La mappa del destino
di Glenn Cooper
Glenn Cooper è uno che ci marcia. Alla grande. Negli Usa deve esistere un proverbio molto simile al nostrano "il ferro va battuto finchè è caldo". Infatti dopo il successo del primo libro continua a sfornarne a getto continuo, con rapidità impressionante. Purtroppo questo prolifico autore deve essersi montato la testa parallelamente al depauperamento della vena letteraria ed ha imboccato un piano inclinato che lo porta molto lontano dalla sua opera d'esordio La biblioteca dei morti, che non era niente male nel suo genere (fantasy). La mappa del destino, invece, è assolutamente da evitare. Parla di monaci medievali che trovano casualmente il segreto della longevità, scoperto trentamila anni prima da uomini preistorici. Un segreto che si perpetua fino ai giorni nostri con risvolti criminali che portano a bagni di sangue pazzeschi. Fatta eccezione per l'esilissima trama noir, per il resto siamo a zero.
Insomma un guazzabuglio incredibile che si snoda in varie epoche storiche, giusto per incasinare il tutto il più possibile. Girare alla larga o da regalare a chi vi sta antipatico.
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Livello di guardia
di Natalino Balasso
Il livello di guardia del titolo è quello delle acque del Po nel suo ultimo tratto prima di scaricarsi nel Mar Adriatico. Siamo in Polesine, tra le province di Rovigo e Ferrara. Terra di nebbie eterne e di lotte altrettanto eterne con il fiume. A lottare sono le popolazioni del posto che difendono il loro territorio e le loro case, in definitiva le loro vite, dalla furia del fiume quando il livello sale a dismisura e si riversa ovunque travolgendo gli argini. Territori di una bellezza desolata, ma struggente. Gli amici di questo blog hanno letto brevi resoconti di viaggio sul Delta del Po e sul Polesine in più occasioni essendo una delle mete nei miei giri in moto con la bella stagione.
Natalino Balasso è un attore comico che ha raggiunto la notorietà grazie al programma televisivo Zelig. E' un cabarettista che fonda il suo successo sul personaggio dialettale, molto ruspante e altrettanto ignorante. "Sana ignoranza", si dice in questi casi. Giochi di parole, storpiature dialettali, doppi sensi, saggezza popolare spicciola e chi più ne ha più ne metta. Un successo meritato il suo, che lo ha portato anche a calcare i palcoscenici teatrali anche per cose più serie e importanti del cabaret. Balasso si è cimentato anche al cinema e in alcune fiction televisive. Non gli manca certo l'intraprendenza e la voglia di mettersi in gioco, puntando sempre sul suo essere un personaggio sanguigno, popolare e dialettale. Infatti il denominatore comune delle sue performance artistiche è proprio l'uso del dialetto e la sua forza espressiva superiore e immediata rispetto alla lingua italiana.
Non ha esitato a cimentarsi anche con la scrittura. Questo "Livello di guardia è il suo secondo romanzo. Un romanzo che lui stesso autodefinisce "umido", giocando proprio sui doppi sensi da bravo cabarettista. In realtà questo libro è un ibrido, un incrocio tra il genere umoristico e quello poliziesco, non senza qualche incursione nell'introspezione social-sociologica. Insomma, un po' troppo, a dirla proprio tutta. Un piccolo libretto, nei contenuti e nelle dimensioni, in cui è abbozzato di tutto e di più, finendo per non assumere nulla di preciso e di compiuto. Il paesino polesano dove si svolge il racconto è un coacervo di personaggi, per lo più macchiette di maniera e dunque prevedibili e poco o nulla originali, che sono sul limite (pericoloso) tra il suscitare il sorriso o la riflessione più seriosa. Troppi e troppo eterogenei questi personaggi che si disseminano lungo il percorso di una trama anche piuttosto confusa e poco incisiva. Insomma anche in questo caso -come nel precedente- un libro, tutto sommato, da evitare. Sia pure con ben altre motivazioni.
Un suggerimento.Da non regalare ad amici veneti, lo troverebbero troppo banale e scontato a causa dell'uso del dialetto alquanto grossolano.
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Riflessioni personali, fatti e notizie, idee, pensieri, sogni, chiacchiere e opinioni. In un' Italia, purtroppo, sempre più alla deriva.
martedì 27 dicembre 2011
sabato 17 dicembre 2011
Il razzismo uccide
Martedi 13 dicembre, Firenze.
Una vera e propria caccia al senegalese, cominciata in mattinata al mercato di piazza Dalmazia (alla periferia nord) e terminata nel pomeriggio al mercato di San Lorenzo in pieno centro cittadino. E Firenze piomba nel terrore: in mattinata un uomo di 50 anni, Gianluca Casseri, militante di estrema destra, ha aperto il fuoco al mercato di piazza Dalmazia, su un gruppo di ambulanti senegalesi: due morti e un ferito gravissimo. Poi è andato al mercato di San Lorenzo, nel centro della città, ha ferito due ambulanti, e quando si è accorto di essere accerchiato dalla polizia, piuttosto che farsi prendere ha preferito uccidersi sparandosi con una 357 Magnum nel garage del parcheggio. L'obiettivo premeditato: i senegalesi. Non a caso, non il primo che passa. No, i senegalesi. Immigrati di colore, a volte clandestini, molte altre in regola. Come tanti altri immigrati, buoni e cattivi, onesti e delinquenti. Le due vittime risultano incensurate. Ma con la colpa di essere neri e senegalesi. Sufficiente per diventare bersagli umani del razzismo più violento e criminale. Non quello parolaio, volgare e incivile che tanto spesso si avverte nelle nostre città. Quello alimentato da certe parti politiche fino all'altro giorno presenti nel governo. Razzisti da bar, buoni per urlare slogan contro neri e terroni, vestirsi di verde e fare scena con la faccia incazzata. No. Questo è il razzismo che non parla, ma spara e uccide.
Oggi a Firenze una grande manifestazione contro la violenza razzista, sia quella verbale, volgare e maleducata, che quella sanguinaria che si esprime non a barzellette e luoghi comuni, ma con il piombo corazzato delle Colt 357 Magnum. Sfilano alla manifestazione oltre diecimila persone. Il portavoce della comunità senegalese Pape Diaw dice: «Da oggi niente sarà più come ieri», mentre viene intonato un canto religioso. In prima fila gli amici delle due vittime, Modou Samb e Mor Diop, che reggono le foto dei due senegalesi morti. Su un cartello, oltre la foto di Modou ci sono quelle delleamoglie e della figlia di 13 anni. «Tredici anni senza vedere la sua famiglia - c'è scritto accanto alle immagini - e il suo sogno si è fermato il 13 dicembre». «Non ha nemmeno visto la sua bambina una volta», racconta con le lacrime agli occhi uno degli amici.
Non una parola di solidarietà dal centro sociale di estrema destra a cui faceva capo l'omicida, Casa Pound: «Noi non chiederemo scusa» - Il centro sociale che si ispira dichiaratamente al fascismo prende le distanze dall'omicida definendolo un folle che non aveva reali legamo con Casa Pound Italia. Dal Corriere della Sera: «Il nostro stile politico ci ripulirà da una macchia che ci ha sporcati ingiustamente e per cui non abbiamo nessuna colpa nè sentiamo di dover chiedere scusa a nessuno». In un certo qual senso le vittime sembrerebbero loro, "sporcati" dal folle gesto razzista. Per le vittime neppure un pensiero. Non occorre aggiungere altro.
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Una vera e propria caccia al senegalese, cominciata in mattinata al mercato di piazza Dalmazia (alla periferia nord) e terminata nel pomeriggio al mercato di San Lorenzo in pieno centro cittadino. E Firenze piomba nel terrore: in mattinata un uomo di 50 anni, Gianluca Casseri, militante di estrema destra, ha aperto il fuoco al mercato di piazza Dalmazia, su un gruppo di ambulanti senegalesi: due morti e un ferito gravissimo. Poi è andato al mercato di San Lorenzo, nel centro della città, ha ferito due ambulanti, e quando si è accorto di essere accerchiato dalla polizia, piuttosto che farsi prendere ha preferito uccidersi sparandosi con una 357 Magnum nel garage del parcheggio. L'obiettivo premeditato: i senegalesi. Non a caso, non il primo che passa. No, i senegalesi. Immigrati di colore, a volte clandestini, molte altre in regola. Come tanti altri immigrati, buoni e cattivi, onesti e delinquenti. Le due vittime risultano incensurate. Ma con la colpa di essere neri e senegalesi. Sufficiente per diventare bersagli umani del razzismo più violento e criminale. Non quello parolaio, volgare e incivile che tanto spesso si avverte nelle nostre città. Quello alimentato da certe parti politiche fino all'altro giorno presenti nel governo. Razzisti da bar, buoni per urlare slogan contro neri e terroni, vestirsi di verde e fare scena con la faccia incazzata. No. Questo è il razzismo che non parla, ma spara e uccide.
Oggi a Firenze una grande manifestazione contro la violenza razzista, sia quella verbale, volgare e maleducata, che quella sanguinaria che si esprime non a barzellette e luoghi comuni, ma con il piombo corazzato delle Colt 357 Magnum. Sfilano alla manifestazione oltre diecimila persone. Il portavoce della comunità senegalese Pape Diaw dice: «Da oggi niente sarà più come ieri», mentre viene intonato un canto religioso. In prima fila gli amici delle due vittime, Modou Samb e Mor Diop, che reggono le foto dei due senegalesi morti. Su un cartello, oltre la foto di Modou ci sono quelle delleamoglie e della figlia di 13 anni. «Tredici anni senza vedere la sua famiglia - c'è scritto accanto alle immagini - e il suo sogno si è fermato il 13 dicembre». «Non ha nemmeno visto la sua bambina una volta», racconta con le lacrime agli occhi uno degli amici.
Non una parola di solidarietà dal centro sociale di estrema destra a cui faceva capo l'omicida, Casa Pound: «Noi non chiederemo scusa» - Il centro sociale che si ispira dichiaratamente al fascismo prende le distanze dall'omicida definendolo un folle che non aveva reali legamo con Casa Pound Italia. Dal Corriere della Sera: «Il nostro stile politico ci ripulirà da una macchia che ci ha sporcati ingiustamente e per cui non abbiamo nessuna colpa nè sentiamo di dover chiedere scusa a nessuno». In un certo qual senso le vittime sembrerebbero loro, "sporcati" dal folle gesto razzista. Per le vittime neppure un pensiero. Non occorre aggiungere altro.
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giovedì 15 dicembre 2011
Emozioni (il rugby in immagini, ma non solo)
Venerdì 16 dicembre, in tema di rugby, è in uscita un libro fotografico d'eccezione. Si intitola "Emozioni" (in campo, fuori campo… ovunque) e già il titolo fa capire come non si tratti di semplici immagini di azioni di gioco, ma molto di più. L’autore, anzi l’autrice, è Elena Barbini. Un nome che nel campo della fotografia sportiva specializzata non ha bisogno di presentazioni.
Il rugby è uno di quegli sport che come pochi altri suscita forti emozioni in chi lo pratica, ma anche in chi si limita a guardarlo fuori dal campo. Difficile rimanere insensibili di fronte al rugby. Facilissimo innamorarsene per sempre. Per tanti motivi, per i valori e la cultura sportiva di cui è portatore e per la tradizione che ne ha segnato la sua storia centenaria. Ma anche perché è uno sport di sacrificio, di contatto anche aspro, pur sempre nei limiti del rispetto nei confronti dell’avversario. Ma non è certo questo il momento e il luogo di ribadire concetti che sono ben noti a noi malati di rugby.
Elena accompagna la presentazione del suo libro con poche semplici parole che ben evidenziano lo spirito con cui lo ha realizzato: “Mi piacerebbe che questa mia pubblicazione suscitasse ai rugbisti, ai tifosi, ai giocatori, ma anche ai semplici spettatori quelle “EMOZIONI” che vivo continuamente in ogni “scatto” del mio lavoro e che trasmettesse la bellezza di questo mondo anche a coloro che ne sono esclusi”.
Volendo chiosare le riflessioni di Elena si può ben dire che le sue foto sono la trasposizione in immagini di stati d’animo, di sentimenti, di sensazioni. Così come la poesia è la sublimazione della semplice e spesso arida forma scritta.
Il libro è composto da 180 pagine con foto a colori e in bianconero (formato 20x30): si suddivide in capitoli in base alle diverse situazioni emotive (le vittorie e le sconfitte, il sudore e le lacrime, l’attesa del confronto dentro e fuori dal campo, la vita dura dei rugbysti). E’ già disponibile on line sul sito ufficiale di Elena (http://www.elenabarbini.com/) e lo sarà anche al Centro Geremia del Petrarca Rugby (Guizza, Padova). Nelle prossime settimane Elena presenterà il suo lavoro presso le principali club house rugbystiche del Veneto.
Il prezzo di vendita per precisa scelta dell’autrice (praticamente “simbolico”) è di soli 20 euro.
domenica 11 dicembre 2011
Film visti. Midnight in Paris (con i saluti dell'Ente per il Turismo francese...)
Midnight in Paris
Regia: Woody Allen
Con: Owen Wilson, Carla Bruni, Adrien Brody, Marion Cotillard, Kathy Bates, Léa Seydoux.
Voto: 3 su 5
Leggo le recensioni di Midnight in Paris su vari giornali. Voti altissimi, giudizi eccellenti, entusiasmo alle stelle. Mah... Possibile che all'improvviso, dopo anni di aurea mediocrità, il vecchio Woody sia tornato ai suoi antichi splendori? Me lo immagino sempre più impantanato tra un numero imprecisato di figli e qualche moglie troppo giovane per lui. Che abbia davvero ritrovato il bandolo della matassa e rinverdito la sua vena di grande "cinematografaro"? Il dubbio mi assilla, mi rode, mi attanaglia. Fidarsi delle recensioni o fare come al solito: ignorarle? Ma alla fine decido, vado.
Sabato pomeriggio. Sala semivuota, non è un buon segnale. In genere il passaparola del pubblico funziona meglio delle recensioni dei critici, troppo pensosi e intellettuali. Non che mi aspettassi la sala piena, ma neanche solo una misera decina di persone.
La vicenda narra di uno sceneggiatore hollywoodiano di successo che, ad un certo punto della sua vita e della sua carriera, decide di prendersi un anno sabbatico e cimentarsi con la scrittura vera, un romanzo tutto suo. Con la sua fidanzata di buona e ricca famiglia va fare un viaggio in Europa, vecchia e tradizionale meta degli americani in viaggio per turismo. La scelta è Parigi, la meravigliosa, straordinaria, intellettuale Parigi. Colà, tra una passeggiata sul lungo Senna e un pomeriggio di shopping, incontrano una coppia di amici. Lui è a Parigi per una conferenza alla Sorbona, è il tipico so-tutto-io, massimo esperto e gran conoscitore di ogni cosa dello scibile umano. Insomma un saccente rompiballe. Le due ragazze, grandi amiche, organizzano immediatamente seratine frizzanti tra grandi ristoranti e super discoteche. Ma il nostro protagonista/aspirante/scrittore è stufo di chiasso e confusione e inoltre non sopporta il sapientone so-tutto-io. Decide di non aggregarsi all'allegra compagnia e di preferisce solitarie, quanto rilassanti, passeggiate notturne per le strade di Parigi. Preferibilmente sotto la pioggia. Un diluvio di luoghi comuni. Un trionfo di banalità in carta patinata. Cartoline illustrate da spedire agli amici, se già non preferite la foto scattata col telefonino e spedita per mms in tempo reale. Giusto per fare invidia a chi è a casa a lavorare. Avete mai provato a girare per Parigi sotto la pioggia? Ve lo dico io che l'ho provata, fidatevi: l'acqua piovana di Parigi è una vera schifezza, umida e fastidiosa, nè più e nè meno come la pioggia italica nostrana.
L'ho fatta un po' lunga, più di quanto servisse, per introdurre bene l'antefatto. Finora è tutto di una banalità disarmante. Un grande spot pubblicitario di Parigi che potrebbe senz'altro essere stato commissionato dall'Ente per il Turismo parigino. Il protagonista, il biondo e belloccio Owen Wilson, una fotocopia ossigenata del vecchio Woody, si agita e balbetta imitando il maestro, ma riesce solo ad innervosirmi. La fidanzata, biondiccia e belloccia anche lei, è altrettanto agitata e ansiosa. I personaggi di contorno non meritano particolari menzioni. La comparsata di Carla Bruni è pleonastica e del tutto ininfluente. Andiamo bene. Comincio a guardare l'orologio. Brutto segno, indice di scadente qualità del film.
Ma, proprio quando sento che sta per arrivare l'abbiocco da noia, ecco la genialata che cambia le carte in tavola. Lo sceneggiatore/aspirante/scrittore finisce, per qualche strano motivo non precisato, proiettato indietro nel tempo. A ritroso fino agli anni '20, agli anni della grandeur artistica di Parigi. Incredibile ma vero, gli sfilano davanti, tra una festa e l'altra, personaggi come Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso, Gauguin, Cezanne, Toulouse Lautrec, Dalì (un Adrien Brody strepitoso), Bunuel e tutto il milieu culturale del tempo e prima ancora, a ritroso fino alla Belle Epoque. Non manca neanche un degno rappresentante del mondo musicale, tale Cole Porter, ancora sconosciuto alle masse. Tutti lì, a sorseggiare cognac o bere champagne, tra un tavolino in una brasserie e una festa sciccosa ed elegante. Tutti disponibili, giovani e di belle speranze. Nessun altezzoso atteggiamento da star, pardon, étoiles... Per forza, non sono ancora nè celebri, nè famosi. Un dipinto impressionista quando l'Impressionismo nessuno sapeva cosa fosse? Solo 500 franchi. Roba da annusare l'affare e comprarne una mezza dozzina in attesa di rivenderli a decine di milioni ciascuno...
Naturalmente il nostro scrittorucolo in trasferta da Hollywood, di fronte a mostri sacri come Scott Fitzgerald o Hemingway, va in sollucchero e vive tutto come un trionfo estatico. E come altro si potrebbe vivere una situazione del genere? Peccato che il transfert temporale funzioni solo di notte, dopo il dodicesimo rintocco e invece durante il giorno si ritrovi a fare i conti con lo zuccheroso mondo di giovani americani in vacanza a Parigi. Tutti troppo volgari, troppo dediti al meschino shopping, alle meschine feste e alle meschine discoteche. Quanta volgarità nel 2010, quanta rozzezza d'animo, quanta superficialità. Insomma per farla breve, il biondo alter ego del vecchio Woody si innamora, negli anni '20, di una modella di Picasso, una vezzosa Marion Cotillard, che nel frattempo amoreggia con quell'impenitente di Hemingway. Lo scrittorucolo vorrebbe non uscire più da quel bozzolo temporale e non lasciare più Parigi, non fare più ritorno a Hollywood, non vedere più quella lagna della fidanzata e il suo insopportabile amico sapientone. Ancher se a ben vedere, il sapientone ne dice effettivamente una di giusta quando sentenzia che l'amore per le cose antiche nasconde un'intrinseca incapacità di vivere bene il tempo presente. Una dotta analisi snocciolata con non chalance durante una visita ai giardini di Versailles con il gruppo di amici americani. Un po' il succo di tutto il film. A inseguire spasmodicamente il passato il vero rischio è di perdere di vista il presente, cioè la realtà.
Non vi dico come va a finire il film, naturalmente. La parte decisamente migliore è quella con la presenza dei grandi artisti del passato, tutti magnificamente impersonati da grandi attori da gustarsi uno a uno. Il film diventa scoppiettante e inarrestabile in un magistrale gioco tra presente e passato, tra reale e irreale. Degno del buon vecchio Woody, come non si vedeva da troppo tempo. Buona visione, nonostante tutto (gli nuoce la parte introduttiva e il caramelloso atteggiamento verso Parigi) il film lo merita, anche se sinceramente non ne parlerei in termini del tutto entusiastici, come invece si legge sui giornali.
Mais oui... Parigi, è pur sempre Parigi..., parola di Woody Allen (e dell'Ente per il Turismo parigino....).
Regia: Woody Allen
Con: Owen Wilson, Carla Bruni, Adrien Brody, Marion Cotillard, Kathy Bates, Léa Seydoux.
Voto: 3 su 5
Leggo le recensioni di Midnight in Paris su vari giornali. Voti altissimi, giudizi eccellenti, entusiasmo alle stelle. Mah... Possibile che all'improvviso, dopo anni di aurea mediocrità, il vecchio Woody sia tornato ai suoi antichi splendori? Me lo immagino sempre più impantanato tra un numero imprecisato di figli e qualche moglie troppo giovane per lui. Che abbia davvero ritrovato il bandolo della matassa e rinverdito la sua vena di grande "cinematografaro"? Il dubbio mi assilla, mi rode, mi attanaglia. Fidarsi delle recensioni o fare come al solito: ignorarle? Ma alla fine decido, vado.
Sabato pomeriggio. Sala semivuota, non è un buon segnale. In genere il passaparola del pubblico funziona meglio delle recensioni dei critici, troppo pensosi e intellettuali. Non che mi aspettassi la sala piena, ma neanche solo una misera decina di persone.
La vicenda narra di uno sceneggiatore hollywoodiano di successo che, ad un certo punto della sua vita e della sua carriera, decide di prendersi un anno sabbatico e cimentarsi con la scrittura vera, un romanzo tutto suo. Con la sua fidanzata di buona e ricca famiglia va fare un viaggio in Europa, vecchia e tradizionale meta degli americani in viaggio per turismo. La scelta è Parigi, la meravigliosa, straordinaria, intellettuale Parigi. Colà, tra una passeggiata sul lungo Senna e un pomeriggio di shopping, incontrano una coppia di amici. Lui è a Parigi per una conferenza alla Sorbona, è il tipico so-tutto-io, massimo esperto e gran conoscitore di ogni cosa dello scibile umano. Insomma un saccente rompiballe. Le due ragazze, grandi amiche, organizzano immediatamente seratine frizzanti tra grandi ristoranti e super discoteche. Ma il nostro protagonista/aspirante/scrittore è stufo di chiasso e confusione e inoltre non sopporta il sapientone so-tutto-io. Decide di non aggregarsi all'allegra compagnia e di preferisce solitarie, quanto rilassanti, passeggiate notturne per le strade di Parigi. Preferibilmente sotto la pioggia. Un diluvio di luoghi comuni. Un trionfo di banalità in carta patinata. Cartoline illustrate da spedire agli amici, se già non preferite la foto scattata col telefonino e spedita per mms in tempo reale. Giusto per fare invidia a chi è a casa a lavorare. Avete mai provato a girare per Parigi sotto la pioggia? Ve lo dico io che l'ho provata, fidatevi: l'acqua piovana di Parigi è una vera schifezza, umida e fastidiosa, nè più e nè meno come la pioggia italica nostrana.
L'ho fatta un po' lunga, più di quanto servisse, per introdurre bene l'antefatto. Finora è tutto di una banalità disarmante. Un grande spot pubblicitario di Parigi che potrebbe senz'altro essere stato commissionato dall'Ente per il Turismo parigino. Il protagonista, il biondo e belloccio Owen Wilson, una fotocopia ossigenata del vecchio Woody, si agita e balbetta imitando il maestro, ma riesce solo ad innervosirmi. La fidanzata, biondiccia e belloccia anche lei, è altrettanto agitata e ansiosa. I personaggi di contorno non meritano particolari menzioni. La comparsata di Carla Bruni è pleonastica e del tutto ininfluente. Andiamo bene. Comincio a guardare l'orologio. Brutto segno, indice di scadente qualità del film.
Ma, proprio quando sento che sta per arrivare l'abbiocco da noia, ecco la genialata che cambia le carte in tavola. Lo sceneggiatore/aspirante/scrittore finisce, per qualche strano motivo non precisato, proiettato indietro nel tempo. A ritroso fino agli anni '20, agli anni della grandeur artistica di Parigi. Incredibile ma vero, gli sfilano davanti, tra una festa e l'altra, personaggi come Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso, Gauguin, Cezanne, Toulouse Lautrec, Dalì (un Adrien Brody strepitoso), Bunuel e tutto il milieu culturale del tempo e prima ancora, a ritroso fino alla Belle Epoque. Non manca neanche un degno rappresentante del mondo musicale, tale Cole Porter, ancora sconosciuto alle masse. Tutti lì, a sorseggiare cognac o bere champagne, tra un tavolino in una brasserie e una festa sciccosa ed elegante. Tutti disponibili, giovani e di belle speranze. Nessun altezzoso atteggiamento da star, pardon, étoiles... Per forza, non sono ancora nè celebri, nè famosi. Un dipinto impressionista quando l'Impressionismo nessuno sapeva cosa fosse? Solo 500 franchi. Roba da annusare l'affare e comprarne una mezza dozzina in attesa di rivenderli a decine di milioni ciascuno...
Naturalmente il nostro scrittorucolo in trasferta da Hollywood, di fronte a mostri sacri come Scott Fitzgerald o Hemingway, va in sollucchero e vive tutto come un trionfo estatico. E come altro si potrebbe vivere una situazione del genere? Peccato che il transfert temporale funzioni solo di notte, dopo il dodicesimo rintocco e invece durante il giorno si ritrovi a fare i conti con lo zuccheroso mondo di giovani americani in vacanza a Parigi. Tutti troppo volgari, troppo dediti al meschino shopping, alle meschine feste e alle meschine discoteche. Quanta volgarità nel 2010, quanta rozzezza d'animo, quanta superficialità. Insomma per farla breve, il biondo alter ego del vecchio Woody si innamora, negli anni '20, di una modella di Picasso, una vezzosa Marion Cotillard, che nel frattempo amoreggia con quell'impenitente di Hemingway. Lo scrittorucolo vorrebbe non uscire più da quel bozzolo temporale e non lasciare più Parigi, non fare più ritorno a Hollywood, non vedere più quella lagna della fidanzata e il suo insopportabile amico sapientone. Ancher se a ben vedere, il sapientone ne dice effettivamente una di giusta quando sentenzia che l'amore per le cose antiche nasconde un'intrinseca incapacità di vivere bene il tempo presente. Una dotta analisi snocciolata con non chalance durante una visita ai giardini di Versailles con il gruppo di amici americani. Un po' il succo di tutto il film. A inseguire spasmodicamente il passato il vero rischio è di perdere di vista il presente, cioè la realtà.
Foto di scena sul lungo-Senna |
Mais oui... Parigi, è pur sempre Parigi..., parola di Woody Allen (e dell'Ente per il Turismo parigino....).
giovedì 8 dicembre 2011
Don Giovanni alla Scala (il dissoluto impunito)
Leporello e Don Giovanni |
Fortunatamente anche quest'anno Rai5 ha trasmesso l'evento in diretta permettendone la divulgazione ad una grande quantità di appassionati e di neofiti. Sempre poco rispetto a quanto sarebbe opportuno trasmettere in tema di musica "colta" e di spettacolo classico.
La prima sorpresa è stata di vedere insieme Napolitano e Monti. Quando mai si è visto Berlusconi alla Scala? L'ultimo presidente del consiglio a presenziare alla prima fu Prodi. Berlusconi coltiva ben altri interessi... Vedere insieme le due cariche dello stato è un'immagine di forte simbolismo che fa bene al cuore e all'anima. Ce n'è un gran bisogno in questo momento in Italia.
Napolitano e Monti insieme alla Scala |
Le cronache ci dicono che il foyer (giudizio "di pancia") ha apprezzato e applaudito la messa in scena e l'orchestrazione, ma le stesse cronache riferiscono che dall'alto del loggione da qualche raffinato intenditore qualche contestazione è arrivata al maestro Baremboim. L'accusa sarebbe di eccessiva lentezza nella interpretazione della partitura musicale. Non ho competenze in merito, ma di certo è difficile accontentare tutti, specie chi sta lì col ditino puntato alla ricerca della nota stonata. Il mio giudizio da spettatore assolutamente "di pancia e di cuore" è certamente positivo anche se la messa in scena del canadese Carson non sfiora la magnificenza della Carmen del 2009 ad opera di Emma Dante. Tuttavia l'uso della scenografia come parte integrante del racconto è senza dubbio d'effetto ed efficace. Molto bella, al limite della genialità, la trovata del regista di inserire un enorme specchio sul fondo palcoscenico che riflette l'immagine della platea e del contorno dei vari ordini di palchi. Il pubblico guarda sè stesso riflesso sul fondale del palcoscenico. Un gioco delle parti, come a dire che Don Giovanni, il dissoluto impuntito e impenitente, siamo (anche) noi. Ognuno è libero di leggervi qualsivoglia messaggio subliminale riferito alla realtà di questi anni. Anche la scelta di far muovere gli interpreti al di fuori del perimetro del palcoscenico è senza dubbio contro corrente in ambiente lirico, solitamente molto poco incline alle innovazioni. In particolare di grande effetto è stata l'idea di piazzare il "Commendatore" al momento del suo monito finale proprio sul palco delle autorità (tra Napolitano e Monti).
La locandina praghese del 1787 |
Esiste una disputa (molto dotta) sul finale dell'opera. In particolare sulla scena 20 in cui tutti i personaggi si trovano sul palco per commentare la fine di Don Giovanni. Il libretto recita la morale conclusiva con tre versi "Questo è il fin di chi fa mal:/E de' perfidi la morte/Alla vita è sempre ugual". L'opera fu scritta da Mozart nel 1787 e debuttò prima a Praga e poi a Vienna. La differenza tra le due versioni starebbe proprio nel finale della scena 20. La versione viennese ne sarebbe stata priva (fermandosi quindi alla 19), perchè ritenuta poco in linea con la mentalità della capitale dell'Impero.
Questione di lana caprina? Per i dotti filologi mozartiani pare proprio di no, visto che a distanza di oltre due secoli ancora se ne parla...
giovedì 1 dicembre 2011
Libri. Alex, storia tragica di una donna
Alex
di Pierre Lemaitre
Nomen omen, dicevano i latini. Ovvero "di nome e di fatto". L'autore di questo splendido libro è Pierre Lemaitre, il cui cognome tradotto in italiano significa: "il maestro". Maestro di nome e di fatto. Per me è una scoperta in quanto si tratta di un autore finora sconosciuto. Invece leggo che in Francia gode di un indiscusso successo, già prima della pubblicazione di Alex.
Alex è un nome di donna, una giovane donna di bell'aspetto, consapevole della sua bellezza che usa spesso in maniera alquanto spregiudicata. Succede che una certa sera venga brutalmente rapita da uno sconosciuto che la picchia selvaggiamente e la rinchiude in una gabbia di legno sospesa nel vuoto in un edificio abbandonato infestato dai topi. La lascia lì da sola, a morire di fame e di sete, a fare da esca per quegli schifosi roditori affamati e feroci. E' evidentemente mosso da una voglia di vendetta incontenibile. Ma perchè? Qual è il legame tra vittima e carnefice? Sono solo le prime domande che sorgono all'avvio del libro. In seguito altri dubbi e altri interrogativi si porranno e a tutti Lemaitre darà risposta. Un libro vulcanico che non finisce mai di stupire.
A indagare sul caso di rapimento è chiamato Camille Verhoeven, un abile poliziotto (comandante, nel gergo francese) con una storia personale tormentata e dall'aspetto fisico molto particolare. E' poco più di un nano (avete presente il senatore Brunetta...?); durante la gravidanza sua mamma fumava in maniera smodata e il feto, alla nascita, ne subisce le conseguenze con un ritardo di sviluppo fisico. Un rapporto tra madre e figlio che il comandante Camille si porta dietro per tutta la vita e che Lemaitre pone tra gli elementi cardine del libro aggiungendoli alla trama strettamente poliziesca. Posto il rapimento di Alex come punto di inzio del racconto, Lemaitre sviluppa l'intera vicenda del libro che definire appassionante nei suoi sviluppi è decisamente limitativo.
Il libro è strutturato su due piani narrativi. Uno è quello dal punto di vista di Alex, la vittima; l'altro è quello del comandante Camille Verhoeven. Un'ulteriore suddivisione in tre parti il racconto. Al termine della prima la vicenda giunge ad un punto che sembrerebbe conclusivo e definitivo, ma di fronte ad altre duecento pagine viene da chiedersi cosa debba succedere ancora. E infatti il racconto riparte con nuovi colpi di scena e un crescendo di suspence. Stesso discorso al termine della seconda parte. Stesso interrogativo per il prosieguo della vicenda e subito nuovamente altre situazioni che "acchiappano" fortissimamente il lettore.
Diavolo di un Lemaitre! Riesce a dare nuova energia ad ogni pagina e suscitare interesse ad ogni capitolo. Veramente un maestro (nomen omen...) di scrittura e di inventiva.
Non posso assolutamente aggiungere una parola di più sulla vicenda per non svelare nulla. Non sarebbe giusto nei confronti di chi leggerà il libro. Posso solo suggerire di fidarvi di me. Alex vi terrà col fiato sospeso fino all'ultima pagina, anzi fino all'ultima riga. Invece posso dirvi che il libro non è solo un racconto poliziesco ma riesce a scavare in profondità nei personaggi, descritti in maniera mirabile e approfondita, pur senza mai essere pedante o noioso. Tutta la tragica storia personale di Alex e della sua famiglia sono portanti nell'economia del libro. Alex comincia con l'essere una storia prettamente poliziesca, ma finisce con divenire un'introspezione spietata di personaggi e situazioni sconvolgenti. La famiglia da guscio protettivo e accogliente si trasforma in un inferno distruttivo. Una cosa non cambia dall'inizio alla fine del libro: il destino di Alex, sulla cui vita tutti sembrano esercitarsi in ogni sorta di tragico sadismo senza limiti.
Datemi retta, un gran libro scritto da un vero maestro.
P.S.: attenzione nel capitolo finale all'ultimo scambio di battute tra il comandante Verhoeven e il suo collaboratore...!
di Pierre Lemaitre
Nomen omen, dicevano i latini. Ovvero "di nome e di fatto". L'autore di questo splendido libro è Pierre Lemaitre, il cui cognome tradotto in italiano significa: "il maestro". Maestro di nome e di fatto. Per me è una scoperta in quanto si tratta di un autore finora sconosciuto. Invece leggo che in Francia gode di un indiscusso successo, già prima della pubblicazione di Alex.
Alex è un nome di donna, una giovane donna di bell'aspetto, consapevole della sua bellezza che usa spesso in maniera alquanto spregiudicata. Succede che una certa sera venga brutalmente rapita da uno sconosciuto che la picchia selvaggiamente e la rinchiude in una gabbia di legno sospesa nel vuoto in un edificio abbandonato infestato dai topi. La lascia lì da sola, a morire di fame e di sete, a fare da esca per quegli schifosi roditori affamati e feroci. E' evidentemente mosso da una voglia di vendetta incontenibile. Ma perchè? Qual è il legame tra vittima e carnefice? Sono solo le prime domande che sorgono all'avvio del libro. In seguito altri dubbi e altri interrogativi si porranno e a tutti Lemaitre darà risposta. Un libro vulcanico che non finisce mai di stupire.
A indagare sul caso di rapimento è chiamato Camille Verhoeven, un abile poliziotto (comandante, nel gergo francese) con una storia personale tormentata e dall'aspetto fisico molto particolare. E' poco più di un nano (avete presente il senatore Brunetta...?); durante la gravidanza sua mamma fumava in maniera smodata e il feto, alla nascita, ne subisce le conseguenze con un ritardo di sviluppo fisico. Un rapporto tra madre e figlio che il comandante Camille si porta dietro per tutta la vita e che Lemaitre pone tra gli elementi cardine del libro aggiungendoli alla trama strettamente poliziesca. Posto il rapimento di Alex come punto di inzio del racconto, Lemaitre sviluppa l'intera vicenda del libro che definire appassionante nei suoi sviluppi è decisamente limitativo.
Il libro è strutturato su due piani narrativi. Uno è quello dal punto di vista di Alex, la vittima; l'altro è quello del comandante Camille Verhoeven. Un'ulteriore suddivisione in tre parti il racconto. Al termine della prima la vicenda giunge ad un punto che sembrerebbe conclusivo e definitivo, ma di fronte ad altre duecento pagine viene da chiedersi cosa debba succedere ancora. E infatti il racconto riparte con nuovi colpi di scena e un crescendo di suspence. Stesso discorso al termine della seconda parte. Stesso interrogativo per il prosieguo della vicenda e subito nuovamente altre situazioni che "acchiappano" fortissimamente il lettore.
Diavolo di un Lemaitre! Riesce a dare nuova energia ad ogni pagina e suscitare interesse ad ogni capitolo. Veramente un maestro (nomen omen...) di scrittura e di inventiva.
Non posso assolutamente aggiungere una parola di più sulla vicenda per non svelare nulla. Non sarebbe giusto nei confronti di chi leggerà il libro. Posso solo suggerire di fidarvi di me. Alex vi terrà col fiato sospeso fino all'ultima pagina, anzi fino all'ultima riga. Invece posso dirvi che il libro non è solo un racconto poliziesco ma riesce a scavare in profondità nei personaggi, descritti in maniera mirabile e approfondita, pur senza mai essere pedante o noioso. Tutta la tragica storia personale di Alex e della sua famiglia sono portanti nell'economia del libro. Alex comincia con l'essere una storia prettamente poliziesca, ma finisce con divenire un'introspezione spietata di personaggi e situazioni sconvolgenti. La famiglia da guscio protettivo e accogliente si trasforma in un inferno distruttivo. Una cosa non cambia dall'inizio alla fine del libro: il destino di Alex, sulla cui vita tutti sembrano esercitarsi in ogni sorta di tragico sadismo senza limiti.
Datemi retta, un gran libro scritto da un vero maestro.
P.S.: attenzione nel capitolo finale all'ultimo scambio di battute tra il comandante Verhoeven e il suo collaboratore...!
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