martedì 22 febbraio 2011

Film visti. Il nastro bianco

Il nastro bianco
Regia di Michael Haneke

con Susanne Lothar, Ulrich Tukur, Burghart Klaußner, Joseph Bierbichler.

[Voto: 3 su 5]

In questo periodo triste di forzata permanenza in casa mi manca molto la frequenza con il cinema, uno dei miei appunatmenti fissi settimanali. Forse i più attenti lettori del blog si saranno accorti della mancanza di recensioni recenti. In compenso mi cibo di massicce dosi di televisione che in questi casi è veramente provvidenziale per chi deve passare molto tempo a casa in quasi completa inattività. A patto di poter scegliere e non farsi sommergere dalla porcheria che ci viene offerta dalle tradizionali tv generaliste (Rai e Mediaset principalmente).
Se dico tv e dico cinema, non può che trattarsi di Sky Cinema. Ovviamente. Non  esiste un'altra offerta che possa competere, nemmeno nel settore delle pay tv minori.
In questi giorni è passato sugli schermi un film che mi era sfuggito al momento della sua uscita. Si tratta del film che ha vinto a Cannes nel 2009, per la regia dell'austriaco Michael Haneke. Un film d'autore (nel bene e nel male), con tutti i crismi per scomparire quasi immediatamente dal circuito commerciale del grande schermo. Come in effetti è stato a suo tempo. Per questo è una fortuna che sia finito su Sky, che accanto ad un buon 85% di robaccia di scarsissimo valore, riesce ad offrire una alternativa di qualità su uno dei suoi canali dedicati al cinema. Ribadisco il concetto: per fortuna!

Il nastro bianco è un film che lascia senza parole per la sua drammaticità, per la sua asciuttezza narrativa e per la storia che viene raccontata. E' girato in bianco e nero con una bellissima fotografia che riesce a trasmettere al tempo stesso la bellezza dei paesaggi della verde Germania e la tetra atmosfera della vicenda. Tanto è sfolgorante e luminosa nelle riprese in esterno, tanto è grigia e oppressiva nei passaggi più drammatici. L'ambientazione storica è fissata all'incirca negli anni 1910-1915, in prossimità dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando in apparenza il mondo era ancora vergine e non macchiato del sangue di milioni di morti. In apparenza. Perchè il senso del racconto portato sugli schermi da Haneke è che nelle pieghe del formalismo moralistico e bacchettone dell'epoca, sussiegoso delle istituzioni, della religione e della famiglia, si nascondono i germi di quella follia collettiva che covava sotto le ceneri, nelle rigide chiese protestanti, nei talami nuziali, nei rapporti umani tra persone che di lì a poco sarebbe sfociato nell'orribile piaga del nazismo. Ovvero, nulla nasce per caso e all'improvviso. Nessun bubbone scoppia da sè se prima non ha covato in silenzio e macerato a lungo la parte sana del corpo umano ad ogni livello. Ed ecco che allora Haneke ci mostra una società tedesca molto ossequiosa dei formalismi borghesi e religiosi, con famiglie rette su modelli rigidissimi nei rapporti genitori e figli, con le donne sottomesse e considerate a rango di comparse destinate al soddisfacimento dei bisogni maschili o -al più- a crescere la prole. Non sicuramente a dare ai figli un'educazione, perchè quello è un ruolo che spetta al "signor padre" che non esita a impartire punizioni pesantissime e manipolatrici della personalità dei figli. Per non parlare della chiesa protestante, dominante in Germania, che si fa portabandiera degli stessi modelli di rigidità inflessibile. Salvo poi, nel chiuso delle mura domestiche, nel silenzio delle camere da letto, dare libero sfogo ai propri istinti lussuriosi con chiunque capiti a tiro. Ma la facciata, luminosa e sfolgorante (come la fotografia del film rende alla perfezione) è salva.
In una società siffatta Haneke coglie i germi del nazismo che di lì a poco avrebbero infettato tutta la Germania. Il film utilizza lo strumento della voce fuori campo affidata al maestro del villaggio. E' il maestro dell'unica scuola e dell'unica classe, frequentata da tutti i bambini. Ed è proprio con i bambini come protagonisti protagonisti che il maestro narra i fatti di quegli anni. Lentamente, inesorabilmente, estenuantemente, attraverso un continuo succedersi di quadri a camera fissa, fatti di dialoghi ed eventi “rivelatori”, il regista mostra come in quel mondo non ci fosse quasi nulla che fosse riconducibile al calore umano. Ma non solo: concetti come disciplina, purezza ed educazione erano divenuti talmente ossessivi e ossessionanti da travalicare ogni limite logico nella loro applicazione; l’estrema severità di comportamenti e atteggiamenti nascondeva derive perverse e patologiche che trovano applicazione nelle violenze domestiche (fisiche o mentali) e soprattutto nel sopruso nei confronti dei più deboli: donne, bambini, handicappati. Esattamente quanto è successo durante il delirio nazista. Il trionfo della razza perfetta a discapito dei più deboli e dei diversi.
Il film si conclude con la dichiarazione di guerra dell'Austria in seguito all'attentato di Sarajevo del 1914 (spero di non sbagliare la data...). La storia a venire, purtroppo, è tragicamente conosciuta.
Il film è impegnativo, dura oltre due ore. E' bene armarsi in anticipo di pazienza e perseveranza per non desistere dalla visione anticipatamente. Sarebbe un peccato.

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