Senonchè arriva in giornata la smentita da parte delle ferrovie che asserisce che il giovane handicappato non è mai stato fatto scendere dal treno e che un controllore è andato a fare il biglietto per lui alla prima fermata utile. Insomma una bufala. Alla versione delle ferrovie viene in soccorso anche la testimonianza di un passeggero che a Radio24 in diretta nel corso della trasmissione La zanzara afferma la stessa cosa: il ragazzo non è stato fatto scendere dal treno. A dare un'ulteriore spallata all'articolo arriva una nota della Polizia che afferma che il disabile ha proseguito il viaggio sullo stesso treno perchè il personale delle ferrovie si è adoperato con buon senso per trovare una soluzione alla mancanza del Biglietto. Cade dunque il castello accusatorio fornito dall'articolo. Insomma una colossale clamorosa bufala. E aggiungerei vergognosa. Perchè non si può pubblicare un pezzo del genere con il chiaro intento di andare a toccare le corde più scoperte della sensibilità e dell'indignazione dei lettori, facendo passare per mostri di indifferenza e menefreghismo tutti i protagonisti di questa storia, senza prima fare delle verifiche opportune per accertare la veridicità del racconto. Repubblica ha clamorosamente toppato e mi dispiace non poco, essendo io un lettore del giornale fin dai tempi della sua uscita oltre trent'anni fa. Una brutta macchia nella professionalità di Repubblica. Al momento sul sito del giornale non si legge alcuna marcia indietro sulla vicenda. Repubblica si limita a riportare le dichiarazioni delle Ferrovie e della Polizia. Di scuse nei confronti dei lettori e dei presunti protagonisti additati al pubblico ludibrio nemmeno l'ombra.
Riflessioni personali, fatti e notizie, idee, pensieri, sogni, chiacchiere e opinioni. In un' Italia, purtroppo, sempre più alla deriva.
giovedì 31 dicembre 2009
Che bufala!
Quotidiano la Repubblica, 30 dicembre. Titolo: Quel ragazzo senza braccia sul treno dell'indifferenza. E' la vicenda di un portatore di handicap costretto a scendere dal treno su cui viaggiava perchè sprovvisto di biglietto. I controllori e la polizia ferroviaria lo obbligano a scendere per fare il biglietto di fronte agli altri passeggeri che, indifferenti, non fanno nulla per risolvere la situazione (ad esempio una colletta per il denaro necessario al pagamento della multa). Il lacrimevole racconto è scritto in maniera coinvolgente e suscita lo sdegno dei lettori e diventa un caso che vede al centro della tempesta le ferrovie, la Polfer e i passeggeri insensibili.
martedì 29 dicembre 2009
Film visti. Brothers
Brothersregia di Jim Sheridan, con con Jake Gyllenhaal, Natalie Portman, Tobey Maguire.
Voto: 4 (su 5)
Gran bel film, ben scritto, ben girato e ben interpretato. Emozionante e coinvolgente, come poche altre volte in questa stagione cinematografica 2009/2010, finora mediamente piuttosto povera di qualità.
Un film di persone, di storie e di drammi su cui aleggia la guerra in Afghanistan, quella non dichiarata formalmente, ma reale e concreta, che miete vittime a tutti i livelli, nel senso di salme rimpatriate e di caduti in battaglia, ma anche di soldati reduci mentalmente segnati e schizzati. Come, appunto, in Brothers. Prigionia e torture non mancano nel film, ma senza eccedere, direi che sono esibite quel che serve, quasi con pudore. Quel che serve per descrivere in maniera eccellente e asciutta, senza indulgenze e compiacimenti verso effettacci sanguinolenti, le situazioni e i drammi che si consumano in quelle latitudini. Formalmente la storia è incentrata sulla vicenda di due fratelli dalle caratteristiche e personalità diametralmente opposte, aizzati nella loro diversità anche dall'ambigua figura paterna che fa di tutto per alimentare i confronti tra i due figli. Uno (Maguire) è il marines patriota tutto d'un pezzo, patria-dio-famiglia, non necessariamente in questo ordine. L'altro è lo sbandato di famiglia, il figlio spostato "venuto male", la pecora nera da emarginare e che sembra fare di tutto per riuscirci molto bene. Il tutto sullo sfondo di un'America bianca e di buoni principi, che gioca con i figli e racconta loro le favole della buonanotte e in cui i rapinatori dopo aver scontato la pena vanno a scusarsi con le loro vittime. L'America perbenista è anche questo.
Come accennato ottimi gli attori, con un Maguire superlativo (Pleasantville, Spider man...), un Gyllenhaal lanciato a diventare un mito (Brokeback Mountain) e una Natalie Portman struggentemente bella e brava (Star Wars, Closer, Darjeeling...). Per inciso, la piccola dolce Natalie ne ha fatta di strada dalla sua prima apparizione con una pianta in mano in Leon di Luc Besson...Non dirò nulla della trama perchè va gustata con calma e non voglio togliere il piacere di esserne coinvolti a chi lo andrà a vedere. Jim Sheridan, l'irlandese tagliente e capace di suscitare forti emozioni, torna alla grande dopo alcuni anni di oscuramento con film non sempre azzeccati. A mio avviso con Brothers siamo ai livelli di eccellenza di Nel nome del padre, Il mio piede sinistro e anche The Boxer. Un ritorno che non può fare che piacere.
lunedì 28 dicembre 2009
"Angeli e demoni", eroi e vigliacchi nel soccorso pubblico
Sui giornali di oggi due notizie antitetiche ma riguardanti lo stesso settore, il pubblico soccorso. I protagonisti: i piloti dell'elisoccorso sanitario del 118 e i soccorritori del Soccorso alpino. Non generalizzo, ma mi baso su episodi specifici offerti tristemente dalla cronaca.
Primo episodio (gli eroi). Trentino, Val di Fassa. Una squadra di soccorritori del Soccorso alpino di Trento era alla ricerca di due amici friulani dispersi sulle Dolomiti (e poi trovati senza vita sotto una valanga) nell'Alta Valle di Fassa, in Val Lasties, tra i passi Pordoi e Gardena, nel gruppo del Sella, oltre i 2.000 metri di quota. I quattro soccorritori volontari sono anch'essi rimasti vittime di una valanga durante la ricerca.
Primo episodio (gli eroi). Trentino, Val di Fassa. Una squadra di soccorritori del Soccorso alpino di Trento era alla ricerca di due amici friulani dispersi sulle Dolomiti (e poi trovati senza vita sotto una valanga) nell'Alta Valle di Fassa, in Val Lasties, tra i passi Pordoi e Gardena, nel gruppo del Sella, oltre i 2.000 metri di quota. I quattro soccorritori volontari sono anch'essi rimasti vittime di una valanga durante la ricerca.
Secondo episodio (i vigliacchi). Sicilia, ospedale di Gela. Una bimba di 5 mesi è morta la vigilia di Natale dopo avere atteso per ore l'arrivo dell'elisoccorso del 118 che che doveva trasportarla "d'urgenza" all'ospedale di Palermo. Era in coma ed è morta sulla barella dell'ambulanza parcheggiata nell'hangar in attesa di un elicottero che per lei poteva significare la vita, ma che è stato il suo strumento di morte. Causa del ritardo? Incredibile a dirsi, ma da quanto risulta, i piloti dei due elicotteri disponibili invece di precipitarsi sul posto e fare il loro dovere hanno passato il tempo a litigare su chi dovesse andare al soccorso. "Tocca a te, no a te. Vai tu, non tu" ...e la piccola bimba è morta dopo tre ore di inutile attesa.
Eroi gli uni e vigliacchi infingardi gli altri. Due casi, due storie simili; diversi i protagonisti, diversi gli esiti delle due vicende. In un caso il rimpallo dell'iniziativa tra due soccorritori ha portato alla morte della piccola paziente da soccorrere; nell'altro lo spirito di sacrificio e di abnegazione dei soccorritori è stata la loro condanna a morte. Diversi gli ambiti e le circostanze, basti pensare a quanto faticoso e rischioso sia andare in montagna ad oltre 2000 metri di quota a portare aiuto a chi ne ha bisogno e quanto invece sia tutto sommato facile e tranquillo guidare un elicottero da un ospedale ad un altro in condizioni di calma atmosferica come nel caso specifico. Eppure i soccorritori maggiormente esposti ai rischi non hanno esitato un attimo a prepararsi e partire, mentre gli altri si sono rimpallati l'onere del prestare soccorso litigando via radio.
Inutile chiedersi perchè. Evidentemente le circostanze e gli uomini fanno come sempre la differenza. E non bisogna neppure criminalizzare genericamente una categoria benemerita come gli operatori dell'elisoccorso. E' la natura umana che divide gli uomini e li può rendere eroi o vigliacchi.
Se almeno ci fosse una giustizia che possa rimettere le cose a posto... Invece chi è morto eroicamente lascia una famiglia e dei parenti a piangere, mentre chi si è comportato vigliaccamente, al massimo -ma proprio "al massimo!"- si beccherà forse una incriminazione per omicidio colposo e con attenuanti varie se la caverà forse solo con una tiratina d'orecchi.
Angeli e demoni. Eroi e vigliacchi. Così va il mondo, anche nel pubblico soccorso.
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venerdì 25 dicembre 2009
Aggressioni. Questione di stile
Il destino, il caso, la fatalità, le coincidenze o chissà che altro ci hanno riservato una fine d'anno 2009 all'insegna dell'aggressione al "potente & famoso". Dopo Berlusconi è toccato a Papa Ratzinger esserne oggetto e bersaglio. In entrambi i casi si è trattato di aggressori segnati dalla malattia mentale; psicopatici o psicolabili, comunque squlibrati conclamati. E' successo a Milano nelle vicinanze del Duomo in ambiente aperto; è successo in San Pietro, all'interno della Basilica, poco prima della Messa di mezzanotte di Natale. In entrambi i casi con ampia documentazione televisiva e sotto gli occhi di centinaia di persone che potranno dire "io c'ero!".
Potenti & famosi. Potenza politica ed economica, ma non solo. Per il Papa è fin troppo evidente che sia una figura che supera i limiti del carisma politico per entrare nella sfera morale e religiosa. Per i cattolici rappresenta Gesù Cristo in terra in quanto guida spirituale e sostanziale della Chiesa oltre che Capo dello Stato della Città del Vaticano che, detto per inciso, è l'unico esempio di monarchia elettiva al mondo. Per Berlusconi l'ambito è naturalmente più ristretto ma poi non così tanto, vista la propensione apertamente dichiarata del soggetto a considerarsi parecchi gradini superiore ai suoi simili e la vera e propria venerazione di cui è oggetto da parte dei suoi fans. Una venerazione alla soglia del fanatismo che esorbita la sfera puramente politica.
Lungi da me voler fare paragoni irriverenti e fuoriluogo, vorrei però soffermarmi su una semplice questione di forma e di stile, ma non per questo meno sostanziale. In seguito all'aggressione di Berlusconi, le "truppe cammellate" del centro destra (politici e giornalisti in primis, ma anche presentatori tv, opinionisti e tutto l'universo mediaset al completo) non hanno atteso più di qualche minuto per scatenare un'offensiva mediatica accusando apertamente gli avversari del centro sinistra di essere i mandanti politici, morali e virtuali dell'aggressione dello squilibrato Tartaglia. La stampa "a libro paga" (Fede, Feltri...) non ha esitato a reclamare a gran voce una incriminazione per tentato omicidio premeditato a carico del folle autore dell'aggressione.
Tartaglia è stato inquadrato come uno strumento manovrato da una mano politica targata centro sinistra, ovvero i famosi comunistacci anti-berlusconi. I vari Capezzone, Bondi e Cicchitto hanno lanciato e alimentato una campagna politica e mediatica che ha elevato il padre-padrone Berlusconi a rango di vittima immolata e di martire. Berlusconi stesso, ancora incerottato in ospedale, ci ha dato dentro con dichiarazioni in odore di santità battezzando al volo la nascita del cosiddetto "partito dell'amore", dispensando a piene mani buoni propositi e pii pensieri di amore che vince sul male. Insomma un carrozzone di nani e ballerine come pochi altri è stato mai dato di vedere.
Sul fronte di Papa Ratzinger reazioni del tutto opposte. Anzi, nessuna reazione. Grande à plomb e massima dignità e austerità. E' vero che la faccia insanguinata di Berlusconi aveva un impatto emotivo decisamente diverso e più drammatico del ruzzolone del Papa (ma qualcuno lo vada a spiegare al cardinale ultraottantenne che ci ha rimesso un femore...), è vero che il lancio di un oggetto in piena faccia è altra cosa di uno spintone, ma nella sostanza delle cose si tratta comunque in entrambi i casi di un'aggressione da parte di un folle, con conseguenze potenzialmente letali anche in considerazione dell'età delle vittime. Ebbene, il capo spirituale e non solo spirituale della Chiesa (come detto è pur sempre un Capo di Stato) ha scelto di dare un basso profilo al fatto criminoso, minimizzando l'accaduto e addirittura non facendone minimamente cenno in prima persona. La prima reazione a caldo del Papa pare sia stata una frase del tipo "beh, non è poi successo nulla di grave". Nessuna campagna mediatica, nessuna dichiarazione di vittimismo o di martirio, nessuna invettiva contro mandanti reali o virtuali.
Altra classe, altro stile, altro spessore e levatura morale. E scusate se è poco.
Potenti & famosi. Potenza politica ed economica, ma non solo. Per il Papa è fin troppo evidente che sia una figura che supera i limiti del carisma politico per entrare nella sfera morale e religiosa. Per i cattolici rappresenta Gesù Cristo in terra in quanto guida spirituale e sostanziale della Chiesa oltre che Capo dello Stato della Città del Vaticano che, detto per inciso, è l'unico esempio di monarchia elettiva al mondo. Per Berlusconi l'ambito è naturalmente più ristretto ma poi non così tanto, vista la propensione apertamente dichiarata del soggetto a considerarsi parecchi gradini superiore ai suoi simili e la vera e propria venerazione di cui è oggetto da parte dei suoi fans. Una venerazione alla soglia del fanatismo che esorbita la sfera puramente politica.
Lungi da me voler fare paragoni irriverenti e fuoriluogo, vorrei però soffermarmi su una semplice questione di forma e di stile, ma non per questo meno sostanziale. In seguito all'aggressione di Berlusconi, le "truppe cammellate" del centro destra (politici e giornalisti in primis, ma anche presentatori tv, opinionisti e tutto l'universo mediaset al completo) non hanno atteso più di qualche minuto per scatenare un'offensiva mediatica accusando apertamente gli avversari del centro sinistra di essere i mandanti politici, morali e virtuali dell'aggressione dello squilibrato Tartaglia. La stampa "a libro paga" (Fede, Feltri...) non ha esitato a reclamare a gran voce una incriminazione per tentato omicidio premeditato a carico del folle autore dell'aggressione.
Tartaglia è stato inquadrato come uno strumento manovrato da una mano politica targata centro sinistra, ovvero i famosi comunistacci anti-berlusconi. I vari Capezzone, Bondi e Cicchitto hanno lanciato e alimentato una campagna politica e mediatica che ha elevato il padre-padrone Berlusconi a rango di vittima immolata e di martire. Berlusconi stesso, ancora incerottato in ospedale, ci ha dato dentro con dichiarazioni in odore di santità battezzando al volo la nascita del cosiddetto "partito dell'amore", dispensando a piene mani buoni propositi e pii pensieri di amore che vince sul male. Insomma un carrozzone di nani e ballerine come pochi altri è stato mai dato di vedere.
Sul fronte di Papa Ratzinger reazioni del tutto opposte. Anzi, nessuna reazione. Grande à plomb e massima dignità e austerità. E' vero che la faccia insanguinata di Berlusconi aveva un impatto emotivo decisamente diverso e più drammatico del ruzzolone del Papa (ma qualcuno lo vada a spiegare al cardinale ultraottantenne che ci ha rimesso un femore...), è vero che il lancio di un oggetto in piena faccia è altra cosa di uno spintone, ma nella sostanza delle cose si tratta comunque in entrambi i casi di un'aggressione da parte di un folle, con conseguenze potenzialmente letali anche in considerazione dell'età delle vittime. Ebbene, il capo spirituale e non solo spirituale della Chiesa (come detto è pur sempre un Capo di Stato) ha scelto di dare un basso profilo al fatto criminoso, minimizzando l'accaduto e addirittura non facendone minimamente cenno in prima persona. La prima reazione a caldo del Papa pare sia stata una frase del tipo "beh, non è poi successo nulla di grave". Nessuna campagna mediatica, nessuna dichiarazione di vittimismo o di martirio, nessuna invettiva contro mandanti reali o virtuali.
Altra classe, altro stile, altro spessore e levatura morale. E scusate se è poco.
mercoledì 23 dicembre 2009
Nevica, governo ladro!
Nevica, fa freddo. Notizia bomba!
Giornali, radio e televisioni non parlano d'altro. Siamo in inverno e in inverno, per definizione, nevica e fa freddo. Dov'è l'eccezionalità dell'evento? Forse nell'intensità della nevicata? Nella persistenza del freddo? Ma non prendiamoci in giro. La verità è un'altra, anzi due.
La prima. Bisogna dare di che parlare e pensare agli italiani. Perchè parlare e pensare al freddo distoglie le menti da altri argomenti ben più "scottanti" (non male come ossimoro). In questa ottica di disorientamento sistematico e programmato dell'opinione pubblica rientra il solito bombardamento di servizi televisivi sullo shopping di Natale e di quanto bello e gratificante sia partecipare all'orgia dello scambio di regali. C'è sempre in agguato il solito giornalista (preferibilmente con rassicurante accento romanesco) che ci dice che con soli 180 euro potremo avere un porta telefonino cellulare di Swarowsky... o che 50 milioni di italiani banchetteranno smodatamente spendendo in un sol colpo miliardi di euro in caviale e champagne. Alla faccia di chi non arriva alla fine del mese. Altro che Swarowsky e caviale.
La seconda. Possibile che 3-4 giorni di neve mettano in ginocchio l'Italia? Che il sistema autostradale rischi la paralisi e che le ferrovie non siano in grado di fronteggiare le nevicate invernali? Evidentemente è il sistema-Italia che ha chiari limiti di affidabilità e funzionalità. I 20-30 cm. di neve non hanno fatto altro che mettere in evidenza questi limiti altrimenti sopiti dalle temperature miti tipicamente italiane. Per contro trovo insopportabile che ci sia sempre il solito furbone che non trova di meglio che fare paragoni con la Finlandia (!) dove i treni marciano sempre e comunque, anche con 30° sotto zero. Peccato che la Finlandia sia collocata qualche migliaio di km più a nord verso il circolo polare artico.... Che minchia di paragoni sono? Che piova o nevichi, la colpa è sempre del governo-ladro o esiste un margine di accettazione dell'evento naturale?
E' anche vero che ognuno ci mette del suo, nel senso deleterio del termine. Professionalità ed efficienza sembrano essere concetti misteriosi in casa Ferrovie dello Stato o Trenitalia, comunque le si voglia chiamare. Incomincia l'amministratore delegato Moretti che dall'alto della sua autorevolezza (chissà che stipendio ha...)consiglia i viaggiatori di munirsi di panini e coperte se vogliono testardamente sfidare il destino e usare i treni in questo periodo. Un esempio di comunicazione demenziale nei confronti dell'opinione pubblica e della clientela, non c'è che dire. Per finire cito un fatto riportato da un viaggiatore intervistato a Milano. Un treno pendolari arriva in stazione con le porte bloccate dal freddo. I passeggeri riescono comunque a scendere e il treno rimane lì in attesa di ripartire. Nessuno del personale di quel treno appena arrivato si preoccupa di avvisare chi di dovere del problema delle porte. Dopo mezzora quello stesso convoglio deve ripartire per la tratta inversa. Monta in servizio il nuovo personale subentrante e solo allora si accorge del problema delle porta bloccate. Viene chiamata la squadra di supporto (mezzora di attesa) che a martellate sblocca le porte con i conseguenti danni che sono facili immaginare (una banale bomboletta di spray deghiacciante è pura fantascienza alle ferrovie). Morale della favola: un guasto che si poteva affronatre e risolvere immediatamente è stato vergognosamente trascurato, il treno è partito con 40 minuti di ritardo e con le porte danneggiate dalle martellate, dunque finirà in officina per le riparazioni. E tutto per la mancanza di una banalissima bomboletta di spray invernale del costo di un paio di euro.
Beh, bisogna ammettere che a volte i passeggeri hanno ragione ad inferocirsi...
Giornali, radio e televisioni non parlano d'altro. Siamo in inverno e in inverno, per definizione, nevica e fa freddo. Dov'è l'eccezionalità dell'evento? Forse nell'intensità della nevicata? Nella persistenza del freddo? Ma non prendiamoci in giro. La verità è un'altra, anzi due.
La prima. Bisogna dare di che parlare e pensare agli italiani. Perchè parlare e pensare al freddo distoglie le menti da altri argomenti ben più "scottanti" (non male come ossimoro). In questa ottica di disorientamento sistematico e programmato dell'opinione pubblica rientra il solito bombardamento di servizi televisivi sullo shopping di Natale e di quanto bello e gratificante sia partecipare all'orgia dello scambio di regali. C'è sempre in agguato il solito giornalista (preferibilmente con rassicurante accento romanesco) che ci dice che con soli 180 euro potremo avere un porta telefonino cellulare di Swarowsky... o che 50 milioni di italiani banchetteranno smodatamente spendendo in un sol colpo miliardi di euro in caviale e champagne. Alla faccia di chi non arriva alla fine del mese. Altro che Swarowsky e caviale.
La seconda. Possibile che 3-4 giorni di neve mettano in ginocchio l'Italia? Che il sistema autostradale rischi la paralisi e che le ferrovie non siano in grado di fronteggiare le nevicate invernali? Evidentemente è il sistema-Italia che ha chiari limiti di affidabilità e funzionalità. I 20-30 cm. di neve non hanno fatto altro che mettere in evidenza questi limiti altrimenti sopiti dalle temperature miti tipicamente italiane. Per contro trovo insopportabile che ci sia sempre il solito furbone che non trova di meglio che fare paragoni con la Finlandia (!) dove i treni marciano sempre e comunque, anche con 30° sotto zero. Peccato che la Finlandia sia collocata qualche migliaio di km più a nord verso il circolo polare artico.... Che minchia di paragoni sono? Che piova o nevichi, la colpa è sempre del governo-ladro o esiste un margine di accettazione dell'evento naturale?
E' anche vero che ognuno ci mette del suo, nel senso deleterio del termine. Professionalità ed efficienza sembrano essere concetti misteriosi in casa Ferrovie dello Stato o Trenitalia, comunque le si voglia chiamare. Incomincia l'amministratore delegato Moretti che dall'alto della sua autorevolezza (chissà che stipendio ha...)consiglia i viaggiatori di munirsi di panini e coperte se vogliono testardamente sfidare il destino e usare i treni in questo periodo. Un esempio di comunicazione demenziale nei confronti dell'opinione pubblica e della clientela, non c'è che dire. Per finire cito un fatto riportato da un viaggiatore intervistato a Milano. Un treno pendolari arriva in stazione con le porte bloccate dal freddo. I passeggeri riescono comunque a scendere e il treno rimane lì in attesa di ripartire. Nessuno del personale di quel treno appena arrivato si preoccupa di avvisare chi di dovere del problema delle porte. Dopo mezzora quello stesso convoglio deve ripartire per la tratta inversa. Monta in servizio il nuovo personale subentrante e solo allora si accorge del problema delle porta bloccate. Viene chiamata la squadra di supporto (mezzora di attesa) che a martellate sblocca le porte con i conseguenti danni che sono facili immaginare (una banale bomboletta di spray deghiacciante è pura fantascienza alle ferrovie). Morale della favola: un guasto che si poteva affronatre e risolvere immediatamente è stato vergognosamente trascurato, il treno è partito con 40 minuti di ritardo e con le porte danneggiate dalle martellate, dunque finirà in officina per le riparazioni. E tutto per la mancanza di una banalissima bomboletta di spray invernale del costo di un paio di euro.
Beh, bisogna ammettere che a volte i passeggeri hanno ragione ad inferocirsi...
martedì 22 dicembre 2009
Gareth Thomas, outing nel rugby
"Sono gay!" Una dichiarazione che suona come un urlo piuttosto che un sussurro. E' quello di Gareth Thomas rugbysta gallese di fama internazionale, una stella di prima grandezza sia in patria che all'estero. Anche qui in Italia è molto conosciuto e apprezzato, sia pure solo dal pubblico di nicchia che segue e apprezza il rugby estero.
La notizia è di quelle bomba, per tanti motivi. L'outing da parte di un personaggio noto e affermato è di per sè una notizia da prima pagina, che poi sia un rugbysta gli assegna ancora più risalto per quell'aura di machismo duro e puro che aleggia su questo splendido sport. Macho o non macho, il mondo del rugby ha reagito come meglio non si potrebbe. I suoi compagni di squadra e di nazionale (Galles) hanno reagito alla notizia con un semplice "perchè non l'hai detto prima?". Il tutto con molta serenità.
Naturalmente c'è sempre chi deve cercare spunti di polemica. C'è chi ha criticato la scelta di Thomas come una forma di esibizionismo e in altre parole di "marciarci sopra" parecchio. Se Gareth Thomas ha scelto di fare outing avrà avuto i suoi motivi. Sono comprensibili i dubbi di chi si chiede se di fondo non ci sia una spinta di esibizionismo della propria diversità e molto probabilmente in tanti altri casi simili i dubbi sono più che fondati. Ma bisogna osservare che solitamente l'outing fa coppia con la ricerca di notorietà da parte di chi noto e famoso non è. In quel caso la manifestazione pubblica delle proprie tendenze sessuali può servire (serve!) ad aprire molte strade. Ma per quanto riguarda Gareth Thomas è già una stella del rugby mondiale, è già un uomo e uno sportivo di successo. Se è arcinoto qui in Italia figuriamoci che livello di notorietà e di popolarità potrà avere in patria, in Gran Bretagna come nel suo Galles, dove il rugby gode di platee enormemente più vaste.
Evidentemente le spinte motivazionali che hanno portato Gareth all'outing sono altre, molto personali e ben distanti dall'esibizionismo di cui viene più o meno velatamente, tacciato. Forse, prima di lanciare accuse gratuite, bisognerebbe chiedersi cosa significhi vivere nascondendo le proprie inclinazioni, i propri sentimenti, le proprie caratteristiche personali. Una vita passata a mimetizzarsi non è augurabile a nessuno. E prima o poi arriva il momento in cui non se ne può più ed esplode l'esigenza di levarsi la maschera e mostrare la propria vera faccia. Soprattutto perchè non c'è nulla da nascondere, non c'è nulla di cui vergognarsi. Mettersi a nudo per rinascere e ricominciare daccapo. Per trasparenza, per non avere una doppia faccia, per amore di verità. Può bastare?
Forza Gareth, questa è una delle mete più belle che hai segnato in carriera.
La notizia è di quelle bomba, per tanti motivi. L'outing da parte di un personaggio noto e affermato è di per sè una notizia da prima pagina, che poi sia un rugbysta gli assegna ancora più risalto per quell'aura di machismo duro e puro che aleggia su questo splendido sport. Macho o non macho, il mondo del rugby ha reagito come meglio non si potrebbe. I suoi compagni di squadra e di nazionale (Galles) hanno reagito alla notizia con un semplice "perchè non l'hai detto prima?". Il tutto con molta serenità.
Naturalmente c'è sempre chi deve cercare spunti di polemica. C'è chi ha criticato la scelta di Thomas come una forma di esibizionismo e in altre parole di "marciarci sopra" parecchio. Se Gareth Thomas ha scelto di fare outing avrà avuto i suoi motivi. Sono comprensibili i dubbi di chi si chiede se di fondo non ci sia una spinta di esibizionismo della propria diversità e molto probabilmente in tanti altri casi simili i dubbi sono più che fondati. Ma bisogna osservare che solitamente l'outing fa coppia con la ricerca di notorietà da parte di chi noto e famoso non è. In quel caso la manifestazione pubblica delle proprie tendenze sessuali può servire (serve!) ad aprire molte strade. Ma per quanto riguarda Gareth Thomas è già una stella del rugby mondiale, è già un uomo e uno sportivo di successo. Se è arcinoto qui in Italia figuriamoci che livello di notorietà e di popolarità potrà avere in patria, in Gran Bretagna come nel suo Galles, dove il rugby gode di platee enormemente più vaste.
Evidentemente le spinte motivazionali che hanno portato Gareth all'outing sono altre, molto personali e ben distanti dall'esibizionismo di cui viene più o meno velatamente, tacciato. Forse, prima di lanciare accuse gratuite, bisognerebbe chiedersi cosa significhi vivere nascondendo le proprie inclinazioni, i propri sentimenti, le proprie caratteristiche personali. Una vita passata a mimetizzarsi non è augurabile a nessuno. E prima o poi arriva il momento in cui non se ne può più ed esplode l'esigenza di levarsi la maschera e mostrare la propria vera faccia. Soprattutto perchè non c'è nulla da nascondere, non c'è nulla di cui vergognarsi. Mettersi a nudo per rinascere e ricominciare daccapo. Per trasparenza, per non avere una doppia faccia, per amore di verità. Può bastare?
Forza Gareth, questa è una delle mete più belle che hai segnato in carriera.
venerdì 18 dicembre 2009
Garlasco, Stasi innocente
Chiara Poggi fu colpita a pochi passi dalla porta d’ingresso, poi trascinata lungo le scale che conducono in cantina. Sul pavimento della villetta di due piani restano le tracce delle mani insanguinate della vittima, colpita più volte con un’arma sconosciuta. Un’aggressione feroce: l’assassino infierisce fino a sfondarle il cranio. Nulla manca nell’abitazione e non ci sono tracce di estranei. Chiara indossa un pigiama estivo, è lei probabilmente ad aver aperto la porta a chi le toglie la vita. Nessun ombra nella sua vita, pochi amici e la storia d’amore di quattro anni con Alberto Stasi. È lui che scopre il corpo senza vita della fidanzata e su di lui puntano, da subito, le indagini. Da subito si scatena il tam tam mediatico, da Porta a Porta del solito Vespa, fino all'ultimo rotocalco in edicola. Complice la calura estiva e la scarsità di notizie tipica del periodo, il delitto di Garlasco da potenzialmente insignificante fatto di cronaca di provincia come ce ne sono tanti, assurge al ruolo di "delitto dell'estate" scatenando la morbosa curiosità di tutti.
Qualcosa di simile, nel meccanismo di attenzione e diffusione dell'interesse su un fatto di cronaca altrimenti trascurato a livello nazionale, è successo per il delitto di Perugia, quello che ha visto la recente condanna della giovane americana Amanda Knox (con l'altro imputato Raffaele Sollecito) giungendo addirittura all'interessamento del segretario di stato Usa Hillary Clinton. Ovvero alla diplomazia internazionale. Incredibile. Personalmente mi sono fatto un'idea su colpevoli e innocenti in queste due vicende processuali. Un'idea molto epidermica, non conoscendo altro, e neppure troppo a fondo, che quello che si è letto sui giornali. Per me La Knox e Sollecito sono colpevoli, mentre Stasi è innocente. Ripeto: è solo un'impressione istintiva, nulla di più.
Oltre all'onore delle luci della ribalta mediatica (se tale si può definire), c'è un altro elemento che lega i due fatti di cronaca. In entrambi i casi è stato determinante l'apporto delle indagini scientifiche condotte dagli investigatori. La domanda da porsi è questa. Che livello di affidabilità hanno questo tipo di indagini? Direi senz'altro un livello altissimo, visto lo sviluppo del settore investigativo-scientifico anche alla luce dei moderni strumenti scientifici. Aggiungerei però, al tempo stesso bassissimo, addirittura deleterio e controproducente, se le indagini vengono condotte in maniera approssimativa e raffazzonata. Domanda: come e con che competenze giudicare? Lasciamo perdere per principio paragoni asssurdi con serie televisive o film polizieschi (in giro si è letto anche questo...) e cerchiamo di usare il buon senso. Mi spiego: è sufficiente vedere le immagini di qualche servizio dei vari telegiornali o qualche foto tratta dai quotidiani per notare -vedi ad esempio la foto qui accanto- come accanto a personale investigativo in tenuta asettica (tuta bianca, calzari-soprascarpe, guanti, mascherina e chissà che altro ancora), sulla scena del delitto vi è sempre la compresenza di una massa di persone -poliziotti, carabinieri, medici, infermieri, curiosi, giornalisti, magistrati...- che evidentemente sporcano o alterano l'ambiente che dovrebbe essere oggetto di indagini accuratissime. Che senso ha bardarsi con tuta, calzari e mascherina quando si è circondati da persone vestite normalmente che toccano e calpestano di tutto? Come si fa ad avere fiducia in un siffatto tipo di indagini? Le sofisticate attrezzature scientifiche e le tecnologie applicate al settore investigativo che senso hanno se poi mezzo mondo passa e inquina la scena del delitto?
Ed è proprio quanto è emerso in entrambi i processi, con prove e perizie spesso diametralmente opposte anche probabilmente proprio perchè basate su indagini svolte in questo modo in apparenza poco comprensibile. E' solo la mia impressione da profano o c'è del vero nelle considerazioni?
Risultato: a Perugia due condanne e a Garlasco una assoluzione. Per il momento, poi in appello ri ricomincerà daccapo. Sentenze giuste? Sentenze sbagliate? Difficile dirlo in generale, come per qualunque sentenza. Bisogna però accettarle perchè così deve essere. Ma il dubbio rimane: come sono state svolte le indagini? Quella tal prova determinante per la condanna o per l'assoluzione è credibile e genuina oppure è stata inquinata da un estraneo qualsiasi presente indebitamente sulla scena del delitto?
Un processo penale è spesso un gioco a carte coperte che dipende dalle circostanze e dall'abilità dei giocatori (avvocati, inquirenti, giudici). Se poi le carte sono inaffidabili per imperizia e approssimazione, come la mettiamo? Dio ce ne scampi e liberi...
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giovedì 17 dicembre 2009
Berlusconi torna a casa!
Non è un improperio nè un invito insolente, bensì è quanto è successo oggi a Milano. Berlusconi ha fatto finalmente ritorno a casa, nella sua villazza di Arcore. Nel lasciare l'ospedale, vistosamente incerottato, ha dichiarato: "Se cambiano i toni, il mio dolore non sarà stato inutile". E' decisamente in odore di santità... Prendersi il duomo di Milano in faccia gli deve aver trasmesso per contatto una certa vocazione al martirio. Ma per l'unto del Signore, questo è quasi scontato.
Una battuta divertente sentita ieri su non so quale radio a proposito della prolungata permanenza in ospedale. "Berlusconi è così difficile che si dimetta da qualcosa, che non vuole dimettersi neanche dall'ospedale..."! Mica male, no?
Vabbè, meglio sorriderci sopra, dopo tanto veleno sparso a piene mani in questi giorni (e chissà quanto altro ne vedremo ancora).
Sono stufo di parlare di politica, il clima attuale è pesantissimo e non si intravede nessuna luce in fondo al tunnel. Basta risse verbali, basta litigi tra politici, basta scambi di accuse reciproche. Per un pò stacco la spina e per depurare la mente mi dedico ad altri argomenti.
Una battuta divertente sentita ieri su non so quale radio a proposito della prolungata permanenza in ospedale. "Berlusconi è così difficile che si dimetta da qualcosa, che non vuole dimettersi neanche dall'ospedale..."! Mica male, no?
Vabbè, meglio sorriderci sopra, dopo tanto veleno sparso a piene mani in questi giorni (e chissà quanto altro ne vedremo ancora).
Sono stufo di parlare di politica, il clima attuale è pesantissimo e non si intravede nessuna luce in fondo al tunnel. Basta risse verbali, basta litigi tra politici, basta scambi di accuse reciproche. Per un pò stacco la spina e per depurare la mente mi dedico ad altri argomenti.
lunedì 14 dicembre 2009
Film visti. A serious man
A serious manregia di Joel ed Ethan Coen; con Simon Helberg, Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Adam Arkin, George Wyner, Katherine Borowitz
[voto 1,5 su 5]
Un film spiazzante, in certi momenti addirittura irritante, inconcludente. Ne è passato di tempo da Barton Fink, Fargo, Il grande Lebowsky... Personalmente i Cohen di dieci anni fa mi piacevano, mi appassionavano e mi entusiasmavano. Gli ultimi Cohen (Non è paese per vecchi, Burn after reading) francamente li trovo insopportabili e pretenziosi. La mia impressione è che abbiano perso freschezza e spontaneità, alla ricerca di personaggi troppo costruiti e troppo emblematici. Tutto questo eccesso di "troppo", va a discapito della storia raccontata che diventa stiracchiata e farraginosa.
Ambientato nel 1967, racconta una vicenda interamente circoscritta agli ambienti ebrei di Minneapolis nel cuore dell'america bianca e rigidamente tradizionalista. Gli anni sessanta come li abbiamo conosciuti e apprezzati al cinema sono parecchio distanti, salvo qualche accenno musicale qua e là. Niente rock&roll, niente B-52, niente sballo del sabato sera, niente Vietnam, niente figli-dei-fiori. Giusto una canna di straforo, per gradire. I fratelli Cohen si concentrano invece su un opaco professore universitario e la sua opaca famiglia. Personaggi di basso profilo, che sembrano sguazzare nella loro opacità. Anche una relazione extraconiugale, solitamente dirompente in qualsiasi menage familiare, è vissuta con grigiore. Nemmeno una reazione, un segnale di vitalità, una sana e sacrosanta incazzatura. E su tutto regna e ristagna una pletora di rabbini vuoti e insulsi che prestano la propria opera in bilico tra il ruolo religioso e quello di psichiatri di famiglia, salvo non riuscire a dare alcun aiuto reale. Da che pianeta arrivano questi personaggi? La cosa più inquietante è che da qualche parte tipi così esistono o sono esistiti realmente...
Irritante anche il doppiaggio del protagonista principale. Il doppiatore sembra un incrocio/imitazione di Oreste Lionello/Woody Allen, occhiali compresi...
Il film è questo. Mi dispiace, ma non ci siamo proprio.
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[voto 1,5 su 5]
Un film spiazzante, in certi momenti addirittura irritante, inconcludente. Ne è passato di tempo da Barton Fink, Fargo, Il grande Lebowsky... Personalmente i Cohen di dieci anni fa mi piacevano, mi appassionavano e mi entusiasmavano. Gli ultimi Cohen (Non è paese per vecchi, Burn after reading) francamente li trovo insopportabili e pretenziosi. La mia impressione è che abbiano perso freschezza e spontaneità, alla ricerca di personaggi troppo costruiti e troppo emblematici. Tutto questo eccesso di "troppo", va a discapito della storia raccontata che diventa stiracchiata e farraginosa.
Ambientato nel 1967, racconta una vicenda interamente circoscritta agli ambienti ebrei di Minneapolis nel cuore dell'america bianca e rigidamente tradizionalista. Gli anni sessanta come li abbiamo conosciuti e apprezzati al cinema sono parecchio distanti, salvo qualche accenno musicale qua e là. Niente rock&roll, niente B-52, niente sballo del sabato sera, niente Vietnam, niente figli-dei-fiori. Giusto una canna di straforo, per gradire. I fratelli Cohen si concentrano invece su un opaco professore universitario e la sua opaca famiglia. Personaggi di basso profilo, che sembrano sguazzare nella loro opacità. Anche una relazione extraconiugale, solitamente dirompente in qualsiasi menage familiare, è vissuta con grigiore. Nemmeno una reazione, un segnale di vitalità, una sana e sacrosanta incazzatura. E su tutto regna e ristagna una pletora di rabbini vuoti e insulsi che prestano la propria opera in bilico tra il ruolo religioso e quello di psichiatri di famiglia, salvo non riuscire a dare alcun aiuto reale. Da che pianeta arrivano questi personaggi? La cosa più inquietante è che da qualche parte tipi così esistono o sono esistiti realmente...
Irritante anche il doppiaggio del protagonista principale. Il doppiatore sembra un incrocio/imitazione di Oreste Lionello/Woody Allen, occhiali compresi...
Il film è questo. Mi dispiace, ma non ci siamo proprio.
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sabato 12 dicembre 2009
Italiani, brava gente.... (ma razzisti)
Italiani, brava gente. Un detto popolare, un luogo comune che nasce, credo, dal titolo di un film degli anni '50-'60. O forse è il contrario, è il film che copia un detto popolare. Comunque sia, il luogo comune deve essere rimandato al mittente e archiviato come desueto e non più veritiero, purtroppo. La realtà dei fatti, quella che possiamo verificare in prima persona tutti i giorni, che leggiamo sui giornali o vediamo nei Tg, è ben diversa. Sempre che il punto di vista non sia quello di un razzista, palese o latente. In tal caso la smentita, seccata e sdegnata è certa: in Italia non c'è razzismo!
Ecco un articolo eloquentissimo sull'argomento, pubblicato di spalla oggi in prima pagina su Repubblica. Se fossi un insegnante, lo leggerei in classe ai miei alunni. Bisogna che i giovani sappiano e si rendano conto in che paese vivono e, se non sono ancora stati plagiati e imbarbariti dagli adulti, forse si possono ancora salvare dal razzismo strisciante che serpeggia nel nostro paese.
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LA REPUBBLICA
12 dicembre 2009
Io, nero italiano e la mia vita ad ostacoli
di Pap Khouma
http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/cronaca/immigrati-13/nero-italiano/nero-italiano.html
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Sono italiano e ho la pelle nera. Un black italiano, come mi sono sentito dire al controllo dei passaporti dell'aeroporto di Boston da africane americane addette alla sicurezza. Ma voi avete idea di cosa significa essere italiano e avere la pelle nera proprio nell'Italia del 2009? Mi capita, quando vado in Comune a Milano per richiedere un certificato ed esibisco il mio passaporto italiano o la mia carta d'identità, che il funzionario senza neppure dare un'occhiata ai miei documenti, ma solo guardandomi in faccia, esiga comunque il mio permesso di soggiorno: documento che nessun cittadino italiano possiede. Ricordo un'occasione in cui, in una sede decentrata del Comune di Milano, una funzionaria si stupì del fatto che potessi avere la carta d'identità italiana e chiamò in aiuto altre due colleghe che accorsero lasciando la gente in fila ai rispettivi sportelli. Il loro dialogo suonava più o meno così. "Mi ha dato la sua carta d'identità italiana ma dice di non avere il permesso di soggiorno. Come è possibile?". "Come hai fatto ad avere la carta d'identità, se non hai un permesso di soggiorno... ci capisci? Dove hai preso questo documento? Capisci l'italiano?". "Non ho il permesso di soggiorno", mi limitai a rispondere. Sul documento rilasciato dal Comune (e in mano a ben tre funzionari del Comune) era stampato "cittadino italiano" ma loro continuavano a concentrarsi solo sulla mia faccia nera, mentre la gente in attesa perdeva la pazienza. Perché non leggete cosa c'è scritto sul documento?", suggerii. Attimo di sorpresa ma.... finalmente mi diedero del lei. "Lei è cittadino italiano? Perché non l'ha detto subito? Noi non siamo abituati a vedere un extracomunitario...". L'obiezione sembrerebbe avere un qualche senso ma se invece, per tagliare corto, sottolineo subito che sono cittadino italiano, mi sento rispondere frasi del genere: "Tu possiedi il passaporto italiano ma non sei italiano". Oppure, con un sorriso: "Tu non hai la nazionalità italiana come noi, hai solo la cittadinanza italiana perché sei extracomunitario".
Quando abitavo vicino a viale Piave, zona centrale di Milano, mi è capitato che mentre di sera stavo aprendo la mia macchina ed avevo in mano le chiavi una persona si è avvicinata e mi ha chiesto con tono perentorio perché stavo aprendo quell'auto. D'istinto ho risposto: "Perché la sto rubando! Chiama subito i carabinieri". E al giustiziere, spiazzato, non è restato che andarsene. In un'altra occasione a Milano alle otto di mattina in un viale ad intenso traffico, la mia compagna mentre guidava ha tagliato inavvertitamente la strada ad una donna sul motorino. E' scesa di corsa per sincerarsi dello stato della malcapitata. Ho preso il volante per spostare la macchina e liberare il traffico all'ora di punta. Un'altra donna (bianca) in coda è scesa dalla propria macchina ed è corsa verso la mia compagna (bianca) e diffondendo il panico le ha detto: "Mentre stai qui a guardare, un extracomunitario ti sta rubando la macchina". "Non è un ladro, è il mio compagno", si è sentita rispondere. Tutte le volte che ho cambiato casa, ho dovuto affrontare una sorta di rito di passaggio. All'inizio, saluto con un sorriso gli inquilini incrociati per caso nell'atrio: "Buongiorno!" o "Buona sera!". Con i giovani tutto fila liscio. Mentre le persone adulte sono più sospettose. Posso anche capirle finché mi chiedono se abito lì, perché è la prima volta che ci incontriamo. Ma rimango spiazzato quando al saluto mi sento rispondere frasi del genere: "Non compriamo nulla. Qui non puoi vendere!". "Chi ti ha fatto entrare?". Nel settembre di quest'anno ero con mio figlio di 12 anni e aspettavo insieme a lui l'arrivo della metropolitana alla stazione di Palestro. Come sempre l'altoparlante esortava i passeggeri a non superare la linea gialla di sicurezza. Un anziano signore apostrofò mio figlio: "Parlano con te, ragazzino. Hai superato la linea gialla. Devi sapere che qui è vietato superare la linea gialla... maleducato". Facevo notare all'anziano che mio figlio era lontano dalla linea gialla ma lui continuava ad inveire: "Non dovete neppure stare in questo paese. Tornatevene a casa vostra... feccia del mondo. La pagherete prima o poi". Qualche settimana fa all'aeroporto di Linate sono entrato in un'edicola per comprare un giornale. C'era un giovane addetto tutto tatuato, mi sono avvicinato a lui per pagare e mi ha indicato un'altra cassa aperta. Ho pagato e mi sono avviato verso l'uscita quando il giovane addetto si è messo a urlare alla cassiera: "Quell'uomo di colore ha pagato il giornale?". La cassiera ha risposto urlando: "Sì l'uomo di colore ha pagato!". Tornato indietro gli dico: "Non c'é bisogno di urlare in questo modo. Ha visto bene mentre pagavo". "Lei mi ha guardato bene? Lo sa con chi sta parlando? Mi guardi bene! Sa cosa sono? Lei si rende conto cosa sono?". Cercava di intimidirmi. "Un razzista!" gli dico. "Sì, sono un razzista. Stia molto attento!". "Lei è un cretino", ho replicato. Chi vive queste situazioni quotidiane per più di 25 anni o finisce per accettarle, far finta di niente per poter vivere senza impazzire, oppure può diventare sospettoso, arcigno, pieno di "pregiudizi al contrario", spesso sulle spine col rischio di confondere le situazioni e di vedere razzisti sbucare da tutte le parti, di perdere la testa e di urlare e insultare in mezzo alla gente. E il suo aguzzino che ha il coltello dalla parte del manico, con calma commenta utilizzando una "formula" fissa ma molto efficace: "Guardate, sta urlando, mi sta insultando. Lui è soltanto un ospite a casa mia. Siete tutti testimoni...". Ho assistito per caso alla rappresentazione di una banda musicale ad Aguzzano, nel piacentino. Quando quasi tutti se ne erano andati ho visto in mezzo alla piazza una bandiera italiana prendere fuoco senza una ragionevole spiegazione. Mi sono ben guardato dal spegnerla anche se ero vicino. Cosa avrebbe pensato o come avrebbe reagito la gente vedendo un "extracomunitario" nella piazza di un paesino con la bandiera italiana in fiamme tra le mani? Troppi simboli messi insieme. Ho lasciato la bandiera bruciare con buona pace di tutti. Ho invece infinitamente apprezzato il comportamento dei poliziotti del presidio della metropolitana di Piazza Duomo di Milano. Non volevo arrivare al lavoro in ritardo e stavo correndo in mezzo alla gente. Ad un tratto mi sentii afferrare alle spalle e spintonare. Mi ritrovai di fronte un giovane poliziotto in divisa che mi urlò di consegnare i documenti. Consegnai la mia carta di identità al poliziotto già furibondo il quale, senza aprirla, mi ordinò di seguirlo. Giunti al posto di polizia, dichiarò ai suoi colleghi: "Questo extracomunitario si comporta da prepotente!". Per fortuna le mie spiegazioni non furono smentite dal collega presente ai fatti. I poliziotti verificarono accuratamente i miei documenti e dopo conclusero che il loro giovane collega aveva sbagliato porgendomi le loro scuse. Furono anche dispiaciuti per il mio ritardo al lavoro. Dopotutto, ho l'impressione che, rispetto alla maggioranza della gente, ai poliziotti non sembri anormale ritrovarsi di fronte a un cittadino italiano con la pelle nera o marrone. "Noi non siamo abituati!", ci sentiamo dire sempre e ovunque da nove persone su dieci. E' un alibi che non regge più dopo trent'anni che viviamo e lavoriamo qui, ci sposiamo con italiane/italiani, facciamo dei figli misti o no, che crescono e vengono educati nelle scuole e università italiane. Un fatto sconvolgente è quando tre anni fa fui aggredito da quattro controllori dell'Atm a Milano e finii al pronto soccorso. Ancora oggi sto affrontando i processi ma con i controllori come vittime ed io come imputato. Una cosa è certa, ho ancora fiducia nella giustizia italiana.
[Per saperne di più sull'autore: http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/chisiamo/khouma.html]
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Ecco un articolo eloquentissimo sull'argomento, pubblicato di spalla oggi in prima pagina su Repubblica. Se fossi un insegnante, lo leggerei in classe ai miei alunni. Bisogna che i giovani sappiano e si rendano conto in che paese vivono e, se non sono ancora stati plagiati e imbarbariti dagli adulti, forse si possono ancora salvare dal razzismo strisciante che serpeggia nel nostro paese.
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LA REPUBBLICA
12 dicembre 2009
Io, nero italiano e la mia vita ad ostacoli
di Pap Khouma
http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/cronaca/immigrati-13/nero-italiano/nero-italiano.html
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Sono italiano e ho la pelle nera. Un black italiano, come mi sono sentito dire al controllo dei passaporti dell'aeroporto di Boston da africane americane addette alla sicurezza. Ma voi avete idea di cosa significa essere italiano e avere la pelle nera proprio nell'Italia del 2009? Mi capita, quando vado in Comune a Milano per richiedere un certificato ed esibisco il mio passaporto italiano o la mia carta d'identità, che il funzionario senza neppure dare un'occhiata ai miei documenti, ma solo guardandomi in faccia, esiga comunque il mio permesso di soggiorno: documento che nessun cittadino italiano possiede. Ricordo un'occasione in cui, in una sede decentrata del Comune di Milano, una funzionaria si stupì del fatto che potessi avere la carta d'identità italiana e chiamò in aiuto altre due colleghe che accorsero lasciando la gente in fila ai rispettivi sportelli. Il loro dialogo suonava più o meno così. "Mi ha dato la sua carta d'identità italiana ma dice di non avere il permesso di soggiorno. Come è possibile?". "Come hai fatto ad avere la carta d'identità, se non hai un permesso di soggiorno... ci capisci? Dove hai preso questo documento? Capisci l'italiano?". "Non ho il permesso di soggiorno", mi limitai a rispondere. Sul documento rilasciato dal Comune (e in mano a ben tre funzionari del Comune) era stampato "cittadino italiano" ma loro continuavano a concentrarsi solo sulla mia faccia nera, mentre la gente in attesa perdeva la pazienza. Perché non leggete cosa c'è scritto sul documento?", suggerii. Attimo di sorpresa ma.... finalmente mi diedero del lei. "Lei è cittadino italiano? Perché non l'ha detto subito? Noi non siamo abituati a vedere un extracomunitario...". L'obiezione sembrerebbe avere un qualche senso ma se invece, per tagliare corto, sottolineo subito che sono cittadino italiano, mi sento rispondere frasi del genere: "Tu possiedi il passaporto italiano ma non sei italiano". Oppure, con un sorriso: "Tu non hai la nazionalità italiana come noi, hai solo la cittadinanza italiana perché sei extracomunitario".
Quando abitavo vicino a viale Piave, zona centrale di Milano, mi è capitato che mentre di sera stavo aprendo la mia macchina ed avevo in mano le chiavi una persona si è avvicinata e mi ha chiesto con tono perentorio perché stavo aprendo quell'auto. D'istinto ho risposto: "Perché la sto rubando! Chiama subito i carabinieri". E al giustiziere, spiazzato, non è restato che andarsene. In un'altra occasione a Milano alle otto di mattina in un viale ad intenso traffico, la mia compagna mentre guidava ha tagliato inavvertitamente la strada ad una donna sul motorino. E' scesa di corsa per sincerarsi dello stato della malcapitata. Ho preso il volante per spostare la macchina e liberare il traffico all'ora di punta. Un'altra donna (bianca) in coda è scesa dalla propria macchina ed è corsa verso la mia compagna (bianca) e diffondendo il panico le ha detto: "Mentre stai qui a guardare, un extracomunitario ti sta rubando la macchina". "Non è un ladro, è il mio compagno", si è sentita rispondere. Tutte le volte che ho cambiato casa, ho dovuto affrontare una sorta di rito di passaggio. All'inizio, saluto con un sorriso gli inquilini incrociati per caso nell'atrio: "Buongiorno!" o "Buona sera!". Con i giovani tutto fila liscio. Mentre le persone adulte sono più sospettose. Posso anche capirle finché mi chiedono se abito lì, perché è la prima volta che ci incontriamo. Ma rimango spiazzato quando al saluto mi sento rispondere frasi del genere: "Non compriamo nulla. Qui non puoi vendere!". "Chi ti ha fatto entrare?". Nel settembre di quest'anno ero con mio figlio di 12 anni e aspettavo insieme a lui l'arrivo della metropolitana alla stazione di Palestro. Come sempre l'altoparlante esortava i passeggeri a non superare la linea gialla di sicurezza. Un anziano signore apostrofò mio figlio: "Parlano con te, ragazzino. Hai superato la linea gialla. Devi sapere che qui è vietato superare la linea gialla... maleducato". Facevo notare all'anziano che mio figlio era lontano dalla linea gialla ma lui continuava ad inveire: "Non dovete neppure stare in questo paese. Tornatevene a casa vostra... feccia del mondo. La pagherete prima o poi". Qualche settimana fa all'aeroporto di Linate sono entrato in un'edicola per comprare un giornale. C'era un giovane addetto tutto tatuato, mi sono avvicinato a lui per pagare e mi ha indicato un'altra cassa aperta. Ho pagato e mi sono avviato verso l'uscita quando il giovane addetto si è messo a urlare alla cassiera: "Quell'uomo di colore ha pagato il giornale?". La cassiera ha risposto urlando: "Sì l'uomo di colore ha pagato!". Tornato indietro gli dico: "Non c'é bisogno di urlare in questo modo. Ha visto bene mentre pagavo". "Lei mi ha guardato bene? Lo sa con chi sta parlando? Mi guardi bene! Sa cosa sono? Lei si rende conto cosa sono?". Cercava di intimidirmi. "Un razzista!" gli dico. "Sì, sono un razzista. Stia molto attento!". "Lei è un cretino", ho replicato. Chi vive queste situazioni quotidiane per più di 25 anni o finisce per accettarle, far finta di niente per poter vivere senza impazzire, oppure può diventare sospettoso, arcigno, pieno di "pregiudizi al contrario", spesso sulle spine col rischio di confondere le situazioni e di vedere razzisti sbucare da tutte le parti, di perdere la testa e di urlare e insultare in mezzo alla gente. E il suo aguzzino che ha il coltello dalla parte del manico, con calma commenta utilizzando una "formula" fissa ma molto efficace: "Guardate, sta urlando, mi sta insultando. Lui è soltanto un ospite a casa mia. Siete tutti testimoni...". Ho assistito per caso alla rappresentazione di una banda musicale ad Aguzzano, nel piacentino. Quando quasi tutti se ne erano andati ho visto in mezzo alla piazza una bandiera italiana prendere fuoco senza una ragionevole spiegazione. Mi sono ben guardato dal spegnerla anche se ero vicino. Cosa avrebbe pensato o come avrebbe reagito la gente vedendo un "extracomunitario" nella piazza di un paesino con la bandiera italiana in fiamme tra le mani? Troppi simboli messi insieme. Ho lasciato la bandiera bruciare con buona pace di tutti. Ho invece infinitamente apprezzato il comportamento dei poliziotti del presidio della metropolitana di Piazza Duomo di Milano. Non volevo arrivare al lavoro in ritardo e stavo correndo in mezzo alla gente. Ad un tratto mi sentii afferrare alle spalle e spintonare. Mi ritrovai di fronte un giovane poliziotto in divisa che mi urlò di consegnare i documenti. Consegnai la mia carta di identità al poliziotto già furibondo il quale, senza aprirla, mi ordinò di seguirlo. Giunti al posto di polizia, dichiarò ai suoi colleghi: "Questo extracomunitario si comporta da prepotente!". Per fortuna le mie spiegazioni non furono smentite dal collega presente ai fatti. I poliziotti verificarono accuratamente i miei documenti e dopo conclusero che il loro giovane collega aveva sbagliato porgendomi le loro scuse. Furono anche dispiaciuti per il mio ritardo al lavoro. Dopotutto, ho l'impressione che, rispetto alla maggioranza della gente, ai poliziotti non sembri anormale ritrovarsi di fronte a un cittadino italiano con la pelle nera o marrone. "Noi non siamo abituati!", ci sentiamo dire sempre e ovunque da nove persone su dieci. E' un alibi che non regge più dopo trent'anni che viviamo e lavoriamo qui, ci sposiamo con italiane/italiani, facciamo dei figli misti o no, che crescono e vengono educati nelle scuole e università italiane. Un fatto sconvolgente è quando tre anni fa fui aggredito da quattro controllori dell'Atm a Milano e finii al pronto soccorso. Ancora oggi sto affrontando i processi ma con i controllori come vittime ed io come imputato. Una cosa è certa, ho ancora fiducia nella giustizia italiana.
[Per saperne di più sull'autore: http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/chisiamo/khouma.html]
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La colpevole omertà della Chiesa irlandese
Era nell'aria da tempo e in Irlanda non si parlava d'altro. Alla fine il coperchio è saltato e il contenuto del pentolone è venuto fuori. Rapporto shock di Child Abuse Commission, la commissione istituita dall'ex primo ministro irlandese Bertie Ahern per fare luce su questo scandalo indegno e vergognoso: per 40 anni violenze endemiche e continuate su minori negli istituti religiosi cattolici irlandesi. Scoperti 2500 casi avvenuti tra il 1940 e il 1980. E dopo il 1980...? Cos'altro deve ancora emergere dal guano che ricopre questa avvilente pagina di storia della chiesa irlandese? Il cardinale Sean Brady, arcivescovo di Armagh e Primate di tutta Irlanda, dice di essere "profondamente dispiaciuto" per gli abusi sessuali. "Mi vergogno che dei bambini abbiano sofferto in un modo così orribile in queste istituzioni", afferma in un comunicato. Papa Ratzinger da Roma fa sapere di essere ugualmente dispiaciuto per quanto è successo, promette di scrivere ai fedeli irlandesi e chiede scusa per una delle pagine più nere della storia della Chiesa cattolica.
"Fu un abuso sessuale sistematico e ampiamente diffuso ai danni di bambini e adolescenti di entrambi i sessi, in scuole, orfanotrofi e riformatori gestiti da cattolici", documenta il rapporto della commissione Ryan. Racconti atroci, di uomini e donne -oggi adulti- che ricordano di essere stati picchiati, seviziati, stuprati talvolta da più persone contemporaneamente.
Tre considerazioni. La prima è che l'iniziativa dell'indagine e l'istituzione della commissione sono iniziativa del governo irlandese. Nulla è trapelato da fonte ecclesiastica. Senza questa iniziativa non sarebbe venuto alla luce nulla e tutto sarebbe rimasto sepolto dal silenzio e dall'omertà ecclesiale. La seconda è che è logico ed evidente che i vertici della Chiesa Cattolica irlandese, e di conseguenza il Vaticano, non potevano non sapere quanto andava succedendo nel corso di oltre mezzo secolo. Ma evidentemente sapere di abusi e stupri ai danni di minori e adolescenti non è stato motivo sufficiente e valido per intervenire con una pubblica denuncia secondo l'ordinamento giudiziario irlandese e chiedere l'intervento delle autorità pubbliche. Invece di dispiacersi adesso, quando ormai lo scandalo è venuto alla luce, perchè non è stata denunciata a suo tempo su iniziativa della stessa Chiesa irlandese tutta questa squallida storia? Avrebbe sicuramente permesso di fermare lo scempio e tanti bambini e bambine innocenti si sarebbero salvati. Invece no. Mai silenzio fu più assordante.
Terza e ultima considerazione. I preti sono uomini e come uomini possono sbagliare. E certamente cedere alle tentazioni è uno degli aspetti della natura umana. Non bisogna neppure generalizzare e fare di tutta l'erba un fascio. Ci sono preti che sbagliano e tantissimi altri che conducono un'esistenza retta e nel solco della legalità, in Irlanda come in Italia, come in tutto il mondo, come tutti gli uomini laici e non. Chi si è reso colpevole di nefandezze contro minori deve pagare ed è giusto che paghi, ma ben altra responsabilità, forse anche più grave, verso gli uomini e verso Dio (che dicono di venerare e servire) è quella di chi ha insabbiato per decenni le malefatte di quei depravati.
Vigliaccheria, omertà e mafiosa tendenza a insabbiare tutto, a nascondere la verità. Questa è la spiegazione del silenzio durato decenni da parte della Chiesa. Che adesso tutti si dicano dispiaciuti è troppo tardi, è inutile; è un beffardo insulto a posteriori rivolto alle vittime inermi di quegli abusi criminali e vigliacchi.
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venerdì 11 dicembre 2009
Film visti. Lebanon
Lebanon
Regia di Samuel Maoz
[voto: 3,5 su 5]
Prima Guerra del Libano, 1982. Israele occupa i territori del Libano. Un carro armato dell'esercito israeliano è impegnato in una azione di pattugliamento in appoggio ad un plotone di fanteria. Prima considerazione. Quanto è diversa la guerra combattuta e vissuta dall'interno di un carro di parecchie decine di tonnellate rispetto a quella di un soldato qualsiasi che è vestito solo della sua divisa. Talmente diversa che forse c'è anche il tempo di pensare se premere il grilletto oppure no. Con addosso solo la divisa a fare da protezione si spara e basta.
Seconda considerazione. Il tanto famoso e rinomato esercito israeliano, vanto della tecnologia bellica d'avanguardia dell'epoca, visto con l'occhio della cinepresa del regista e autore Samuel Maoz, da l'impressione di essere un grande bluff. Più che un gioiello tecnologico, il vecchio carro armato "rinoceronte" sembra (è) più un ammasso di ferraglia che una tecnologica macchina da guerra.
Terza considerazione. I giovani carristi di leva che governano il carrarmato sono quanto di più scalcinato, inadeguato, improvvisato si possa pensare in tema di soldati. Giovani, inesperti, impreparati a sostenere lo stress psico-fisico derivante dall'uccidere nemici e civili innocenti sguazzano incuranti nella loro sporcizia all'interno del carro perchè non ci fanno più caso, non hanno più cura di se stessi e del loro aspetto. Non sono pronti a uccidere, nè in realtà vogliono farlo. Il pensiero dei giovani soldati israeliani va più facilmente ai primi tiramenti adolescenziali di cui sono freschi protagonisti e/o alla mamma lasciata a casa a preoccuparsi per la loro sorte, piuttosto che a eroici e impavidi comportamenti da truci guerrieri.
Questa umanità dolente e indifesa fa da contraltare alla dura e spietata legge della guerra che regna sovrana: uccidi per non essere ucciso. Ed esitare nel premere il grilletto per paura o per pietà porta comunque a conseguenze di morte che forse spostano il mirino su altre vittime, ne salva forse qualcuna ma ne condanna delle altre. L'ineluttabilità della morte e del dolore come conseguenza primaria e inevitabile della guerra è una delle dominanti dell'intero film. Non si sfugge alla regola: guerra=morte. A rendere ancora più crudele e assurda la logica della guerra c'è l'ignoranza dei protagonisti. Che in fin dei conti non sanno esattamente perchè e contro chi combattono. Si trovano in Libano e affrontano truppe siriane. Non sanno perchè, ma sono obbligati dagli eventi e da altri uomini a sparare e uccidere, spesso nascondendosi dietro falsi pudori bigotti. Le bombe al fosforo proibite dalle convenzioni internazionali si usano ma non si nominano, i caduti amici si chiamano angeli, quelli nemici sono i grilli. La pruderie bellica svela innominabili contorsioni linguistiche per non chiamare le cose con il loro nome: morte, dolore e distruzione.
Un'ultima considerazione. Il film si chiude con il carro fermo in un campo di girasoli. La torretta si apre e dal suo ventre d'acciaio si affaccia uno dei soldati che fino a quel momento abbiamo seguito all'interno di "rinoceronte". Un ammasso di ferraglia che sembra annegare in un tranquillo mare di girasoli. Il pensiero corre a Dante e Virgilio fuori dall'Inferno: "...e quindi uscimmo a riveder le stelle". Un pio auspicio, smentito purtroppo dalla storia anche contemporanea.
Pur svolgendosi interamente all'interno di un carrarmato, il film (vincitore del Leone d'oro a Venezia 2009) è paradossalmente meno claustrofobico di quello che ci si potrebbe aspettare, il che tuttavia non allenta minimamente la tensione narrativa. Al contrario un senso di frustrazione e di rabbia assale lo spettatore nel vedere i giovani soldati essere fatti letteralmente a pezzi nella mente e nello spirito, anche se non nel corpo (sono protetti dalla corazza del carro) dalla situazione che vivono attraverso il mirino di puntamento delle armi di bordo. Ciò che i soldati israeliani vedono dall'interno del carro diventa una sorta di film nel film. Con la differenza che loro non sono spettatori, ma vittime oltre che protagonisti, sebbene appartengano alla parte dei vincitori. Ma in guerra esistono davvero vincitori e vinti?
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Regia di Samuel Maoz
[voto: 3,5 su 5]
Prima Guerra del Libano, 1982. Israele occupa i territori del Libano. Un carro armato dell'esercito israeliano è impegnato in una azione di pattugliamento in appoggio ad un plotone di fanteria. Prima considerazione. Quanto è diversa la guerra combattuta e vissuta dall'interno di un carro di parecchie decine di tonnellate rispetto a quella di un soldato qualsiasi che è vestito solo della sua divisa. Talmente diversa che forse c'è anche il tempo di pensare se premere il grilletto oppure no. Con addosso solo la divisa a fare da protezione si spara e basta.
Seconda considerazione. Il tanto famoso e rinomato esercito israeliano, vanto della tecnologia bellica d'avanguardia dell'epoca, visto con l'occhio della cinepresa del regista e autore Samuel Maoz, da l'impressione di essere un grande bluff. Più che un gioiello tecnologico, il vecchio carro armato "rinoceronte" sembra (è) più un ammasso di ferraglia che una tecnologica macchina da guerra.
Terza considerazione. I giovani carristi di leva che governano il carrarmato sono quanto di più scalcinato, inadeguato, improvvisato si possa pensare in tema di soldati. Giovani, inesperti, impreparati a sostenere lo stress psico-fisico derivante dall'uccidere nemici e civili innocenti sguazzano incuranti nella loro sporcizia all'interno del carro perchè non ci fanno più caso, non hanno più cura di se stessi e del loro aspetto. Non sono pronti a uccidere, nè in realtà vogliono farlo. Il pensiero dei giovani soldati israeliani va più facilmente ai primi tiramenti adolescenziali di cui sono freschi protagonisti e/o alla mamma lasciata a casa a preoccuparsi per la loro sorte, piuttosto che a eroici e impavidi comportamenti da truci guerrieri.
Questa umanità dolente e indifesa fa da contraltare alla dura e spietata legge della guerra che regna sovrana: uccidi per non essere ucciso. Ed esitare nel premere il grilletto per paura o per pietà porta comunque a conseguenze di morte che forse spostano il mirino su altre vittime, ne salva forse qualcuna ma ne condanna delle altre. L'ineluttabilità della morte e del dolore come conseguenza primaria e inevitabile della guerra è una delle dominanti dell'intero film. Non si sfugge alla regola: guerra=morte. A rendere ancora più crudele e assurda la logica della guerra c'è l'ignoranza dei protagonisti. Che in fin dei conti non sanno esattamente perchè e contro chi combattono. Si trovano in Libano e affrontano truppe siriane. Non sanno perchè, ma sono obbligati dagli eventi e da altri uomini a sparare e uccidere, spesso nascondendosi dietro falsi pudori bigotti. Le bombe al fosforo proibite dalle convenzioni internazionali si usano ma non si nominano, i caduti amici si chiamano angeli, quelli nemici sono i grilli. La pruderie bellica svela innominabili contorsioni linguistiche per non chiamare le cose con il loro nome: morte, dolore e distruzione.
Un'ultima considerazione. Il film si chiude con il carro fermo in un campo di girasoli. La torretta si apre e dal suo ventre d'acciaio si affaccia uno dei soldati che fino a quel momento abbiamo seguito all'interno di "rinoceronte". Un ammasso di ferraglia che sembra annegare in un tranquillo mare di girasoli. Il pensiero corre a Dante e Virgilio fuori dall'Inferno: "...e quindi uscimmo a riveder le stelle". Un pio auspicio, smentito purtroppo dalla storia anche contemporanea.
Pur svolgendosi interamente all'interno di un carrarmato, il film (vincitore del Leone d'oro a Venezia 2009) è paradossalmente meno claustrofobico di quello che ci si potrebbe aspettare, il che tuttavia non allenta minimamente la tensione narrativa. Al contrario un senso di frustrazione e di rabbia assale lo spettatore nel vedere i giovani soldati essere fatti letteralmente a pezzi nella mente e nello spirito, anche se non nel corpo (sono protetti dalla corazza del carro) dalla situazione che vivono attraverso il mirino di puntamento delle armi di bordo. Ciò che i soldati israeliani vedono dall'interno del carro diventa una sorta di film nel film. Con la differenza che loro non sono spettatori, ma vittime oltre che protagonisti, sebbene appartengano alla parte dei vincitori. Ma in guerra esistono davvero vincitori e vinti?
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martedì 8 dicembre 2009
Che Carmen!
La Carmen di Georges Bizet, l'opera lirica declinata al femminile per eccellenza, ieri ha debuttato a La Scala nel classico appuntamento del giorno di S. Ambrogio. E, manco a farlo apposta, è stata una edizione della Carmen che ha avuto come punti di riferimento proprio due donne: l'interprete suadente e appassionata Anita Rachvelishvili (georgiana, 25 anni) e la regista Emma Dante. Entrambe esordienti in un mondo che in qualche modo ha un vago sentore prettamente maschile, per non dire lievemente misogino. Tant'è vero che nei 150 anni di rappresentazioni di Carmen la protagonista è quasi sempre stata avvolta da un alone ambiguo e fosco a cavallo tra la disinvolta libertina e la prostituta da strada, pronta a darsi con facilità al primo venuto, soldato, ufficiale o torero che fosse. In passato, agli spettatori della Carmen veniva raccomandato di lasciare a casa mogli e figli, vista la scabrosità della vicenda... La Carmen vista ieri, rivisitata da Emma Dante, al contrario è apparsa come una donna che semplicemente sa ciò che vuole e chi vuole. Una donna che sceglie invece di essere scelta, a dispetto delle opinioni e delle apparenze. Cosa che in un mondo che gronda tradizionalismo è facile immaginare sia un concetto piuttosto difficile da accettare e assimilare.
Accanto alle due donne un personaggio che da solo vale l'Opera: Daniel Baremboim. Un uomo di musica che ha un carisma e un fascino come pochi altri. Una personalità straripante, generosa e dotata di una forza comunicativa coinvolgente e avvincente. Un grande della musica contemporanea. Come già scritto su questo blog, ho avuto modo di scoprirlo e apprezzarlo nello special di Chetempochefa di Fabio Fazio dedicato all'Opera di qualche giorno fa.
Non sono un tecnico conoscitore di musica lirica, ma solo un appassionato, quindi le mie considerazioni sono quelle dello spettatore comune, non certo dell'intenditore. Tuttavia la mia impressione è che la Carmen vista ieri sia stata una grande prova melodrammatica sia dal punto di vista musicale, che vocale e teatrale. Anzi direi proprio che il mix delle tre componenti sia stato vincente e decisamente meritati i quindici minuti di applausi finali dedicati ai cantanti e all'orchestra (Baremboim in testa) e altrettanto immeritati i fischi del loggione che hanno accolto la regista teatrale Emma Dante. La critica principale rivoltale era di una messa in scena scarna con una scenografia "povera" non degna della Scala e soprattutto, nel complesso, troppo audace. Ma a parte che in tempi come questi l'allestimento eccessivamente sontuoso e sfarzoso sarebbe stato un insulto al buon senso, è anche vero che il bisogno di rinnovamento passa anche attraverso la rinuncia alla classicità più retriva. La difesa della classicità e del classicismo finiscono per l'essere il pretesto per l'immobilismo a discapito dell'innovazione e della ricerca.
La regista debutante Emma Dante a mio avviso ha avuto il merito di fare una scelta coraggiosa soprattutto per ciò che rappresenta la prima della Scala nel rinunciare allo sfarzo per privilegiare lo spettacolo. E infatti l'allestimento, le coreografie, i movimenti dei figuranti e del coro sono stati la vera forza dello spettacolo. Un piacere degli occhi affascinati dalla pienezza dinamica della rappresentazione, dalla vivacità della messa in scena e dalla novità delle scelte. Una percezione lontana mille miglia dalla sensazione di muffa stantia di certe opere liriche dove tutto è già scritto, tutto è già visto. Ogni scena di questa Carmen pensata e interpretata da Emma Dante è stata una scoperta. Ogni volta che si è aperto il sipario il pensiero era "e adesso che succede"? Invenzioni sceniche, movimenti, reinterpretazione coraggiosa dei momenti salienti dell'opera sono stati i punti forti dello spettacolo. Il finale, nel IV atto con il clou della morte di Carmen per mano di Don Josè, è stata una delle principali fonti di critica e contestazione alla regista sicuramente perchè forte e ampiamente fuori dal solco della tradizione, con i due interpreti, Jonas Kaufmann (Placido Domingo lo ha definito “il miglior Don José in circolazione”) e Anita Rachvelishvili a dare prova di capacità interpretative attoriali insolite, che vanno al di là del campo prettamente vocale, solitamente imbalsamato.
Il pathos trasmesso da tutti gli interpreti in tutto lo spettacolo è stato il miglior dono possibile che Emma Dante e Daniel Baremboim potessero offrire al pubblico. Personalmente gliene sono grato. La mia gratitudine va anche e soprattutto al canale televisivo tematico "Classica" visibile sulla piattaforma SKY al canale 728. E' un canale pay per view, che quindi necessita di un oneroso canone mensile supplementare oltre all'abbonamento Sky. In questo periodo trasmette in chiaro, cosa che mi ha permesso di seguire la diretta della prima della Scala.
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mercoledì 2 dicembre 2009
Inciviltà dilagante
Domenica pomeriggio di un giorno di novembre grigio e piovoso; cinema multisala della cintura urbana affollatissimo. Centinaia e centinaia di persone; auto dappertutto, parcheggiate nei modi più inverosimili e creativi.
Mentre sto a fumare in attesa che incominci il mio film, noto un fuoristrada che parcheggia nello spazio riservato agli invalidi, peraltro adeguatamente segnalato con cartelli e strisce gialle per terra. Penso -ingenuamente- che l'autista si sia sbagliato e che non abbia notato che stava occupando uno spazio riservato. Naturalmente non aveva esposto il permesso al parcheggio. Con un impeto di senso civico mi avvicino ai due che erano appena scesi dall'auto (giovani, sui 35 anni) e -con molta cortesia- faccio loro notare il fatto. Mi aspettavo che, accortisi dell'errore, si scusassero, magari anche ringraziassero e si spostassero. Invece la risposta è stata: chi cazzo sei, che cazzo vuoi, fatti i cazzi tuoi.... Immancabile il sorrisetto di sfida e il dito medio alzato. Insomma chissenefrega degli invalidi, l'importante è parcheggiare il più possibile vicino all'ingresso e che gli altri si fottano. Compreso, anzi soprattutto, l'incauto cittadino che osa far notare l'inosservanza della norma di rispetto civico oltre che del codice della strada.
Chiamare i vigili urbani? Tempo sprecato e soprattutto inutile. Si tratta di un parcheggio aperto al pubblico ma sito in un'area privata. Se chiamati non intervengono. Assurdo in termini di buon senso, ma questa è la risposta ricevuta.
Rivolgersi al gestore del cinema multisala in quanto proprietario del luogo? Fatto, con conseguente promessa di provvedere tempestivamente. Ma, indovinate un po', una volta uscito dal cinema al termine del film, il fuoristrada abusivo era ancora là. Anzi dei 5-6 posti riservati agli invalidi almeno un paio erano occupati abusivamente. Con sommo menefreghismo di tutti.
La riflessione è che gli italiani stanno diventando un popolo di arroganti, pronti all'insulto e a sventolare il dito medio come mezzo di comunicazione. Il fatto che i due meschini protagonisti di questa vicenda fossero dei giovani sulla trentina, rende ancora più preoccupante la cosa. Segno che le fasce più giovani della popolazione sono già infettate dal virus della maleducazione dilagante, della protervia e della mancanza di senso civico? Aggiungo il punto di domanda finale solo per scrupolo di buonismo, nella speranza di sbagliarmi.... In fin dei conti generalizzare è sempre sbagliato, ma tuttavia il fenomeno della maleducazione è ormai una realtà con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente. C'è da chiedersi quali siano i modelli di riferimento e i cattivi maestri che hanno portato a tutto ciò...
Mentre sto a fumare in attesa che incominci il mio film, noto un fuoristrada che parcheggia nello spazio riservato agli invalidi, peraltro adeguatamente segnalato con cartelli e strisce gialle per terra. Penso -ingenuamente- che l'autista si sia sbagliato e che non abbia notato che stava occupando uno spazio riservato. Naturalmente non aveva esposto il permesso al parcheggio. Con un impeto di senso civico mi avvicino ai due che erano appena scesi dall'auto (giovani, sui 35 anni) e -con molta cortesia- faccio loro notare il fatto. Mi aspettavo che, accortisi dell'errore, si scusassero, magari anche ringraziassero e si spostassero. Invece la risposta è stata: chi cazzo sei, che cazzo vuoi, fatti i cazzi tuoi.... Immancabile il sorrisetto di sfida e il dito medio alzato. Insomma chissenefrega degli invalidi, l'importante è parcheggiare il più possibile vicino all'ingresso e che gli altri si fottano. Compreso, anzi soprattutto, l'incauto cittadino che osa far notare l'inosservanza della norma di rispetto civico oltre che del codice della strada.
Chiamare i vigili urbani? Tempo sprecato e soprattutto inutile. Si tratta di un parcheggio aperto al pubblico ma sito in un'area privata. Se chiamati non intervengono. Assurdo in termini di buon senso, ma questa è la risposta ricevuta.
Rivolgersi al gestore del cinema multisala in quanto proprietario del luogo? Fatto, con conseguente promessa di provvedere tempestivamente. Ma, indovinate un po', una volta uscito dal cinema al termine del film, il fuoristrada abusivo era ancora là. Anzi dei 5-6 posti riservati agli invalidi almeno un paio erano occupati abusivamente. Con sommo menefreghismo di tutti.
La riflessione è che gli italiani stanno diventando un popolo di arroganti, pronti all'insulto e a sventolare il dito medio come mezzo di comunicazione. Il fatto che i due meschini protagonisti di questa vicenda fossero dei giovani sulla trentina, rende ancora più preoccupante la cosa. Segno che le fasce più giovani della popolazione sono già infettate dal virus della maleducazione dilagante, della protervia e della mancanza di senso civico? Aggiungo il punto di domanda finale solo per scrupolo di buonismo, nella speranza di sbagliarmi.... In fin dei conti generalizzare è sempre sbagliato, ma tuttavia il fenomeno della maleducazione è ormai una realtà con cui dobbiamo fare i conti quotidianamente. C'è da chiedersi quali siano i modelli di riferimento e i cattivi maestri che hanno portato a tutto ciò...
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