di Paolo Giordano
Cinque anni fa esordiva con La solitudine dei numeri primi, conquistando immediatamente i favori del pubblico e della critica e aggiudicandosi il Premio Strega 2008. Paolo Giordano è tornato con il suo secondo lavoro, Il corpo umano, un romanzo ambientato tra i soldati impegnati in Afghanistan.
Si legge facilmente, lo scrivere è scorrevole, accattivante, diretto. In breve i personaggi diventano familiari e si imparano a conoscere.
Tutto bene dunque? No, non del tutto. Perchè questo libro, come il primo "dei numeri primi", che onestamente non si può non definire un bel libro, mi ha lasciato sostanzialmente freddino. Paolo Giordano non mi acchiappa, non mi entusiasma. Non è riuscito a coinvolgermi fino in fondo nonostante il tema scottante e struggente affrontato nel libro. Se vogliamo dirla in altro modo, nelle pause della lettura non sono riuscito a sentire nostalgia dei personaggi, come invece mi succede per altri autori. Per me è una efficace ed affidabile cartina tornasole nella valutazione di un libro.
Brevemente, la trama. I protagonisti sono militari, truppa, sottufficiali e ufficiali del contingente italiano inviato in zona di operazioni in una delle zone più pericolose al mondo: l'Afghanistan. Un miscuglio di varia umanità passata al frullatore della vita. Quella privata, con storie personali in parte lasciate in patria e in parte portate in zona di operazioni; quella tipicamente militaresca di soldati che vivono una fetta della loro vita in un campo militare in una terra sconosciuta, impegnati in una missione di pace con una popolazione in gran parte ostile. Missione di pace? Bella domanda. Una pace mascherata da guerra o, se volete, una guerra mascherata da pace. Più giusta la seconda, con un fulminante riferimento in un passo del libro alle caramelle distribuite dai soldati ai bambini, quasi fosse una sorta di spot pubblicitario per farsi benvolere dalla popolazione locale.
È un plotone di giovani ragazzi quello comandato dal maresciallo Antonio René. L’ultimo arrivato, il caporalmaggiore Roberto Ietri, ha appena vent’anni e si sente inesperto in tutto. Per lui, come per molti altri, la missione in Afghanistan è la prima grande prova della vita.
Al momento di partire, i protagonisti non sanno ancora che il luogo nel quale verranno destinati è uno dei più pericolosi di tutta l’area del conflitto: la Forward Operating Base (fob) Ice, nel distretto del Gulistan, “un recinto di sabbia esposto alle avversità”, dove non c’è niente, soltanto polvere, dove la luce del giorno è così forte da provocare la congiuntivite e la notte non si possono accendere le luci per non attirare i colpi di mortaio.
Ad attenderli laggiù, c’è il tenente medico Alessandro Egitto. Finito il suo periodo di missione ha scelto di rimanere in Afghanistan, all’interno di quella precaria “bolla di sicurezza”, di sua volontà, per sfuggire a una situazione privata che considera più pericolosa della guerra combattuta con le armi da fuoco.
Quella dentro la fob è una vita che non conoscono, ma che imparano ad affrontare e a sopportare, tra difficoltà ambientali e malattie, tra colpi di artiglieria che fischiano all'improvviso e le amicizie da caserma, fatte spesso di soprusi e di contrasti tra commilitoni. Ma soprattutto hanno a che fare con la nostalgia e la mancanza di affetti e di riferimenti familiari. Cercano distrazioni di ogni tipo e si lasciano andare a pericolosi scherzi camerateschi che rasentano, se non lo sono del tutto, becere espressioni di nonnismo vecchio stampo. E poi arriva la notte quando, sdraiati sulle brande o collegati via web con casa, vengono sorpresi dai ricordi. Nel silenzio assoluto della natura e del nulla che li circonda, ma che è anche il silenzio della civiltà da cui provengono, riescono ad ascoltarsi dentro, a sentire la pulsazione del proprio cuore, l’attività incessante del corpo umano.
C'è anche tra loro chi si è lasciato alle spalle situazioni difficili o irrisolte. E la lontananza diventa anche occasione di riflessione, di pausa, di interruzione dei rapporti stringenti con cui avevano a che fare a casa. Che non è sempre una cosa deprecabile.
Ma poi succede quello che tutti segretamente temevano. La chiamata all'azione, quella vera, con le armi e le pallottole che fischiano. Con i pattugliamenti sul territorio e le bombe che uccidono. L’occasione in cui saranno costretti ad addentrarsi in territorio nemico sarà anche quella in cui ognuno, all’improvviso, dovrà fare i conti la propria coscienza e con ciò che ha lasciato in sospeso in Italia. E per molti sarà una missione senza ritorno. Il maresciallo René, il tenente Egitto, e gli altri sopravvissuti ne usciranno segnati per la vita, anche se il destino ha loro salvato la vita stessa.
Per essere l'Italia un paese che nella sua Costituzione ripudia la guerra, questo romanzo che parla invece proprio di guerra combattuta da soldati italiani suona in maniera straniante. Dirompente anzi, tale da mettere il lettore con le spalle al muro, qualora abbia cercato di non sapere e non vedere che c'è una guerra combattuta da soldati italiani in quell'angolo del mondo. Quanti sono i militari italiani caduti in Afghanistan dall'inizio della "missione di pace"? Ho perso il conto. Una trentina? Di più, probabilmente. Ormai i media ne parlano solo quando qualcuno salta su una mina. Questo è il primo libro, di cui ho conoscenza e che ho letto, che tratta di questo argomento. Onore al merito. Lo affronta da dentro, con gli occhi dei protagonisti. Non si limita a descrizioni esterne e superficiali. Paolo Giordano in Afghanistan c'è stato. Il libro è frutto di un viaggio che l'autore ha compiuto assieme ai militari italiani nel dicembre 2010, con l'idea iniziale di farne un reportage. Ma la visita alla fob “Ice”, un avamposto particolarmente isolato nel distretto del Gulistan, nel sud del paese, incontrando dei coetanei alla soglia dei trent’anni, ha fatto scattare in lui lo spunto e lo stimolo di scriverne in un romanzo che parla di corpi umani, comunque dilaniati dalla guerra o dalla vita.
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