Daria Bignardi a me piace, sia come donna che come giornalista. Sa proporsi in modo interessante con quel suo modo sobrio, ma non troppo, di parlare (semplice e diretto, ma non povero), di offrirsi al pubblico (elegante e mai caciarone), di vestire (il tacco giusto, la gonna giusta, la camicetta mai troppo sbottonata); soprattutto sa essere ficcante nelle sue interviste senza diventare invadente e (cosa rara nel giornalismo italiano) senza mai finire in ginocchio col potente di turno, stando alla larga da sviolinate mielose con il personaggio famoso (pensate allo zuccheroso Fabio Fazio...); riesce a sostenere con disinvoltura la scena e la conduzione dei suoi programmi, L'era glaciale (Rai) e prima ancora Le invasioni barbariche (La7). Entrambi tra i migliori talk show in circolazione, a mio modesto avviso. Riesco a perdonarle anche la conduzione delle prime due edizioni del Grande Fratello (era il 2000 se non sbaglio), perchè allora quel tipo di reality show poteva ancora dirsi interessante e con una certa valenza culturale e sociologica. Niente a che vedere con il baraccone falso e sciroccato di oggi. Insomma, avercene di dariebignardi in tv...
In tv, però. Perchè nella veste di scrittrice proprio non ci siamo. Sto leggendo il suo libro Non vi lascerò orfani, uscito di fresco l'anno scorso. Un'autobiografia di famiglia, se mi concedete il termine, essendo incentrato proprio sull'intero albero genealogico dei Bignardi, rami secondari compresi. Il pretesto è la morte della di lei mamma e l'inevitabile bilancio che si è portati a fare in questi frangenti dolorosi. Un riordino dei ricordi di una vita passata insieme che è come riaprire vecchi cassetti della memoria, frugarci dentro e trovare cose perdute e dimenticate. Bello il pretesto, interessante lo spunto, ma deludente il risultato. Questa specie di lessico famigliare è pesantuccio da digerire perchè da l'impressione di non andare molto oltre l'elencazione di nomi, di nonni, di zii, di parenti di ogni tipo, che però restano nomi senza diventare personaggi. E qualche aneddoto non contribuisce in modo significativo a risollevare la situazione. Non sono riuscito ad amare il racconto di Daria se non in maniera superficiale e descrittiva. Salvo soltanto le citazioni ricorrenti dei modi di dire di famiglia, le frasi abituali, riportate tra l'altro anche foneticamente con una traslitterazione dei suoni (esempio: bestia diventa besctia, con la "sc" di sciare). E' bene tener presente che la famiglia Bignardi è radicata tra Bologna e Ferrara e dunque l'accento è quello emiliano-romagnolo. Una specie di dizionario fraseologico che funziona come un vero e proprio fattore distintivo della famiglia. Non so se sia un'invenzione sua, di Daria, ma mi è piaciuta molto. Anche perchè è facile e immediato andare col pensiero dalle pagine del libro ai modi di dire della propria famiglia (quella del lettore) e applicare l'analogia. Una specie di marchio di fabbrica lessicale. Un pensiero molto tenero.
Ma basta a salvare il libro? So di andare controcorrente, perchè invece questa opera prima di Daria Bignardi è stata accolta e giudicata piuttosto bene, sia dalla critica che dal pubblico. Tuttavia trovo il libro troppo esile e anche confuso nel suo dipanarsi tra zii e nonni. Peccato, sarà per un'altra volta, cara Daria. Aspetto fiducioso.
1 commento:
Con questo libro D.Bignardi che apprezzo molto ha anche vinto un premio il 25° Rapallo Carige. Ho letto il suo libro mi ha intenerito e interessato il rapporto con la madre ma l' ho trovato in certi capitoli, pesante da leggere fino infondo. Si meglio aspettare il prossimo. Saluti da Lunapiena
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