mercoledì 15 agosto 2012

Libri. Il senso di una fine, un piccolo grande libro

Il senso di una fine
di Julian Barnes


Ho scoperto assolutamente per caso Julian Barnes. Mai sentito nominare e mai letto nulla di suo. Eppure scopro che è un apprezzatissimo scrittore inglese e che con questo suo ultimo libro ha vinto il Booker prize, il più prestigioso dei premi letterari inglesi. Il che mi ha fatto immediatamente concludere quanto sconfinato sia il panorama letterario. Il caso può farci scoprire ottimi scrittori che ci sono sfuggiti e di cui non immaginavamo neppure l'esistenza, per quanto appassionati o informati o aggiornati riteniamo (presuntuosamente) di essere.
Questo piccolo libro (circa 150 pagine) è in realtà un grande libro. Se dovessimo dare un peso e una dimensione esteriore, potremmo dire che di pagine ne vale almeno il triplo, se non di più. Per la serie "un tanto al chilo", come spesso succede, non è la dimensione di un libro a dettarne la bellezza e l'intensità. Infiniti sono gli spunti di riflessione che Barnes suscita nei suoi lettori. Non c'è paragrafo o pagina che non meriti un approfondimento e una rilettura o una sottolineatura per meglio assimilare i concetti espressi così profondamente e mirabilmente. Tuttavia Il senso di una fine è un libro che è riuscito ad irritarmi, non per la sua scrittura (impeccabile), quanto per i personaggi che lo animano. Soprattutto nella prima parte, quando vi è la presentazione della fase giovanile, dell'amicizia di formazione e della nascita delle relazioni che nel prosieguo porteranno la vicenda al cuore della narrazione. L'ambiente è quello della buona middle class inglese, tutta formalismi, espressioni linguistiche ricercate ed elaborate, buone scuole e ottime letture. Le espressioni sono esattamente quelle che ci aspetteremmo di sentire intorno ad un tavolino da the, o affondati nelle accoglienti poltrone di pelle scura di un club esclusivo dove tutti si chiamano tra loro "vecchio mio...", sorseggiando un buon brandy di annata. Irritante, per i miei gusti. Specie perchè i protagonisti sono ragazzotti preuniversitari che sembrano scimmiottare il linguaggio e gli atteggiamenti degli adulti. Ma conosco poco o per niente il mondo british per essere certo che le mie sensazioni siano veritiere. Sono abituato e incline a pensare a dei ragazzi adolscenti in età liceale, parlare e comportarsi in maniera ben diversa. Più plebea, magari, ma più semplice, spontanea e immediata. Va bene che la vicenda iniziale si svolge negli anni '60 (altri tempi), ma ciononostante mi suona male, fino all'irritazione.
Invece tutto ha un senso nella seconda (e ultima) parte del libro quando il protagonista - al tempo presente- finisce il racconto preliminare degli anni giovanili e passa alla situazione contemporanea in tempo reale. Ed è un bagno di umiltà infinito; une vero bagno di sangue. Per la supponenza giovanile, per l'idea di primeggiare come obiettivo e stile di vita, per la pomposa superficialità dei rapporti umani rivisti con gli occhi del sessantenne. I quattro amici liceali di un tempo sono ormai anziani canuti o calvi e si sono persi di vista. Uno di loro, il più intelligente, il più brillante, il più carismatico, addirittura non c'è più. E' morto suicida ancor giovane. Nessuna sa bene il motivo di questo suo gesto, se non quanto si deduce da una lettera di spiegazioni molto dotte e filosofeggianti che in realtà non spiegano granchè e non hanno mai convinto del tutto nessuno.
Ma del vecchio amico, del resto della compagnia, della vecchia fiamma dell'epoca il nostro protagonista narrante non avrebbe probabilmente memoria alcuna se non fosse che riceve inaspettatamente in eredità il lascito di una piccola somma di denaro e un diario. Il lascito è della mamma della sua fidanzata di un tempo, mentre il diario è quello scritto dall'amico morto suicida.
Da qui, dalla ricerca dei motivi del lascito e il significato che possono assumere a distanza di oltre quarant'anni, nasce una ricerca interiore nel ripercorre i ricordi del tempo passato con gli occhi del sessantenne ormai disilluso, provato e per niente entusiasta della sua vita vissuta. Tutta l'alterigia giovanile, fatta di studi brillanti, di riflessioni filosoficamente tautologiche, di citazioni dotte, di ambizioni e di sogni, finiscono nel tritacarne del tempo che passa. Impietosamente. Come altrettanto impietosamente riemerge la figura della vecchia fidanzata depositaria del diario ricevuto in eredità, che ha a sua volta una sua storia drammatica che si intreccia a doppio filo con il protagonista. Ed è proprio la ricerca di questo comune filo conduttore che ci porta alla conclusione del libro e della vicenda.
Il senso di una fine è un gran bel libro. Non fatevelo sfuggire.

Nessun commento: