domenica 25 settembre 2011

Libri. La solitudine secondo Simenon

TRE CAMERE A MANHATTAN

di Georges Simenon




Tre camere ammobiliate a Manhattan, New York. Ovvero un simbolo di solitudine e di squallore quotidiano. Non un luogo che trasmetta calore e appartenenza. Solo un posto dove dormire e magari ubriacarsi in santa pace. Due persone sole, François (Frank) e Catherine (Kay), che si incontrano casualmente in una caffetteria. Si guardano e le loro solitudini li avvicinano. Una sorta di affinità elettiva che li porterà, dopo un percorso sia fisico che metaforico, ad avvicinarsi l'uno all'altra. Una vicinanza fatta principalmente di uno stanco girovagare a caso per la città, non avendo un posto dove andare che sia "casa" e di interminabili serie di drink buttati giù uno dopo l'altro, più per noia che per altro. Il bisogno di avere di riferimenti comuni li porta ad ascoltare quasi senza sosta la stessa canzone da un juke box, come fosse una prova della loro esistenza e vicinanza. L'avere qualcosa in comune fa di loro un embrione di coppia e crea un'illusione di vita.


Frank e Kay non sono americani, sono lì a Manhattan perchè ve li ha portati il caso, o il destino, fate un po' voi. Sono entrambi europei, entrambi hanno alle spalle esperienze passate che vorrebbero dimenticare nel whisky o in un nuovo compagno con cui condividere la propria vita. Forse lo sanno e ne sono consapevoli, forse non se ne rendono conto e sono mossi solo dall’istinto di conservazione, ma, comunque sia, si avvicinano l'uno all'altra, attratti da una forza invisibile. Il bisogno di un affetto? L'umanità interiore che ha bisogno di condivisione invece che di solitudine? Simenon stesso è un europeo temporaneamente parcheggiato negli Usa. Il suo punto di vista è quindi un po' anche quello dei protagonisti. Lui belga trapiantato e naturalizzato in Francia, grande scrittore in patria, molto probabilmente meno conosciuto e considerato oltreatlantico. Come Frank che in Francia era un grande attore di successo; come Kay che era la moglie di un diplomatico ungherese di alto rango e figlia di una famosa pianista. Due persone, tremendamente sole, che si incontrano a Manhattan dopo aver voltato pagina nella loro vita. Il tutto nell'immediato dopoguerra, seconda metà degli anni '40.


Devo dire che questo libro mi ha messo molto in imbarazzo. Più volte sono stato tentato di abbandonarlo. Io, che sono un grande ammiratore di Simenon, ho fatto fatica ad andare avanti nella lettura. I due personaggi mi sono risultati sgradevoli fin dalle prime pagine. Sgradevole l'atmosfera e anche l'ambientazione. Sgradevole l'alito di alcool buttato giù a litri dai due personaggi che sembra di poter cogliere tra le pagine del libro. Per buoni due terzi del romanzo mi sono sentito a disagio anche per il tipo di narrazione, tanto diversa da quella tipica di Simenon, molto confidenziale, affabulatrice, coinvolgente e convincente che, con poche parole, descrive personaggi, situazioni, storie. Qui l'esposizione della vicenda sembra costruita, studiata, voluta. Manca di spontaneità e di immediatezza. Come se Simenon si fosse imposto di scrivere in modo manieristico questa storia, così lontana dalle atmosfere mittleuropee della sua Francia. Nell'ultima parte il libro migliora vistosamente, quasi che esaurita la descrizione delle situazioni e dei personaggi, in vista dell’epilogo finale lo scrittore avesse finalmente più mano libera per seguire il suo istinto e far muovere e parlare Frank e Kay con maggior scioltezza. Anche perché finalmente succede qualcosa che non sia accendere sigarette o svuotare bicchieri di alcool. Il punto di svolta lo individuo nel momento in cui i due smettono (finalmente) di girovagare per la città e di bere come spugne e finalmente mettono piede in quella parvenza approssimativa di casa costituita dalle tre camere in affitto.

Da lì in poi il libro cresce, la storia si fa più interessante e si intravede la mano del vero Simenon. Per fortuna.

Nessun commento: