venerdì 12 marzo 2010

Film visti. The Hurt Locker

The Hurt Locker
Regia di Kathryn Bigelow, con Jeremy Renner, Ralph Fiennes, Guy Pearce, David Morse. 

Sceneggiatura: Mark Boal

[voto: 3 su 5]

Strana la storia di questo film. Viene presentato con grande successo di critica alla Mostra del cinema di Venezia nel 2008, anno della sua uscita in anteprima mondiale; passa nelle sale abbastanza inosservato e poi sembra svanire nel dimenticatoio. Invece viene ripescato per la nomination all'Oscar che alla fine si aggiudica trionfalmente battendo nientemeno che il favoloso Avatar. Ormai conoscono tutti anche la storia della lotta in famiglia tra la regista Kathryn Bigelow e l'ex marito James Cameron autore del favorito film super fantascientifico. Dal quasi oblio al red carpet: questa è Hollywood.
I più attenti avranno notato che nel titolo, oltre a regista e interpreti, ho inserito anche lo sceneggiatore. Il motivo è che è lo stesso dell'ottimo Nella valle di Elah (di Paul Haggis), di un paio di anni fa. Anche in quel caso la tematica di fondo era la guerra e la sua drammatica ricaduta in termini di costi umani, spesso non manifesti, spesso non contabilizzati dalle statistiche, ma non per questo meno tragici. "La guerra è una droga" è il sunto di Hurt Locker. E' una droga che spinge a rischiare la vita in ogni istante e a convivere con la morte con indifferenza. E drogato di guerra è il protagonista della vicenda, un sergente artificiere dei marines impegnato in Iraq. Uno sporco mestiere (tra i più rischiosi tra le varie specialità militari), in una sporca guerra in cui gli Usa sono invischiati fino al collo dopo averla di fatto iniziata sicuramente sottovalutandone il livello di coinvolgimento. Un conto alla rovescia con la morte, tant'è vero che il film è scandito dal ripetersi dei giorni che mancano all'avvicendamento delle truppe sul teatro di guerra. Meno 365 giorni, meno 364.... e così via fino al ritorno a casa dove c'è una moglie e un figlio ad aspettare. Ma è un ritorno in crisi di astinenza, con l'incapacità di parlare di altro che non siano bombe, inneschi, esplosioni. Emblematico lo sguardo perso nel nulla di fronte agli scaffali di un supermercato nell'incertezza di quale marca di cereali comprare. Perchè il sergente artificiere non sa nulla di come vivono sua moglie e suo figlio, non ne conosce più il sorriso, la voce, gli sguardi, i gusti alimentari. Il pensiero è sempre rivolto lì in prima linea... in attesa di ritornarci. Non rimane che l'aridità con cui finisce per gestire i rapporti umani, perchè un candidato alla morte non può permettersi altro. O non gli interessa.
Un atto di accusa indirizzato su diversi fronti (la guerra, la politica americana della belligeranza costante, l'establishement amricano, l'opinione pubblica manipolata e sostanzialmente succube...) portato sullo schermo con un registro che assomiglia ad un interminabile reportage da telegiornale che racconta di missioni che si susseguono una dopo l'altra, con commilitoni che cadono, muoiono, si avvicendano in una tragica catena di montaggio. La crudezza del film sembra quasi rifarsi ad un reality show in cui le telecamere seguono in presa diretta i protagonisti. Ma non si tratta di grandi fratelli o di isole di famosi, si tratta di guerra vera e di morte altrettanto vera. Questa asciuttezza nell'esposizione è il pregio, ma forse anche il limite maggiore del film. Nella valle di Elah, sceneggiato dallo stesso Mark Boal, il livello di coinvolgimento dello spettatore era decisamente maggiore e carico di pathos. In comune il senso di desolazione, là di un padre che va alla ricerca di un figlio reduce dall'Iraq travolto dai suoi fantasmi e morto al rientro in patria, qui di un soldato che fa della guerra la sua droga quotidiana. Ma pur sempre guerra, sporca e maledetta.

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