lunedì 5 febbraio 2018

"Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono negri"

Raid razzista di Macerata. La "colpa" di essere negri
Finora si è quasi soltanto parlato dello sparatore che ha scaricato 30 colpi di pistola su persone dalla pelle scura scelte a caso per strada per il solo fatto di avere la pelle di un colore non gradito. Sarà accusato di strage e mi auguro che si becchi una giusta ed esemplare condanna. 
Ma la cosa peggiore di questa vicenda sono le vergognose giustificazioni del gesto da parte della destra più estrema e razzista. Salvini e Meloni in testa. A sentir loro la colpa di tutto sarebbe della sinistra e dell'invasione di migranti e di gente di colore. Cioè per non finire nel mirino dello sparatore sarebbe bastato non essere "negri" e presenti in Italia. Follia pura. Che è come dire non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono negri. Più o meno come nei casi di stupro "è lei che era vestita in maniera provocante e se l'è cercata". Alla fine, nella logica perversa della destra razzista e sessista, la colpa finisce per essere delle vittime, mai dei carnefici.
Risultati immagini per luca traini
Vale quindi la pena di occuparsi un po' delle vittime di Macerata, almeno per conoscere i loro nomi e, sia pur sommariamente, le loro storie.
Post pubblicato su facebook da Daniele Cinà.
Daniele Cinà
4 h
I nomi e le storie delle persone ferite a #Macerata dal raid a sfondo razziale compiuto da Luca Traini.
Wilson Kofi ha solo venti anni e viene dal Ghana. 20 anni, un ragazzino e migliaia di chilometri già sulle sue gambe. Pensava di essersi lasciato alle spalle la miseria e la povertà del suo paese e invece ha trovato le pallottole di Luca Traini.
Omar Fadera, richiedente asilo di 23 anni proveniente dal Gambia, paese sull'orlo della guerra col Senegal. Pensava di aver ritrovato rifugio in Italia. Questo, prima di ieri. Per fortuna è stato colpito solo di striscio dalla pallottola di Luca Traini. È stato dimesso.
Jennifer Odion, è l'unica donna ferita della sparatoria. Viene dalla Nigeria. Nei suoi occhi lucidi la paura: "La ferita che mi fa piangere non si vede, non è quella che ho sul corpo, dentro sto molto peggio di come possa apparire esternamente".
Gideon Azeke ha 25 anni e viene anche lui dalla Nigeria. Parla solo inglese e non si capacita ancora dell'aggressione: "Ho pensato di morire, non mi rendo ancora conto di cosa mi è successo, e a chi mi ha aggredito vorrei chiedere soltanto due cose: perché lo ha fatto, e cosa ha contro di me».
Mahamadou Toure, 28 anni, originario del Mali, un paese dilaniato dalla guerra. Eppure la pallottola l'ha beccata a Macerata. È il più grave tra i feriti della folle sparatoria. È ricoverato in rianimazione con un ematoma al fegato. Non si sa ancora se ce la farà.
Festus Omagbon, 32enne della Nigeria. Aveva appena iniziato a frequentare un corso per operaio carrellista. Per lui un sogno che si avverava. Ieri il proiettile lo ha colpito al braccio senza un perché. Ora è ricoverato all'ospedale di Ancona con una lesione vascolare al braccio destro. Chissà se potrà più lavorare come sognava.

sabato 3 febbraio 2018

La magnetoterapia come cura del dolore. Bufala o realtà?


Per esperienza personale maturata negli anni, prima come sportivo agonista e poi come adulto alle prese con gli acciacchi dell'età e accidenti vari, posso dire di non aver mai tratto giovamento certo e inoppugnabile dalle applicazioni di magnetoterapia. Per intenderci: se ho un dolore a una caviglia e prendo un antidolorifico/antinfiammatorio ottengo come effetto certo che il dolore si allevia o passa del tutto. Ma per la magnetoterapia è la stessa cosa? Sì ok, alla decima seduta il dolore solitamente si attenua, ma sono convinto che sarebbe accaduto comunque per il tempo trascorso dal momento del trauma o per effetto degli antidolorifici assunti nel frattempo piuttosto che per beneficio della magnetoterapia in sé (peraltro costosa e non mutuabile). Un po' come il mal di gola e le cure cosiddette alternative "della nonna". Dopo qualche giorno il semplice mal di gola passa comunque per via della reazione naturale del corpo umano e non per effetto dei rimedi miracolistici "old style".
Un articolo di MedBunker in merito. Lo cito perché lo ritengo una fonte attendibile e seria, non gestita da tuttologi saccenti che imperversano sui social, ma da un medico documentato e rigoroso.

Chissà a quanti di noi sarà capitato di avere una prescrizione o di ricevere un consiglio relativo alla terapia con magneti. Troppo gene...
MEDBUNKER.BLOGSPOT.PE

sabato 27 gennaio 2018

Liliana Segre, serenità e lucidità per non dimenticare

Il giorno della memoria. La strage di 6 milioni di ebrei ad opera della Germania nazista di Hitler. Ma anche, purtroppo, con la collaborazione dell'Italia fascista di Mussolini. 
In tempi di revisionismo e negazionismo come quelli attuali, oggi se ne parlerà su tutti i media e poi da domani tornerà l'oblio su un argomento noioso o scomodo, perfino negato nella sua storicità dai gruppi di estrema destra. Non solo, ma chi tirerà fuori a sproposito argomenti su razza bianca e la sua presunta superiorità troverà sempre qualcuno disposto ad acclamarlo e a dargli credito e finirà per raccogliere consensi per le sue uscite razziste (vedasi il recente caso del candidato leghista alla regione Lombardia).
Io vorrei celebrare la giornata della memoria proponendo un'intervista a Liliana Segre, una superstite delle deportazioni fasciste ad Auschwitz. Nel 1938, a seguito delle leggi razziali volute da Mussolini, fu espulsa da scuola. Era una bambina di terza elementare, ma comunque considerata un nemico da isolare ed abbattere.
Il 30 gennaio 1944 venne deportata dal Binario 21 della stazione Centrale di Milano al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Fu separata dal padre, che non rivide mai più e che sarebbe morto il 27 aprile. Anche i suoi nonni paterni furono deportati ad Auschwitz, dove morirono due mesi dopo.
Nei giorni scorsi è stata nominata Senatore a vita della Repubblica dal Presidente Mattarella. Un grande gesto per una grande persona. Se avrete la bontà di ascoltare l'intervista mi darete ragione per la serenità e la lucidità con cui affronta l'argomento della discriminazione razziale nell'Italia fascista di cui è stata vittima e la morte dei suoi famigliari ad Auschwitz. Un esempio per tutti.
Riascolta il podcast Liliana Segre. La bambina cacciata da scuola ora entra in senato
RADIO24.ILSOLE24ORE.COM

domenica 21 gennaio 2018

Contro il suffragio universale (?)

Il punto di domanda vuole esprime dubbio e perplessità. Perché l'argomento è grave, spinoso, anche doloroso e pericoloso. Tuttavia, mi rincresce ammetterlo, non riesco a non essere d'accordo con il contenuto dell'articolo che trovate riportato nel link sottostante e che vi invito a leggere senza pregiudizi. Intorno a me vedo tanta, troppa, gente che non ha la più pallida idea di cosa significhi consapevolezza e conoscenza dei principali fenomeni sociali, che non riesce a distinguere il vero dal palesemente falso, che accetta qualunque cosa gli venga propinata, che concentra i propri interessi solo su certi temi e che al di fuori di questi è assolutamente avulsa dalla realtà. L'esprimersi sempre per luoghi comuni è il primo segno da cogliere per riconoscerli. E' come affidare la gestione del proprio cervello ad altri e nel frattempo chiuderlo sotto chiave a tripla mandata in attesa di utilizzi futuri. Poi un attimo prima di andare a votare decidono a seconda del vento che tira, ascoltando chi strilla di più o dando fiducia a chi le spara più grosse facendo leva sulla "pancia" dei cittadini. Ma credo che sia più probabile veder atterrare un disco volante davanti al Colosseo piuttosto che mettere in discussione il suffragio universale.

(cit) Che la democrazia sia in crisi, è oggettivo. Francis Fukuyama nel 1992 sottolineava come la democrazia liberale avesse raggiunto il suo apice nel XX secolo, per poi crollare in una lenta, inesorabile discesa verso gli abissi. E questa crisi è colpa un po’ di tutti: cittadini disinteressati e ignoranti, politici miopi e disonesti e media che informano poco e male. Il futuro di ogni Paese, almeno lì dove le elezioni sono libere e trasparenti, è però nelle mani del cittadino. È lui che abbocca alle bufale delle scie chimiche, è lui che condivide su Facebook l’opinione del parlamentare secondo cui la soluzione alla crisi economica è stampare più moneta, è sempre lui che inneggia alle ruspe o che ritiene che il male principale d'Italia siano i migranti.

In definitiva, è la massa di quel tipo di cittadini a scegliere. E lo fanno anche per tutti gli altri perchè sono molti, molti, di più...

http://thevision.com/politica/contro-suffragio-universale/ di LUIGI MASTRODONATO

CONTRO IL SUFFRAGIO UNIVERSALE


DI LUIGI MASTRODONATO    16 GENNAIO 2018

venerdì 19 gennaio 2018

Conta solo il colore della pelle

Ormai non resta che ammetterlo. Gli italiani sono un popolo sempre più razzista. I social hanno dato piena voce alla parte peggiore degli italiani, quella ignorante, rozza e retriva, che non prova neppure a usare il cervello. 
Prendiamo il recente caso di Larissa Iapichino. E' figlia d’arte, suo padre è Gianni Iapichino, ex campione italiano di salto con l’asta. Sua madre è Fiona May, campionessa mondiale e atleta olimpionica per la Nazionale italiana. Dal 1994 Fiona May è italiana. Larissa invece, classe 2002, è italiana da sempre. Larissa ha stabilito un record nel suo sport, il salto in lungo.Più esattamente il pentathlon. Finita sulle pagine dei giornali per la sua bella impresa, è stata bersagliata da insulti da parte di quanti non intendono considerarla italiana perché di pelle nera. Evidentemente non basta essere nati in Italia da padre italiano (e madre britannica di nazionalità italiana) e avere da sempre vissuto in Italia, perché a fare la differenza è sempre e solo il colore della pelle. Il pensiero dominante è che la pelle nera non può essere italiana. Cultura, tradizioni, formazione, istruzione, quotidianità, ius sanguinis, relazioni sociali vanno a finire nel cesso. Non contano nulla. 
Conta solo il colore della pelle. Che schifo.

https://www.nextquotidiano.it/commenti-razzisti-figlia-fiona-may/
fiona may figlia insulti - 7

QUASI QUASI RIPRENDO A SCRIVERE SUL BLOG...

Ho smesso di scrivere su questo blog da parecchio tempo. Chissà, forse mi è semplicemente passata la voglia oppure, più probabilmente, ho maturato il convincimento che le mie riflessioni non fossero così interessanti da meritare di essere pubblicate.
Ma l'uomo è un essere volubile e dunque quasi quasi ricomincio a scrivere. Scorrendo i vari post ci sarà un grosso buco temporale. Chissà che il tempo trascorso non sia stato salutare. Chi vivrà, vedrà.

mercoledì 11 novembre 2015

IL BLOG E' SOSPESO
PER UNA (LUNGA) PAUSA DI RIFLESSIONE......


                                      UN SALUTO E UN GRAZIE A TUTTI I VISITATORI

martedì 5 novembre 2013

Ivano Ponchia, l'eterno bambino

Questa notte è morto un amico. Un rugbysta con un illustre passato. Nazionale azzurro degli anni '50, ex giocatore del Petrarca Padova. Un personaggio a tutto tondo che lascia un grande vuoto, al di là di ogni retorica. Aveva 82 anni e forse non più molta voglia o forza di vivere, dovendo quotidianamente subire le ingiurie dell'età e della salute che lo stava giorno dopo giorno lasciando. Nell'ambiente rugbystico si usa una metafora per descrivere il grande passo dalla vita alla morte. "Ha passato la palla", si dice. Chissà, forse per pudore, forse per timore di chiamare le cose col loro nome.


Ivano con il "cap", il cappellino riservato
a chi ha vestito la maglia della nazionale di rugby
Questa notte Ivano Ponchia ha passato l'ultima palla e ci ha lasciati. Gli esiti di una banale caduta in casa gli sono stati fatali, pur se da tempo la salute di Ivano era piuttosto precaria. Una ferita non solo per l’ambiente petrarchino, ma per tutto il rugby italiano. Ivano infatti è stato il primo giocatore azzurro a segnare una meta a Twickenham, il tempio del rugby inglese. Eravamo negli anni '50. Tutti noi rugbysti delle generazioni seguenti in qualche modo gli siamo debitori.


Ivano era una persona che non passava inosservata. Voglio qui rendergli omaggio con alcuni brevi ricordi. Ivano era un’icona vivente di come si possa conservare un animo gioioso da bambino pur portando  –a volte con fatica– il peso dei capelli bianchi e degli acciacchi dell'età avanzata. A dispetto degli anni, Ivano ha sempre mantenuto un cuore leggero e aperto alla gioia di vivere, al divertimento, alla battuta, allo scherzo. Mi ricordo, molti anni fa,  la mia prima partecipazione ad una Cena di Natale dei Petrarchi (gli Old ex petrarchini), quando ad un certo punto fece il suo ingresso in sala un Babbo Natale di rosso vestito, sgargiante nel contrasto dell’abito con la barba canuta. E dietro la barba due occhi sorridenti. Quelli di Ivano, che distribuiva caramelle a manciate, panettoni e pandori, penne e calendari. Gadget natalizi, nulla di più. Con semplicità, con malcelato divertimento personale nel rendersi bambino agli occhi di tutti. C'era una luce di fierezza in quel Babbo Natale. Questo è stato Ivano per me in questi anni e sempre rimarrà così: due occhi sorridenti dentro un costume rosso fuoco da Babbo Natale.

Mi piace ricordarlo con un brano che di Ivano dice tutto, al punto che sembra scritta per lui, uomo amato e rugbysta apprezzato.


Ivano in versione natalizia
 Da grande voglio fare il bambino,
per conservare una parte che lasci sempre spazio all'entusiasmo,
che non lo perda mai,
per continuare a pungermi con le rose
senza mai la paura di toccarle.

 Alla felicità ci si arriva navigando fra le nuvole
ma senza sottovalutare la forza delle braccia,
la forza del desiderio.
Ci vuole allenamento.

dal libro "La luna blu. Il percorso inverso dei sogni" di Massimo Bisotti 

martedì 8 ottobre 2013

Film visti. Gravity, naufraghi nello spazio

Gravity

Regia di Alfonso Cuarón. 
Con Sandra Bullock, George Clooney.

[Voto: 4 su 5]

Si dice fantascienza e si pensa al futuro, agli alieni, a mondi nuovi e inesplorati. Invece no. Non in questo film di Alfonso Cuaròn. Perchè, pur appartenendo formalmente al filone sci-fiction con astronavi e astronauti, si tratta di una storia dei giorni nostri, o potrebbe addirittura essere un pezzo di storia passata. Una cosa simile l'abbiamo già vista con Apollo 13, un film del 1995, diretto da Ron Howard sulla disavventura della navicella americana in procinto di arrivare sulla Luna e costretta a rientrare precipitosamente sulla Terra per dei guasti irreparabili ("Houston, abbiamo un problema..."). 
La storia è semplicissima. Gli astronauti Ryan Stone (Sandra Bullock) e Matt Kowalsky (George Clooney) lavorano ad alcune riparazioni di una stazione orbitante nello spazio quando uno sciame di detriti formatisi dalla distruzione fortuita di satelliti orbitanti intorno alla terra, distrugge la loro stazione, fa a pezzi lo Shuttle e li lascia a vagare nello spazio nel disperato tentativo di sopravvivere e trovare una maniera per tornare sulla Terra. Due personaggi, una vicenda ridotta all'osso. L'ideale per mettere i personaggi di fronte a situazioni estreme. Lo spazio, il vuoto assoluto, l'assenza di gravità, la perdita dei punti di riferimento e dei contatti con il centro di controllo a terra. Come se all'improvviso fosse venuto meno il rassicurante apporto del cordone ombelicale che lega i due astronauti alla madre Terra. Soli, abbandonati nello spazio, con l'ossigeno in esaurimento e nessuno aiuto in arrivo. Due naufraghi su una barca nell'oceano, in balia delle onde. Due disperati a piedi nella vastità di un deserto con poche gocce d'acqua a disposizione. Questo è Gravity di Cuaron. L'occasione per sfoggiare incredibili effetti visivi della messa in scena, tutta in computer grafica e realistica ai massimi livelli immaginabili. Una fotografia sfolgorante e magica, nel mio caso rovinata dalla visione obbligata in 3D con relativi occhialetti. Ma c'è anche la versione 2D, che personalmente preferisco, sempre se disponibile al cinema. Ma le qualità di Gravity stanno anche nel saper affrontare temi non solo spettacolari, ma anche umanistici e filosofici: l'uomo deve combattere contro avversità naturali o diabolicamente disseminate dal caso facendo affidamento sulle sue risorse e sul suo ingegno, senza perdersi di coraggio e scommettendo sulla propria capacità di razionalizzare i problemi e le difficoltà. Questo non senza fare i conti con il proprio passato, naturalmente doloroso e tragico, che per tutta la vita si è cercato di affrontare e combattere anche affrontando grandi imprese. Ad vedersela con tutte queste prove è lei, la dottoressa Stone, figura femminile della storia. Lui  invece, Kowalsky/Clooney, è il tipico maschio yankee un po' cowboy e un po' dandy, un po' sbruffone e un po' simpatica canaglia. Questa femminina presenza infonde fiducia e rasserena in qualche modo lo spettatore trasformando lo scoramento della dottoressa Stone di fronte alle sventure a raffica che le capitano nella sua forza. Scoramento e forza, passione e risurrezione. Paura e coraggio, disperazione e fiducia. I due estremi che si affrontano. Come nello spazio dove freddo estremo e caldo infuocato o buio profondo e luce accecante si fronteggiano e si alternano. Tutto questo è Gravity.

martedì 17 settembre 2013

Neologismi e anglicismi... Parbuckling

Parbuckling
Significato 1. A rope sling for rolling cylindrical objects up or down an inclined plane (trad.: un'imbracatura per rotolare oggetti cilindrici su o in giù lungo un piano inclinato).

Da oggi parbuckling entra a far parte della lingua italiana corrente, quella che comprende i neologismi più comuni o gli anglicismi più usati. Parbuckling assurge agli onori della cronaca e del lessico con la titanica operazione di ribaltamento della nave da crociera Costa Concordia naufragata sugli scogli dell' Isola del Giglio. Tra ieri e oggi è stata fatta rotolare su un fianco e rimessa in condizioni di galleggiamento. Per tale operazione in lingua inglese si usa, per l'appunto, il termine marinaresco "parbuckling", riferito originariamente al rotolamento di pesanti botti su un piano inclinato fino a far loro raggiungere la posizione voluta. La stessa cosa che è stata fatta con la Costa Concordia.


Cliccare per ingrandire l'immagine


E' pressoché inevitabile che la parola "parbuckling" vada in breve ad affiancare altri neologismi come "board meeting", "debriefing", "brunch", "brain storming" e centinaia di altri che sono ormai entrati di diritto nel dizionario di molti italiani che amano dare un'immagine moderna e dinamica di sé. A mio avviso il termine italiano che meglio esprime la manovra fatta con il transatlantico della Costa armatrice è "ribaltamento". La nave è stata fatta rotolare sul proprio asse fino a far emergere la parte sommersa recuperando l'originario assetto di galleggiamento. E' stata quindi ribaltata di quasi 90 gradi. Oltretutto il termine riprende il più specifico "ribalta" ossia, su un palcoscenico teatrale, il bordo del proscenio, la parte più protesa verso la platea; delimita il palcoscenico stesso ed è la sezione più in vista dal lato del pubblico. In senso lato, la nave è stata riportata alla vista nella parte fino ad allora nascosta perché sotto la superficie dell'acqua.  Da qui a mio avviso il termine ribaltamento come il più corretto per l'uso in lingua italiana.
Video accelerato (anglicismo: timelapse) del parbuckling della Costa Concordia:  http://www.linkiesta.it/costa-concordia-parbuckling-timelapse

Da qui a breve sono attesi anche utilizzi più acrobatici della parola "parbuckling" mutuandola nel linguaggio comune, giornalistico o politico (dove i ribaltamenti sono roba di tutti i giorni...), soprattutto in questa fase in cui non tutti sanno cosa vuol dire e quindi taluni potranno utilizzarla a sproposito, giusto per darsi un tono. Quindi, qualora ci si trovasse con qualcuno che disinvoltamente utilizzasse il termine parbuckling nel mezzo della conversazione...  tranquilli, non è un'offesa!

lunedì 16 settembre 2013

Film visti. Il potere dei soldi

IL POTERE DEI SOLDI
Regia di Robert Luketic. 
Con Liam Hemsworth, Harrison Ford, Gary Oldman, Amber Heard, Richard Dreyfuss.

[Voto: 2 su 5]

Un filmettino, niente di più. Con un grande cast -sprecato- di grossi nomi ( Harrison Ford, Gary Oldman, Richard Dreyfuss) e un paio di emergenti dalle facce "giuste&bellocce" (Liam Hemsworth,  Amber Heard). Risultato sbiadito e trascurabile.

Adam Cassidy (Liam Hemsworth) è un giovane ambizioso e talentuoso, che vorrebbe far carriera in una grande azienda multinazionale di telecomunicazioni e lasciarsi alle spalle i problemi economici che affliggono la sua famiglia. Una bravata, per ripicca al licenziamento subito, lo mette però in un guaio più grande di lui. Il magnate Wyatt, suo ex datore di lavoro, lo ricatta obbligandolo a farsi assumere dalla concorrenza per rubare il prototipo di un nuovo telefono che rivoluzionerà il mercato. Adam non ha scelta. Spionaggio industriale o galera per truffa, ma gli altri -veri squali- non hanno scrupoli di sorta. 

Amber Heard
Amber Heard
In mezzo ci sta il tentativo di delineare un ambiente (due grandi multinazionali ipertecnologiche) e dei personaggi (i due mega boss, il loro plaudente entourage, il vecchio padre del rampante protagonista). Il risultato è goffo e raffazzonato, sia pure in carta patinata. Il vecchio padre è impersonato da Richard Dreyfuss, che agli occhi di tutti, figlio compreso, ha la grave colpa di aver fatto per 32 anni lo stesso misero lavoro di guardia giurata, ritrovandosi alla fine pensionato, ammalato e solo, e per di più con un figlio che lo disprezza. Ed è proprio l'esempio negativo del padre a spingere il giovane ingegnere elettronico a tentare l'impossibile, spionaggio indiustriale compreso, pur di raggiungere il successo, senza del quale evidentemente non si possono avere auto di lusso e appartamenti da mille e una notte. Immancabile anche la figura della belloccia di turno un po' vacca (Amber Heard) che, finchè il giovane Hemsworth è uno sconosciuto squattrinato non lo reputa all'altezza di una relazione che vada oltre il sesso occasionale di una notte, ma quando comincia a scalare a montagna del successo improvvisamente si ritrova perdutamente innamorata di lui. E qualcuno oserebbe forse affermare che il potere dei soldi non esiste? Avercene.....!!!

Il film, forse per tardivi scrupoli di coscienza, raddrizza la mira in extremis e dopo aver in lungo e largo osannato il mito tipicamente americano della ricerca del successo come unico scopo di vita, vira di brutto finendo col dirci che tutto sommato l'onestà del vecchio e cencioso padre di Hemsworth vale di più della ricca, ma disonesta vita dei boss delle multinazionali. Bah...
Finale moralistico e stucchevole. Più happy end di così non si può. 

E naturalmente tutti vissero felici e contenti...



giovedì 12 settembre 2013

DIO senza "D" = io (uno slogan da applausi)

Polemiche roventi a Verona per questo manifesto proposto da UAAR (Unione degli Atei Agnostici Razionalisti). Link: http://www.uaar.it/news/2013/09/10/censura-verona-giunta-vieta-manifesti-uaar/

Dio senza "D" =  io

Trasmettono un messaggio “potenzialmente lesivo nei confronti di qualsiasi religione”. È quello che la giunta a guida leghista del Comune di Verona pensa dei manifesti Uaar. E quindi, nonostante questi fossero già stampati nel rispetto di tutti i regolamenti comunali, ha detto “no” alla loro affissione.
In un comunicato l'UAAR afferma:  Nessuna amministrazione pubblica era sinora arrivata a tanto. I manifesti Uaar sono già stati affissi a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Bari, Ancona, Cagliari e persino nella stessa Verona (a cura di un privato), ma una presa di posizione istituzionale di questo tenore non si era ancora verificata, (...)
E ancora: Il messaggio non esclude affatto l’esistenza di Dio: si limita ad affermare che dieci milioni di italiani vivono — generalmente bene — senza farvi alcun riferimento.
Per informazione, va detto che la campagna è stata ideata dalla creative agency Zowart.
Perché questa campagna? “Viviamo in una società in cui i non credenti sono ritenuti pochi, sono presentati negativamente e sono spesso oggetto di disparità di trattamento”, spiega Raffaele Carcano, segretario Uaar. “Con la nostra campagna vogliamo invece ribadire che in Italia vivono (generalmente bene) circa dieci milioni di non credenti, e che c’è chi si impegna per eliminare le discriminazioni nei loro confronti”.

Polemiche roventi, come sempre succede nel nostro paese per qualunque argomento che veda opinioni opposte. A maggior ragione quando il tema è delicato come credere o non credere in Dio. Si badi bene, in questo caso la parola Dio potrebbe essere tranquillamente scritta in caratteri minuscoli perchè non fa riferimento a nessuna divinità in particolare e dunque a nessuna confessione religiosa. Dio è un termine e un concetto universale, comune a tutte le fedi e a tutte le religioni. Non un nome proprio, anche se  per i cristiani è vero il contrario. Per i fedeli di Santa Romana Chiesa Dio è l'unico riconosciuto e venerato, l'unico degno di fregiarsi di tale nome. Ma senza dimenticarsi della Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo. Pur essendo una religione per eccellenza monoteista, quella cristiano-cattolica postula che Dio sia uno e trino, tre esseri riuniti in uno solo. Non mi addentro in disquisizioni teologiche dottrinali perchè non ne ho adeguata competenza e conoscenza. Ma fin qui ci arriviamo tutti, trattandosi di elementi basilari della nostra cultura e tradizione italiana. Poi ognuno ha o si fa le proprie convinzioni, ma queste conoscenze elementari sono comuni a tutti.
Il fatto è che l'UAAR grida alla censura e protesta vigorosamente promettendo di non desistere e di dare battaglia. Anzi dichiara che si muoverà di conseguenza laddove dovessero esserci discriminazioni nei confronti dei suoi aderenti.


Mi viene spontanea qualche considerazione. Prima di tutto sgombriamo il campo da un facile equivoco che vede sovrapporsi il concetto di religione con quello di dio. Un ateo è colui che non crede in un essere divino e pertanto l'oggetto del non-credere non può essere la religione che -per inciso-è solo un insieme di regole comportamentali che si possono anche non osservare pur essendo o dichiarandosi credenti (di non praticanti è pieno il mondo, anzi sono la stragrande maggioranza di coloro che si professano credenti). Il manifesto dell'UAAR è impeccabile sotto il profilo logico e letterale. E l'amministrazione comunale veronese sbaglia quando si lancia in affermazioni sul merito del suo contenuto. Dio non è sinonimo di cattolicesimo nè di alcuna altra religione. Vale per musulmani e cristiani, per induisti o buddhisti. Quindi lo slogan non prende di mira nessuno in particolare. Senza "D" della parola Dio rimane "io", ovvero l'uomo e non il divino al centro di tutto. Potrà non piacere, potrà sembrare presuntuoso o supponente, ma è uno slogan impeccabile, direi da applausi (per questo motivo poco sopra ho citato l'agenzia creativa che lo ha formulato).
Altra cosa è chiedersi se abbia un senso una campagna pubblicitaria per sostenere l'ateismo, ossia uno stato di non-essere, non-credere, non-partecipare. Insomma una negazione sostenuta in positivo da una pubblicità che per sua natura spinge in senso opposto, cioè a fare o a credere in qualcosa, ossia l'oggetto del messaggio pubblicitario, il prodotto da reclamizzare. Mi sembra una contraddizione in termini. Uno dovrebbe a rigor di logica essere invogliato a fare o credere in qualcosa, non a non-fare o a non-credere. Ma probabilmente la spiegazione è molto banale e utilitaristica: una quota di iscrizione e il sostegno come associati.
Questo, senza voler essere offensivo in alcun modo con nessuno, naturalmente.

lunedì 9 settembre 2013

Film visti. Riddick, un eroico criminale indomito e imbattibile

Locandina italiana RiddickRIDDICK
Regia: David Twohy
Con: Vin Diesel, Katee Sackhoff
 
[Voto: 2,5 su 5]
 
 
Terzo film della serie. Riddick/Vin Diesel è un criminale ricercato in tutta la galassia. Lo troviamo, spietatamente abbandonato colà dai suoi avversari, su un pianeta desolatamente disabitato, ma pericoloso e letale. L'Indomito combatte quotidianamente una dura battaglia di sopravvivenza contro bestiacce ferocissime e forze della natura avverse. Unico essere vivente che non lo voglia spolpare è un cucciolo addomesticato di simil-lupo locale che ha allevato amorevolmente fino a diventare inseparabili amiconi. Quando decide che non ne può più di quella vita da campeggiatore estremo (ovvero dopo circa mezz'ora di avventure da superduro-che-Rambo-non-gli-fa-un-baffo...) fa in modo che un sistema automatico di segnalazione intergalattico attiri feroci cacciatori di taglie mercenari. L'obiettivo del nostro eroe è trasformarsi da preda in cacciatore, impadronirsi della loro astronave e svignarsela in attesa di un quarto sequel della saga.
Katee Sackhoff
Katee Sackhoff
(già vista nel serial tv Battlestar Galactica)
 

 
Il film è esile e banale nella sua costruzione, quanto spettacolare e ridondante di scene di azione con grande uso di effetti speciali. Ma mantiene tutte le promesse di film di genere, con un livello di tensione costante senza cadute di ritmo, buoni interpreti caratteristi (la mercenaria con-le-palle sciupamaschi Katee Sackhoff ha quel non so che di torbido al punto giusto...), mentre Vin Diesel si esprime ai suoi massimi livelli attoriali esibendo imperterrito sempre la stessa identica espressione bovina per ben due ore di film. Non mica roba da tutti, eh....

lunedì 2 settembre 2013

Film visti. In trance, colpi di scena ipnotici...

IN TRANCE
Regia: Danny Boyle
Con: James McAvoy, Rosario Dawson, Vincent Cassel
 
[Voto 2,5 su 5]
 
 
In un intreccio poliziesco, tanto più è complicato, tanto più è necessario che sul finire della vicenda uno dei personaggi riprenda le fila della narrazione per fare chiarezza e spiegare come stiano le cose. Abbiamo illustri esempi in materia. Penso a Rex Stout con il suo Nero Wolf, che usava questo artificio narrativo per illuminare i lettori che annaspavano nelle spire della trama. Questo In trance di Danny Boyle è diabolicamente complicato (direi assurdamente...) con colpi di scena finali a ripetizione e con uno sviluppo intermedio della vicenda che si insegue e si accavalla fino a stordire letteralmente lo spettatore.
La storia sarebbe semplice a dire il vero; è il come e il perché che è complicato. Una banda di ladri di opere d'arte organizza una rapina nel corso di una battuta d'asta. Succede un contrattempo e il basista nasconde la tela trafugata perdendo però la memoria. Niente refurtiva e grande ira dei complici che sospettano che l'amnesia sia solo un trucco per fregarli. La banda decide di usare l'ipnosi per far tornare la memoria al presunto furbetto traditore. E qui le cose si complicano maledettamente perché entra in scena lei, la fatale e affascinante ipnoterapeuta interpretata da una sfolgorante Rosario Dawson. La splendida dark lady prende il comando della situazione, ben consapevole che tutto dipenda dalla sua abilità come ipnoterapista. Complicazioni a iosa: innamoramenti, gelosie, vendette, sospetti, omicidi, ricordi vecchi e sopiti che riemergono dalle nebbie del passato... Ce n'è per tutti i gusti fino al punto che lo spettatore (io di sicuro...) finisce col non capirci più niente, facendo fatica a distinguere il vero dall'onirico, la realtà dal ricordo o dall'immaginario ipnotico. E poi nel finale, una raffica di colpi di scena uno dopo l'altro, con il successivo che modifica il precedente, spostando di volta in volta da un'ipotesi all'altra, da un personaggio all'altro il bandolo della matassa.
Alla fine a risolvere parzialmente la situazione interviene la stessa ipnotista che quasi fuori campo, svela un po' di arcani narrativi. Per fortuna.
 
Presuntuoso e pretenzioso questo film di Danny Boyle. Un'aria sofisticata e patinata che mal si addice a buona parte dei personaggi. Ladri e delinquenti che dialogano con levità e sufficienza da intellettuali consumati sono francamente poco credibili. Intrecci di sceneggiatura che si reggono -forse- per miracolo e che dovrebbero mantenere tutta l'impalcatura della vicenda. Ambientazione in location da super ricchi poco credibili e sicuramente eccessive per il livello dei personaggi. Tutto sembra teso a ingigantire ed enfatizzare ciò che non merita di essere ingigantito ed enfatizzato. A parte la magnifica bellezza di miss Rosario Dawson...
 

venerdì 30 agosto 2013

Libri. Rugby Mar del Plata, uniti fino alla morte

Mar del Plata
di Claudio Fava


E' una storia vera, raccolta a distanza di anni da un giornalista argentino dalla viva voce dell'unico superstite della vicenda e poi riportata su libro da Claudio Fava. Il fatto che siano passati decenni dai quei tragici fatti non allenta minimamente la tensione di quei momenti. E il racconto, sebbene con qualche limite di scrittura che -ahimè- non mi ha convinto, attanaglia il lettore in un crescendo a cui è difficile sottrarsi sospendendo la lettura del libro. Che infatti si divora in un baleno. Il periodo storico è quello degli anni '70 e seguenti, in cui l'Argentina fu in mano alla giunta di militari comandata dal generale Videla. Una banda di assassini infami e vigliacchi che in nome della madre Patria da difendere dai comunisti hanno insanguinato un'intera nazione. Le cifre parlano di 30.000 morti, molti dei quali mai neppure ritrovati cadaveri. E' stato il tempo tragico dei desaparecidos e delle torture dei militari. Bastava un semplice sospetto per sparire dalla circolazione. E i più fortunati venivano eliminati con un colpo alla testa. I più disgraziati invece subivano indicibili torture.

Il protagonista si chiama Raul, è argentino ed è un giocatore di rugby. La sua squadra è il Mar del Plata, che guida la classifica. E' un manipolo di giovanissimi, in parte studenti, in parte lavoratori o dopolavoristi. Gente che unisce il sacrificio per il lavoro e lo studio con la passione per il rugby. Sport di nobili principi che in Argentina gode di notevolissimo seguito di pubblico e di tradizione. Non che possa competere con il calcio, ma certamente è uno sport molto apprezzato.
Il Mar del Plata nel giro di un campionato non esiste più. I giocatori, uno ad uno, morti, tutti, per mano dei sicari della giunta militare. Il primo a morire, colpevole di essere iscritto ad una associazione studentesca invisa ai militari, viene ricordato dai compagni con un minuto di raccoglimento all'inizio della partita di campionato. Solo che quel minuto ne durò ben dieci. I suoi compagni rugbysti lo volevano ricordare così. Un affronto per il governo. Il fatto fece scalpore e la gente, sia pure sottovoce, ne parlava. Il pubblico allo stadio aumentava ad ogni incontro; la squadra guidava il campionato e non era chiaro se il tifo fosse per i meriti sportivi della capolista o per il coraggio dimostrato nel ricordare il compagno morto. E allora i morti diventano due, poi tre, poi uno alla volta tutti furono decimati dagli aguzzini dei militari.

Lui, Raul, è l’unico sopravvissuto. Una squadra di fantasmi. Mentre l’Argentina si prepara a trasformare i campionati del mondo di calcio del 1978 nella vetrina del regime, tra la giunta militare e quei ragazzi si accende una sfida che non prevede armistizi. Uno dopo l’altro i giocatori spariscono: ma per ogni giocatore ucciso, un ragazzino del vivaio viene promosso titolare. Uniti intorno alla squadra e ai compagni uccisi, oltraggiati, torturati. Eppure avrebbero avuto la possibilità di salvarsi scappando in Francia, dove avrebbero trovato ospitalità come esuli e come rugbysti. Invece no. Il coraggio e l'orgoglio li tenne ancorati alla loro terra, al loro paese, alla loro squadra. E così, mentre il mondo celebra l’Argentina campione del mondo di calcio fingendo di non sapere cosa stia accadendo, i ragazzi del Rugby La Plata continuano a giocare, a vincere, sapendo che potrebbe essere la loro condanna a morte. E così è, infatti. Fino all'ultimo rimasto: Raul. L’ultima di campionato si porta in campo una squadra di ragazzi. Più lui, miracolato, chissà perché. Anche l'allenatore viene fatto fuori, non dopo aver subito terribili torture. Per la giunta militare, che assiste alla finale di campionato dalla tribuna con le divise tirate a lucido sul palco d’onore, sarà il campanello d'allarme dell’inizio della fine. Ma solo dopo altri anni di dittatura, di morte, di violenze.
Una storia vera, , di rugby e politica, di violenza indicibile e di amore e rispetto per se stessi, per i propri ideali di libertà. Raccontata con passione trent'anni dopo perché nessuno debba dimenticare il sacrificio di quegli innocenti.

Film visti. Elysium, guardare al presente scrutando il futuro

ELYSIUM
Regia di Neill Blomkamp. Con Matt Damon, Jodie Foster.

[Voto 3,5 su 5]


ELYSIUM: UN'ALLEGORIA FANTASCIENTIFICA SULL'IMMIGRAZIONE

Nel 2009 il regista Neill Blomkamp si presenta sulla scena cinematografica con il suo primo lungometraggio (District 9) convincendo critica e pubblico con il suo mix di originalità e innovazione nel trattare il tema dell'invasione aliena corredato da un pungente commento sulla società. Con Elysium, la sua seconda opera, Blompkamp continua sulla scia della fantascienza mista a forti connotazioni sociopolitiche e presenta due mondi distinti e separati: la Terra sovrappopolata e in rovina da una parte, Elysium dall'altra, una  enorme stazione spaziale orbitante abitata da persone estremamente ricche che si sono create un nuovo mondo parallelo, salubre, ipertecnologico ed esclusivo. A nessuno che non appartenga alla ristretta cerchia di cittadini autorizzati è consentito l'accesso alla nuova Terra artificiale. Gli intrusi sono allontanati con la forza o eliminati senza scrupoli.

La metafora fantascientifica di Elysium che si aggancia alla realtà odierna è fortissima e trasparente. La società attuale vive esattamente questo conflitto e in particolare l'Italia, per la sua collocazione geografica al centro del Mar Mediterraneo che la individua come porta dell'Occidente del benessere per tutta quella parte del mondo genericamente definita come Terzo mondo sottosviluppato o in via di espansione. E le reazioni sono quelle che ben conosciamo dalle cronache quotidiane e dai commenti e le prese di posizione dell'opinione pubblica. Ormai la diffidenza verso gli immigrati è diventata rabbia e rifiuto generalizzato con evidente matrice razzistica e xenofoba. A priori, sulla base di pregiudizi e preconcetti che sposano prima di tutto l'etnia e il colore della pelle come elementi discriminanti. Persino Papa Francesco è stato pesantemente attaccato per la sua scelta di testimoniare fratellanza e accoglienza cristiana ai migranti che approdano sull'isola di Lampedusa. Neppure la massima autorità e capo spirituale del mondo cattolico si è salvato dal vero e proprio linciaggio portato da una certa parte dell'opinione pubblica italiana.
Naturalmente il film dopo un inizio descrittivo delle differenze tra i due mondi, quello terrestre dei poveri e derelitti e quello artificiale dei ricchi ipercivilizzati, segue il suo filo logico sviluppando la parte più filmica e d'azione della trama. Con i Buoni eroici e idealisti (Matt Damon in insolita versione Rambo) che combattono i Cattivissimi e spietati detentori del potere (una luciferina Jodie Foster leader dei terrestri privilegiati). L'epilogo non è del tutto scontato e si mantiene ad alto livello di coinvolgimento per lo spettatore nel classico modulo di action movie. Mantenendo però una matrice sociologica che offre una lucida chiave di lettura sul problema evidenziato in apertura. L'integrazione e la condivisione delle risorse naturali e tecnologiche è l'unica strada per evitare il conflitto aperto tra i due mondi che si attraggono e respingono vicendevolmente. Una chiave di lettura offerta dal film che cade a pennello nella realtà attuale, italiana e non solo, ovviamente. O l'Occidente si rende conto che la chiusura e le barricate portano solo ad accentuare una spirale di odio oppure la marea enorme che spinge dal Terzo mondo avrà alla lunga la meglio col risultato di rischiare di spazzare via quello che rimane della cultura occidentale. E personalmente non vedo soluzioni alternative, credibili e praticabili alla condivisione e integrazione anche nel ristretto ambito della nostra povera Italia.

martedì 27 agosto 2013

Film visti. C'è onda e onda... (e anche surf)




DRIFT
Regia di Ben Nott, Morgan O'Neill.
Con Sam Worthington, Lesley-Ann Brandt, Xavier Samuel, Myles Pollard, Robyn Malcolm.

[Voto 2 su 5]

Locandina originale
Un mercoledì da leoni
Due parole: lasciate perdere. Questo film australiano vuole raccontare la storia di una famiglia di appassionati surfisti che uniscono la passione sportiva alla vocazione imprenditoriale. Alla base di tutto dovrebbe esserci una vicenda appassionante, immagini mozzafiato e qualche colpo di scena. Invece è tutto molto approssimativo, molto "vorrei-ma-non-posso", molto abbozzato e naif. Alla fine è un polpettone con toni melodrammatici, con assenza di suspence relativa all'esito finale della gara di surf (è stra-ovvio come andrà a finire), con immagini non particolarmente emozionanti sulle evoluzioni dei surfisti.

Un consiglio. Se volete davvero rifarvi gli occhi con le evoluzioni delle tavole acquatiche accompagnando il tutto con una bella storia e bellissimi personaggi, andate a cercare il vecchio DVD di Un mercoledì da leoni del grande John Milius. Rimane insuperabile anche a distanza di decenni (è del 1978). Garantito!

Libri. Lasciate ogni speranza voi che... (leggerete Inferno)

Inferno
di Dan Brown


Inferno è il sesto romanzo dello scrittore Dan Brown, assunto alle glorie del successo mondiale con il suo celeberrimo e stravenduto Codice da Vinci. È altresì il quarto romanzo che ha per protagonista il professore Robert Langdon, irrequieto docente universitario americano di simbologia che, per inciso, è una materia che non esiste.... Il filone è quello del giallo-fantasy-storico-letterario. Insomma un minestrone dove dentro c'è posto per tutto, venghino siori venghino. Ma se il Codice da Vinci eccelleva per suspence e coinvolgimento oltre che per i contenuti talmente bislacchi da suscitare polemiche e prese di posizione ufficiali anche in campo religioso, questo ennesimo libro risulta assolutamente fiacco e approssimativo sotto molteplici punti di vista. Basta fare un giro in internet per trovare una valanga di siti che contestano sia le ambientazioni storiche che quelle geografiche messe a punto da Dan Brown che, evidentemente forte del suo successo, non va più tanto per il sottile, ben sapendo che comunque il libro sarà un successo di vendita, con o senza strafalcioni.

Nel romanzo si parla di Dante, e dunque della Divina Commedia, ovviamente di Firenze, degli Uffizi, dei Boboli, di Palazzo Vecchio; ma anche di Venezia con il suo Palazzo Ducale e la basilica di San Marco. C’è, come è naturale, il dotto e brillante professore di storia dell’arte esperto di simbologia, c’è l’immancabile e belloccia fanciulla “assistente” del prof. che fino da ultimo non si sa se lo tradisce o lo aiuta veramente, c’è l’altrettanto immancabile complotto con ricadute mondiali, la conseguente entrata in campo di una organizzazione segreta e ipertecnologizzata, modello Spectre alla 007....
C’è, infine, secondo il collaudato stereotipo di Dan Brown, l’arcano indovinello da sciogliere per giungere a salvare il mondo, con tanto di marchingegno che lo protegge. Insomma nulla di nuovo, a ben vedere, ma rielaborazioni di modelli già sfruttati e collaudati. A questo si aggiunga una pessima traduzione in italiano che fa accapponare la pelle in certi passaggi.
Eppure il libro vende e stravende. E ahimè ci sono cascato anch'io. Sotto l'ombrellone, quest'anno mi sono portato proprio l'Inferno di Brown. L'unico lato positivo del libro è che, nonostante gli strafalcioni, rimane un impagabile spot pubblicitario su Firenze e in parte anche su Venezia. Considerando che il libro è e sarà letto da milioni di persone in tutto il mondo non può che far piacere ai rispettivi uffici del turismo delle due splendide città d'arte italiane. Consoliamoci così, che è meglio.

lunedì 26 agosto 2013

Libri. Il senso del dolore

Il senso del dolore
(L'inverno del commissario Ricciardi)

di Maurizio De Giovanni


Napoli, anni 30. Il grande tenore Arnaldo Vezzi viene trovato cadavere nel suo camerino al Teatro San Carlo prima della rappresentazione de "I Pagliacci", la gola squarciata da un frammento acuminato dello specchio andato in pezzi. Artista di fama mondiale, amico del Duce, osannato dall'opinione pubblica, ma in realtà uomo egoista e meschino. A ricostruire la personalità della vittima e a risolvere il caso è chiamato il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, in forza alla Squadra Mobile della Regia Questura di Napoli.

Il commissario Ricciardi è il personaggio creato da De Giovanni al centro della sua produzione letteraria con una trilogia che lo vede protagonista. Questo poliziotto anomalo ha due caratteristiche che lo rendono tale: fa il piedipiatti per scelta, discendendo da famiglia ricca e conosciuta. Avrebbe potuto scegliere altre strade, compresa quella di vivere di rendita. Invece no. Il suo non è un lavoro in senso stretto, ma una specie di missione/passione. E poi ci sono i morti. Lui li vede ovunque, così come fossero stati immortalati in uno scatto fotografico in punto di morte. Cristallizzati nel loro dolore estremo, nel loro ultimo gesto, nelle loro ultime parole. Spesso strazianti, spesso disperate. Ma anche a volte attonite, sorprese. Perché la morte può arrivare all'improvviso, quando meno la si aspetta. Anzi spesso è la norma. Questa veggenza tormenta il commissario Ricciardi, lo inquieta, non gli da pace. Si sente in qualche modo chiamato a fare il poliziotto anche per dare pace a quei morti agli angoli delle strade che lo invocano e che solo lui può vedere. Una responsabilità enorme.

Il caso ha voluto che, per assoluta coincidenza, proprio qualche giorno prima di leggere questo libro, fossi stato a Napoli per una brevissima visita turistica. Un pomeriggio, nulla di più. Inevitabile la passeggiata nei luoghi classici della città: Mergellina, Piazza del Plebiscito, via Chiaia, il Teatro San Carlo, la Galleria Umberto. Ma anche il Caffè Gambrinus in Piazza Trieste e Trento. Prendere poi in mano il libro e ritrovare proprio quei luoghi meravigliosi visitati poche ore prima è stata una sorpresa non da poco. Immaginare il commissario Ricciardi camminare col bavero del cappotto alzato sul lungomare sferzato dal vento di tramontana o rintanarsi nel Caffè Gambrinus al suo solito tavolino che guarda sul lato di via Chiaia è stato facilissimo e coinvolgente. Davvero un bel caso fortuito che ha reso più appassionante la lettura, per rivivere l'atmosfera magica di quei luoghi.
Maurizio De Giovanni è un grande scrittore. Riesce a dare alla storia e ai personaggi uno spessore inusitato, che va ben oltre la semplice descrizione narrativa. Tutta l'atmosfera del racconto poliziesca è permeata di una sorta di realtà palpabile. In una parola, verità. La storia tutta ha un sapore vero, come anche i personaggi, le circostanze, i luoghi. Il rapporto con il reale e la sua percezione è una delle sfide di De Giovanni/Ricciardi. Cito a proposito lo stesso commissario Ricciardi: "La verità non è quella che sembra, a volte. Anzi non lo è quasi mai. E' un po' come la strana luce di questi lampioni, illumina una volta qua ed una volta là. Mai tutto insieme. Allora lo si deve immaginare, quello che non si vede. Lo si deve intuire da una parola detta o non detta, un'orma, un'impronta. Una nota, a volte."

Grande.

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5/9/2013 Aggiornamento del post:
Un'attenta lettrice (che ringrazio) mi fa notare un errore da me commesso nel citare la bibliografia di Maurizio De Giovanni. Non di una trilogia dedicata al commissario Ricciardi si tratta, ma (finora) di una produzione ben più vasta.
Il ciclo si compone fino ad ora dei seguenti libri:

Libri. Pedra Delicado, l'ossimoro vivente

Gli onori di casa

di Alicia Giménez-Bartlett


Alicia Giménez-Bartlett ha scelto, fin dall'attribuzione del nome del personaggio (Pedra Delicado, un vero ossimoro!), di creare una figura femminile di poliziotta ambigua, a due facce, duplice e ambivalente. Sul piano umano una donna sensibile, colta e facile all'innamoramento (ma anche il contrario, con tre matrimoni alle spalle...);  sul piano professionale, una vera e propria dura. Una piedipiatti con tutti i crismi che punta diritta al bersaglio e non molla la presa se non a enigma risolto. Non è una poliziotta d'azione, quanto piuttosto una investigatrice, un'analista di fatti e di indizi, di caratteri umani, di circostanze, di situazioni. Un lavoro di fino, piuttosto che di quantità. A quello ci pensano gli altri, i personaggi di contorno che pure hanno un gran peso nell'economia strutturale della serie. C'è il fido vice ispettore Fermin Garzon (una vera spalla comica che fa da contraltare alla rude ispettrice Delicado) e le due assistenti Yolanda e Sonia, che entrano in gioco per la bassa manovalanza. La vera mente investigativa però è lei, Petra, brillante quarantenne di bell'aspetto, plurimaritata e pluridivorziata, che non disdegna una fresca birretta a qualunque ora del giorno come potrebbe fare il grande Maigret.
Ma, lo dico chiaramente, a me Petra non sta per nulla simpatica. Il personaggio è troppo caratterizzato secondo un cliché di donna moderna e aggressiva. Tratta con sufficienza e alterigia i suoi collaboratori, salvo quando ritiene di voler assumere atteggiamenti camerateschi. Sempre pronta a far valere i gradi gerarchici, ad alzare la voce e a maltrattare quel povero diavolo del vice ispettore Garzon. Il quale a sua volta, giustamente, non perde occasione per stuzzicarla e provocarla. Per non parlare delle sue relazioni affettive. Con tre mariti in archivio ha il suo bel da fare anche con uno stuolo di figli acquisiti con le famiglie allargate. Ma sempre con quel pizzico di supponenza indisponente. Opinione mia personalissima, ovviamente, ma bisogna dire che si tratta comunque di un quadretto contrastato molto ben studiato ed anche efficace, bisogna riconoscerlo. A tutto onore di  Alicia Giménez-Bartlett che si è conquistata un posto d'onore nel panorama della letteratura poliziesca, non solo europea.

In questo episodio -Gli onori di casa- la vicenda si sposta anche in Italia, essendo coinvolto nelle indagini della polizia di Barcellona anche un killer della camorra napoletana in trasferta. Una volta tanto ci vengono risparmiate le solite caratterizzazioni "all'italiana" sia di malviventi che di poliziotti, mantenendo tutto su un piano di sobrietà. Per inciso, la Polizia italiana ci fa anche una discreta figura, il che non guasta affatto, una volta tanto.
Una considerazione sul libro in oggetto. Le indagini vertono sulla riapertura di un caso già chiuso di omicidio. Colpevoli individuati e condanne scontate. Tuttavia qualcosa che non quadra c'è ancora ed è per questo motivo che indagini supplementari vengono affidate all'ispettore Delicado e al suo team. Tra Spagna e Italia la vicenda si rivela abbastanza complessa avendo a che fare con reati valutari e traffici internazionali di riciclaggio di denaro sporco. Ma da sottotraccia rimane l'omicidio originale, quello di un ricco imprenditore, assassinato durante un "convegno amoroso" con una giovane prostituta. L'epilogo e relativo colpo di scena, che ovviamente non rivelerò, mi ha rimandato all'ultimo romanzo di Andrea Camilleri, Un covo di vipere, per analogie rilevanti relative all'ambiente familiare nel quale si sviluppa la storia. Sia il maestro Camilleri che l'iberica Giménez-Bartlett, hanno scelto di scavare a fondo l'ambiente più segreto della famiglia, la cellula base della nostra società (sia essa italiana che spagnola). Come dire che al di là dei grandi delitti anche con rilevanza internazionale, il male e le sue radici sono lì vicino a noi, dove forse non ci aspettiamo di trovarle (o non vorremmo trovarle...).