-1


Ma, mi chiedo, la polizia ha agito correttamente nel fermare e identificare quelli che avevano il tricolore e ignorare chi li insultava? La nostra bandiera, il tricolore, non vale proprio più niente?
Credo che sia inutile qualsiasi altro commento.

lunedì 13 settembre 2010

Contesto ergo sum

Noi italiani abbiamo un vizio trasversale che ci accomuna tutti indistintamente, a prescindere da tutto: contestare l'operato di chi è chiamato a giudicare. Non parlo di libera critica o libere opinioni, ma di rifiuto di sottostare e quindi accettare il giudizio altrui, qualunque esso sia e da chiunque provenga. A cosa mi riferisco in particolare? Alla Mostra del Cinema di Venezia che si è conclusa sabato scorso con un verdetto a sorpresa. La giuria presieduta da Quentin Tarantino ha assegnato il Leone d'oro al film di Sofia Coppola "Somewhere", di cui avevo giustappunto scritto qualche giorno fa (http://volpe56.blogspot.com/2010/09/da-qualche-parte.html). Le reazioni alla scelta della giuria (che decide collegialmente, non individualmente) sono state quasi furibonde da parte di una buona fetta dei critici che non hanno gradito affatto il film della Coppola. A me è piaciuto, gli ho dato un buon voto, anche se credo che non sia un film da Leone d'oro. Ma ciò non toglie che il giudizio della giuria vada rispettato. Dicono i signori critici, con un po' di puzzetta sotto il naso: in sala stampa il verdetto è stato accolto con bordate di fischi...., alla proiezione ufficiale il film è stato accolto tiepidamente... Dunque, se un film non piace a lor signori, non è accettabile e ammissibile che possa vincere perchè invece la giuria lo ha vaputato meritevole. E per sostenere i fischi sono state tirate fuori giustificazioni fantasiose in un delirio di dietrologia. Del tipo: Tarantino è un ex della Coppola e dunque lui ha voluto premiarla forse per tentare un riavvicinamento sentimentale. Roba da gossip puro e duro. Dei peggiori.  Sono fioccate un sacco di frecciatine sulla scarsa avvenenza della Coppola, sul vestito poco glaour, sul sorriso stiracchiato per l'emozione al momento della premiazione... I signori critici non sono stati neppure sfiorati dall'idea che possa esservi un giudizio diverso dal loro. Apriti cielo poi sul fatto che nessuno dei film italiani in gara sia stato premiato. Sembra quasi che un premio debba essere riconosciuto per diritto di ospitalità. Salvo poi sciacquarsi la bocca quando a Cannes vince un film francese, accusando le giurie di giudizi di parte a favore del cinema di casa.
Ma in fin dei conti è quello che succede normalmente nello sport specie con gli arbitri del calcio che, si sa, è lo specchio fedele dei vizi di noi italiani. Contestare sempre, accettare mai. E se del caso, passare anche alle vie di fatto, tanto l'arbitro è cornuto per definizione ed ha sempre torto. Ma è natao prima l'uovo o la gallina? Ovvero è il calcio che copia dal sociale o è vero il contrario? In tema di sport mi corre l'obbligo e il piacere di citare ancora una volta il mio amato rugby, dove non vedrete mai un giocatore contestare una decisione arbitrale o rivolgersi a lui in modi poco civili. Casi difformi dalla regola si sono verificati nel corso degli anni, ma sono così pochi che si potrebbero contare sulle dita di una mano. E sono anche troppi.
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mercoledì 8 settembre 2010

Libri. Depressione in salsa scandinava

Scarpe italiane
di Henning Mankell

Questo non è il primo libro di Mankell che leggo (Il cinese). E prima ancora era stato il commissario Kurt Wallander ad appassionarmi, con un paio delle sue avventure poliziesche.
L'ambientazione di Scarpe italiane è quella tipicamente svedese/scandinava con le sue lande ghiacciate, i silenzi, la gente un po' strana e non facile da capire per noi latini, il tempo segnato dall'alternarsi di giorni e notti anomali per chi abita a latitudini meno estreme. Ma è anche una Svezia "normale", caratterizzata da piccole e grandi città non molto diverse da tante altre nel mondo, dove accadono fatti del tutto simili a tanti altri, per i quali le persone soffrono, gioiscono, nascono e muoiono come chiunque e ovunque. In questo "Scarpe italiane" predominano i tipici paesaggi nordici, il ghiaccio, il mare del Nord congelato per gran parte dell'anno, le grandi e silenziose foreste. Buona parte della vicenda si svolge su un'isola abitata da un'unica persona, il protagonista, e alcuni personaggi di contorno, così pochi da poter essere elencati sulle dita di una mano e di avanzarne ancora.
Fredrik è quasi settantenne, medico chirurgo in pensione, vive da solo su un'isola al largo della costa scandinava, con un cane, un gatto e un formicaio in una delle stanze di casa. Si è ritirato a vita solitaria da circa dodici anni in seguito ad un evento grave della sua vita, che lo ha segnato profondamente. Uniche visite, ma poche ogni due o tre giorni, quelle del postino che gli recapita la corrispondenza e tanta pubblicità. Nonostante questa sporadicità di contatti con esseri umani, anche le visite del postino gli danno fastidio, perchè turbano il suo equilibrio di ghiaccio, freddo e solitudine. Bizzarro, no? Ma le bizzarre singolarità di Fredrik non finiscono qui, perchè ogni giorno ha l'abitudine di scavare un buco nel ghiaccio fino a trovare l'acqua e immergervisi dentro. Per sentire di essere ancora vivo. Forse "bizzarro" è un aggettivo un po' troppo blando per fotografare un personaggio del genere. Bizzarro e depresso con una specie di osessione nel ricordo dei genitori e dei nonni da cui ha ereditato l'isola. In particolare la figura del padre, modesto cameriere, gli ritorna spesso in mente in maniera quasi ossessiva e angosciante e con lui gli anni dell'infanzia non agiata, non felice, non piacevole neppure da ricordare dopo così tanto tempo nei ricordi di uomo anziano che spesso tendono a rivangare solo le cose belle. Ed è una depressione che in qualche modo quasi si trasmette al lettore con il rischio di una insofferenza crescente (almeno nel mio caso), dopo un iniziale ammaliante fascino della solitudine, della pace e del silenzio che è facile immaginare regnino sovrani su quell'isola. Fredrik non fa mai nulla con entusiasmo e con passione. Passa le sue giornate ammirando paesaggi o facendo proprio un bel nulla. Ma un certo giorno accade l'imprevisto. Una figura umana si staglia scura sul bianco assoluto del ghiaccio. Una donna che per muoversi usa un deambulatore. E come diavolo sarà arrivata fin lì una donna che cammina a malapena? E cosa ci fa e cosa vorrà dall'anziano-tuffatore-solitario-nel-buco-di-ghiaccio?
Calma. Il libro non vira improvvisamente sul misterioso o sul poliziesco. Tutto viene svelato in breve e senza aloni di misteri. E' una sua vecchia fiamma, Harriet, tanto amata in gioventù quanto ormai quasi dimenticata, abbastanza irriconoscibile essendo anche lei ovviamente parecchio avanti con gli anni e per di più ammalata di cancro allo stadio terminale.
Con lei siamo arrivati a due personaggi (l'altro -ricordate- è il postino, secondo Fredrik un tipo problematico e ipocondriaco che si sposta sul mare ghiacciato con un veicolo chiamato hydrocopter...). Di qui a poco entrerà in scena il terzo e poi il quarto, anche loro donne. Un libro quasi del tutto al femminile, eccezione fatta per il protagonista. Ma mi fermo qui e non anticipo altro.Il prosieguo svelerà quale sia l'evento devastante verificatosi nella vita dell'ex medico e che ruolo abbiano le tre donne che entrano in rotta di collisione con lui sulla soglia dei settant'anni. Non badate troppo alle scarpe del titolo, che sembra fatto apposta per suscitare curiosità nel lettore, e che in realtà non riveste un particolare interesse nella trama del libro. Invece, oltre alle scarpe, nel romanzo è citata en passant l'Italia e Roma in particolare. Non ne esce bene il nostro paese, perchè Fredrik subisce un'aggressione che gli provoca una frattura al naso. Episodio marginale nel contesto del libro, ma l'episodio non fa bene all'immagine del nostro paese, quasi facendo da contraltare agli elogi per la qualità delle scarpe italiane. Ma tu guarda 'sti svedesi...

martedì 7 settembre 2010

Film visti. Da qualche parte...

SOMEWHERE
Regia di Sofia Coppola, con Stephen Dorff, Elle Fanning.
[Voto: 3.5 su 5]

Somewhere di Sofia Coppola, presentato in questi giorni alla Mostra di Venezia, ci riporta a vedere e parlare di cinema di qualità dopo un'estate quanto mai povera di film apprezzabili. Dico subito che Somewhere è un film estenuante e faticoso per lo spettatore, che necessita di un atto di fiducia verso l'autrice perchè non è affatto di facile approccio. La Coppola ci narra la storia di Johnny Marco, attore giovane e belloccio dall'aspetto stropicciato che va tanto di moda adesso, con qualche grosso problema esistenziale e una vita condotta in modo totalmente disordinato e improvvisato. Se ne va in giro con la sua Ferrari, spesso senza neppure una meta, tra una pasticca el'altra se la gode con amanti occasionali con le quali riesce ad addormentarsi improvvisamente nel pieno di un rapporto di letto, si trascina tra una festa e l'altra senza uno straccio di amico/a che vada oltre la scopata di una notte o anche meno. Si accorge di avere una figlia solo quando gli viene recapitata dalla moglie divorziata, ma non sa nulla di lei. Un estraneo con tutto e con tutti, senza veri affetti, senza interessi. Una vita di merda, se mi passate il francesismo poetico. Sofia Coppola ci mostra il protagonista nella sua abulia con una dilatazione estrema dei tempi delle riprese, inquadrature fisse e lunghissime, dialoghi assenti o quasi. Perfetto per buttarci con angoscia nel mondo di Johnny, fatto di noia e di nulla. Ma ad un certo punto la ex moglie gli affida la figlia Cleo per qualche settimana, avendo voglia di starsene un po' per i fatti suoi, probabilmente a sua volta alle prese con qualche amante di passaggio. Il piccolo e biondo pacco postale di nome Cleo raggiunge dunque il suo papà che è però alle prese con un viaggio in Italia per il lancio del suo ultimo film. Partono forzatamente insieme...
Mi fermo qui, senza aggiungere altro, non perchè ci siano finali a sorpresa o sviluppi particolari da non svelare, ma perchè il prosieguo della storia va comunque gustato in prima persona senza anticipazioni.

Da qualche parte (Somewhere) c'è sicuramente qualcuno che vive la sua quotidianità come Johnny Marco. Anzi non saranno certamente pochi quelli come lui che non hanno preoccupazioni finanziarie, che vivono senza sapere come far passare il tempo, dilettandosi con playstation e lap dance a domicilio, vivendo in albergo dove, per soddisfare qualche bisogno, basta sollevare la cornetta del telefono e parlare con la reception. Anzi, questo stile di vita sono sicuro che sia ricercato e apprezzato. Il Ferrarino e il far niente dalla mattina alla sera fino a stordirsi di noia ha sicuramente stuoli di estimatori in tutto il mondo. E da qualche parte c'è sicuramente anche qualcuno che è cresciuto con genitori che consideravano i figli come degli impicci che ostacolavano progetti e divertimenti. 
Somewhere è un film dolente che non può non scuotere e colpire lo spettatore; Johnny e sua figlia Cloe, quasi scoperta undicenne da suo padre, ricordano neanche tanto alla lontana un precedente film della Coppola, Lost in Translation con Bill Murray, che narra ugualmente di padri e figli ritrovati (e cercati). Anzi per essere precisi figlie, al femminile. Certo Bill Murray è un'altra cosa, un attore di ben altra caratura e lì la vicenda era più strutturata e indagata. Tuttavia Somewhere rimane un film piacevole e interessante che lancia la piccola e brava Elle Fanning, sorella della più famosa e vista Dakota, decisamente la migliore interprete dell'intero cast.
Una curiosità. Johnny parte per l'Italia per il lancio di un suo film. Qui alloggia in una principesca suite in un albergo di Milano, partecipa ad una serata di gala per la consegna di un premio e quasi rischia di andare a cena col sindaco (la Moratti?, ma non viene nominata esplicitamente). Dell'Italia non si vede niente altro se non un poliziotto all'aeroporto che si autoscatta una foto con la famosa star di passaggio e qualche personaggio dello spettacolo durante lo show (la Ventura presentatrice con la Marini ballerina). Nel complesso un' Italia abbastanza penosa e scintilolante di opulenza e lustrini con il politico di turno in agguato per fare passerella. Ma assolutamente niente di più. Che Sofia Coppola ci abbia azzeccato nel cogliere solo questi aspetti dell'Italia? Che sia questo e non altro ciò che traspare all'estero del nostro paese contemporaneo?

domenica 5 settembre 2010

Frustate e lapidazioni nel nome di Dio

Dall'Iran ci arriva in questi giorni una ulteriore lezione di "civiltà coranica", o almeno quella che gli integralisti islamici reputano e spacciano essere civiltà e rispetto della legge coranica. Oggi infatti potrebbe essere la fine di Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana condannata a morte per lapidazione con l'accusa di adulterio. Non entro neppure nel merito se l'accusa sia provata e veritiera, non mi interessa assolutamente. Perchè se anche lo fosse, si tratterebbe comunque di un atto di inciviltà sia per la condanna a morte in sè, sia per le barbare modalità dell'esecuzione. La lapidazione è infatti molto più che un atto barbaro, è qualcosa di orrendamente inumano come poche altre forme di uccisione legalizzata che passano sotto forma di atto di giustizia.
E come se non bastasse, quegli esseri ignobili che amministrano la giustizia in nome di Dio hanno pensato bene di infliggere la pena di 99 frustate a quella povera donna perchè colpevole di essersi mostrata in pubblico con il volto scoperto, senza velo. Per non parlare della finta esecuzione di cui si è letto nei giorni scorsi. Annunciare alla condannata che entro pochi minuti sarebbe stata lapidata quando invece non era ancora giunta la sua ora è una perversa e sadica forma di tortura che la dice lunga sullo stato psichico e mentale dei suoi aguzzini.
Temo, invece,che le proteste internazionali non serviranno a nulla, non  a salvare la vita a Sakineh. Perchè rinunciare alla lapidazione sarebbe una capitolazione del regime iraniano con conseguenze politiche intuibili, soprattutto interne. Insomma ci rimetterebbero la faccia e questo non è politicamente accettabile per chi fa della forza e dell'autoritarismo una caratteristica di governo imprescindibile.
Ma una considerazione niente affatto marginale va fatta. Stiamo assistendo alla campagna internazionale a favore di Sakineh Mohammadi-Ashtiani, con appelli e proteste che arrivano da tutto il mondo cosiddetto civile. Ma il paradosso è che buona parte di quegli appelli legalitari e umanitari prendono origine in paesi che ammettono e praticano con regolarità la pena di morte. Ma questo sembra essere un dettaglio insignificante su cui sorvolare. Perchè se ad uccidere in nome di Dio o della Legge sono nazioni come gli Usa o la Cina o molti altri in tutto il mondo, pochi hanno da obiettare alcunchè, salvo le solite organizzazioni tipo Amnesty che ormai non fanno più notizia. Mentre se ad uccidere nel nome di Dio e della Legge è l'Iran tutti si adombrano, si scandalizzano e invocano clemenza. E se scende in campo la première femme Carlà Brunì , in Iran sono tutti sul chi va là, letteralmente terrorizzati e sconvolti dalle conseguenze della presa di posizione di Madame Sarkozy che potrebbe anche decidere di non fare shopping per un paio di giorni in segno di protesta....
Come non pensare che sulla pelle di Sakineh non ci sia chi specula per farsi facile pubblicità e rifarsi il trucco con un'edulcorata immagine legalitaria politically correct?
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venerdì 3 settembre 2010

Un'equazione al posto di Dio

E' in uscita un nuovo libro di Stephen Hawking, il famoso astrofisico considerato l'erede di Newton e di Einstein. Insegna a Cambridge, gira in carrozzina a causa di una grave malattia che lo rende sempre più inabile e gira il mondo a fare conferenze. Una mente geniale come poche altre sulla terra, in ogni tempo.
Il nuovo libro si intitola The Grand Design, con le maiuscole per ogni parola, a significare che grand (grande) e design (progetto) non sono termini generici qualsiasi, ma sono "IL" grande progetto, ovvero la Creazione del mondo, di tutto ciò che è, è stato e sarà. Insomma l'opera di Dio. Naturalmente il punto di vista, l'angolatura attraverso cui sbirciare la realtà, è quella dello scienziato. E come fece forse per la prima volta Charles Darwin con la sua teoria positivistica dell'evoluzione, Hawking arriva a ipotizzare che per accettare l'idea della Creazione, del Creato così come lo osserviamo, non è necessaria la figura di Dio ma è ammissibile una spiegazione meccanicistica. L'universo può essersi creato da sè, può essersi creato in maniera autonoma, in virtù dell'esistenza di una semplice (si fa per dire) e unica legge fisica: la forza di gravità.
Minchia! Il Big Bang, la scintilla che diede vita al processo di espansione dell'universo e la sua successiva espansione, la nascita di stelle e pianeti, di galassie e nebulose, dell'aria e della terra, dell'acqua e degli esseri viventi potrebbe essere frutto di un meccanismo naturale che avrebbe preso il via senza bisogno di interventi "esterni". Anche solo detta così, questa cosa mi fa andare via di testa. Non voglio neppure tentare di addentrami nei particolari, perchè tanto so che sarebbero fatica e tempo sprecati, Ma il concetto del Nulla e del Creato, prima e dopo il Big bang, è di per sè affascinante. Mi stordisce. Se c'è il nulla prima, come fa ad esserci il creato dopo senza una volontà precisa? Il concetto di nulla è ancora qualcosa di più totale ed assoluto del vuoto, va direttamente a interfacciarsi con la sfera filosofica. Come si fa a non vedere qualcosa di soprannaturale nel passaggio dal nulla a qualcosa che poi sfocerà nella materia esplosa col Big Bang? Mi rendo conto della povertà del mio concetto, ma francamente è difficile fare altrimenti per un mediamente ignorante come io mi ritengo. Dice Hawking: la sola legge di gravità può bastare a spiegare tutto. OK mi può stare bene. Ma facendo un banale passettino indietro, l'esistenza di tale legge n. 1 come si spiega o come si giustifica? Chi o cosa ha messo lì quella legge fisica? Se non esisteva nulla, se non c'era nulla da sottoporre alla gravità che motivo e ragione di esistere poteva avere in un ambito in cui per definizione non c'era niente di niente? E dunque ad un certo punto qualcuno o qualcosa dovrà pur aver dato inizio anche solo alla singola legge che secondo Hawking può spiegare tutto, innestando un meccanismo sequenziale e naturale che ha portato a tutto il resto. E come svincolare questa scintilla iniziale dal concetto di un essere supremo, a Dio? O sarebbe sufficiente accettare l'esistenza "spontanea" di questa legge n.1 senza fare quel passettino indietro chiedendosi chi ce l'abbia messa lì quella legge?
Sono convinto che l'uomo potrebbe passare i prossimi centomila anni a farsi queste domande senza poterne venire a capo. Salvo che, nel frattempo, menti geniali come Stephen Hawking non elaborino qualche convincente equazione da sostituire a Dio.