lunedì 31 dicembre 2012

Rita Levi Montalcini, "nemo propheta in patria"


Con il suo sorriso lieve e lo sguardo intenso se ne è andata una delle donne che - per rigore d'impegno civile e di dedizione alla ricerca e allo studio - rendono grande il nostro paese: Rita Levi Montalcini. Premio Nobel per la medicina, è deceduta ieri 30 dicembre a Roma. Aveva 103 anni.
 
Strano destino quello di Rita levi Montalcini. Grande scienziata, ricercatrice, premio Nobel per la medicina, apprezzata e stimata in tutto il mondo ha trovato proprio in Italia le maggiori resistenze al riconoscimento del suo genio. Perchè era un personaggio scomodo, sebbene semplicemente colpevole di avere delle idee e di non farne mistero, di non appiattirsi sul pensiero dominante del momento. E si sa che nel nostro paese, specie negli ultimi decenni, avere delle idee non agganciate al carrozzone politico di successo comporta automaticamente la ghettizzazione mediatica. Così è successo per la Montalcini, presa di mira dal centro destra perchè, in quanto senatrice a vita per nomina del Presidente della Repubblica Ciampi, esercitava il suo diritto di voto in parlamento. Le cronache riportano le offese e gli sberleffi a lei indirizzati dal fronte politicante di centro destra. Una delle tante vergogne della politica italiana dominante negli ultimi anni. Per quanto illustre, importante e geniale possa essere un personaggio che a livello internazionale porta lustro all'Italia e agli italiani, per certa politica è un nemico da abbattere sempre e comunque. Questa è (anche) l'Italia, purtroppo.

Rita Levi Montalcini era nata a Torino il 22 aprile 1909. Dopo aver studiato medicina all'universita' di Torino, all'età di 20 anni entra nella scuola medica dell'istologo Giuseppe Levi e inizia gli studi sul sistema nervoso che prosegue per tutta la sua vita, salvo alcune brevi interruzioni nel periodo della Seconda guerra mondiale. Si laurea nel 1936. Nel 1938, in quanto ebrea sefardita, fu costretta dalle leggi razziali del regime fascista a emigrare in Belgio con Levi, dove continua le sue ricerche in un laboratorio casalingo.
Nel 1951-1952 scopre il fattore di crescita nervoso noto come Ngf (Nerve Growth Factor), che gioca un ruolo essenziale nella crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche. Per circa 30 anni prosegue le ricerche su questa molecola proteica e sul suo meccanismo d'azione, per le quali nel 1986 viene insignita del Premio Nobel per la medicina insieme allo statunitense Stanley Cohen. Nella motivazione del riconoscimento si legge: «La scoperta del Ngf all'inizio degli anni '50 è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos. In precedenza, i neurobiologi non avevano idea di quali processi intervenissero nella corretta innervazione degli organi e tessuti dell'organismo». E forse il segreto della lucidità e vitalità fino all'ultimo giorno della sua scopritrice si celava proprio nel Ngf: la scienziata lo assunse tutti i giorni in forma di gocce oculari per problemi alla vista.
Rita Levi Montalcini è scomparsa. Una parte d'Italia piange la grande donna e la grande scenziata, un'altra parte tira un sospiro di sollievo per un personaggio non disponibile all'asservimento in meno. Nemo propheta in patria, dicevano i latini che la sapevano lunga....

sabato 29 dicembre 2012

Libri. Solar, uno stronzo geniale...

SOLAR
di Ian McEwan

La mia esperienza con Ian McEwan prima di ora si fermava ad uno splendido romanzo, Espiazione. Poi ho preso in mano questo Solar, penultimo della sua produzione, descritto come il più riuscito. Non condivido affatto (almeno avendo come unico punto di riferimento il citato Espiazione), perchè a dire tutta la verità, mi sono trascinato a forza per le quasi 350 pagine, sperando di arrivare presto alla fine. La storia narrata, anche in questo libro, si dipana nell'arco di parecchi anni e segue il protagonista con puntigliosa meticolosità, descrivendolo nelle sue sfaccettature di genio della fisica meritevole addirittura del Premio Nobel. Ma al di là della facciata ufficiale, l'uomo è tutt'altro che una persona da prendere ad esempio. Il professor Beard è paradossale, tanto grasso quanto antipatico, tanto inetto quanto fortunato, tanto approfittarore quanto codardo. Beard è è una schifezza di uomo quasi simbolico recettore di tutte le debolezze umane che portano a giudicare il prossimo come persona sgradevole da cui stare alla larga. Nell'addentrarsi nella vicenda si è, sì, spinti a prenderne le distanze, a deprecarlo, ad assumerlo come modello negativo, ma senza mai riuscire a spezzare le catene di una narrazione piatta e senza sussulti. Si verificano situazioni impreviste (mah...), colpi di scena (insomma...), ma nessuna di queste viene presentata con un sussulto narrativo che riesca a smuovere il lettore dal torpore della lettura.
Il romanzo si articola in tre fasi distinte della vita del laido professore: nel 2000, durante il fallimento del suo quinto matrimonio; nel 2005, quando scopre quasi sessantenne di essere in procinto di diventare padre per la prima (ed unica) volta; infine nel 2009, quando è sul punto di lanciarsi un'ambigua avventura ecologico-scientifica mirata a salvare il pianeta attraverso l'attuazione di progetto di energia alternativa basato sulla fotosintesi clorofilliana. In realtà il progetto è miseramente copiato da intuizioni di altri studiosi di cui l'insigne luminare si è appropriato indebitamente. Insomma un vero stronzo le cui malefatte non si fermano qui ma arrivano a ben di peggio. Ovviamente non è il caso di approfondire troppo i dettagli. Il finale della vicenda è repentino (si sviluppa in relativamente poche pagine) e non particolarmente sorprendente. Nel complesso anche troppo verboso lo sviluppo della vicenda con frequenti flash back, anche troppo particolareggiati, che finiscono con l'appesantire il tutto.
 
 

giovedì 27 dicembre 2012

C'è ladro e ladro...!

Due notizie a confronto. Tema comune: i ladri.
Ma c'è ladro e ladro. C'è chi ruba per fame e per necessità, chi invece per pura cupidigia e voglia di arricchirsi indebitamente. Ecco due storie diverse prese dai giornali di oggi, 27 dicembre 2012. Ognuno giudichi secondo coscienza.

Notizia n. 1

Disoccupata ruba al supermercato per
Disoccupata ruba al supermercato per sfamare i figli a Natale
Protagonista una badante moldava 42enne di Vigonza, rimasta senza lavoro e pizzicata dal personale di sorveglianza, il 24 dicembre scorso, a rubare 70 euro di alimenti all'Ipercoop di via Regia. In lacrime ha raccontato la sua disperata situazione

 27 dicembre 2012
Carne, sugo e pasta. Questi gli ingredienti per confezionare il pranzo di Natale da condividere in famiglia. Fino a qui una storia di ordinaria normalità, se non fosse che quelle confezioni di carne, pasta e le scatole di sugo sono state rubate da una madre disoccupata e disperata in un supermercato la vigilia di Natale per sfamare i figli.
IL FURTO. Ne dà notizia il Gazzettino di Padova di oggi. Il fatto è avvenuto poco prima della chiusura, il 24 dicembre, all'Ipercoop di via Regia a Vigonza. Protagonista una moldava di 42 anni, badante, ma da tempo senza lavoro e con due figli minori a carico. La donna, che aveva nascosto la refurtiva sotto il giubbotto, è stata sorpresa in flagrante dal personale di sorveglianza del supermercato.
LA DISPERAZIONE. Come da prassi, sono stati avvertiti i carabinieri che, identificata la ladra, incensurata, hanno raccolto il suo sfogo. Ha riferito in lacrime di essere arrivata a tanto per lo sconforto di non sapere cosa altrimenti dare da mangiare ai propri figli. Ora la 42enne rischia una denuncia per furto.
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Notizia n. 2
 
Fondi Lazio, concessi gli arresti domiciliari a Franco Fiorito
Il gip concede gli arresti domiciliari all'ex capogruppo del Pdl, rinchiuso a Regina Coeli dal 2 ottobre scorso con l'accusa di peculato. L'avvocato difensore Taormina: "Attendiamo serenamente il giudizio perché questa vicenda sia trattata come qualsiasi altro processo"

27 dicembre 2012
Fondi Lazio, concessi gli arresti domiciliari a Franco Fiorito
Arresti domiciliari per Franco Fiorito "er batman" che lascia il carcere di Regina Coeli dove era detenuto. L’ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio accusato di peculato per l’ammanco di oltre un milione e 300mila euro.
Un milione e 300mila euro, è la cifra ipotizzata dalla Procura di Roma. A tanto ammonta il maxisequestro di beni di Franco Fiorito, arrestato con l’accusa di peculato il 2 settembre, che corrisponde a quanto i pm sostengono che l’ex capogruppo abbia sottratto ai fondi del Pdl della Regione Lazio. Soldi finiti sui suoi conti correnti e da lui in parte “investiti” in beni immobili. Nel decreto con cui ha ordinato il sequestro preventivo dei beni, il gip Stefano Aprile ribadisce poi quanto già scritto nell’ordinanza sottolineando che “l’esposizione degli elementi probatori non lascia spazio a interpretazioni di sorta: Fiorito ha trasferito (ha ordinato di trasferire) a proprio favore, senza lecita causa, dal conto corrente del gruppo consiliare del Pdl, del quale era presidente, la complessiva somma di 1.357.418 euro″.
 

Le donne e il femminicidio, la versione di don Corsi

E' appena passato il Natale che, comunque la si pensi in tema di religione e di fede, è per antonomasia sinonimo di buoni sentimenti universali. Ma proprio per questo motivo risulta ancor più stridente e sgradevole la vicenda del prete di La Spezia che si è scagliato contro le donne che provocano pensieri lascivi negli uomini spingendoli a praticare la violenza contro di esse. Addirittura, se così non fosse, cioè se gli uomini non dovessero essere soggiogati da tali malcelate profferte sessuali, è solo perchè sono con tutta probabilità froci. Sembrano, sembrerebbero, discorsi degni del peggior bar sport di infimo livello, invece sono considerazioni che provengono dalla mente e dalla penna di un prete. Il che rende ancor più nauseante il senso dell'assurdo ragionamento. Insomma per farla breve, è colpa di certe donne dai costumi sfacciati e provocatori se poi gli uomini rompono i freni inibitori e passano alle vie di fatto usando loro violenza a sfondo sessuale. Eccola qui, papale papale, la tesi del prete spezzino che individua in un sol colpo cause, effetti e conseguenze di un fenomeno sociale e criminale che va sotto il nome di femminicidio. Perchè sprecare tempo e risorse intellettuali scomodando illustri sociologi e psicologi, criminologi, filosofi ecc. ecc. per fotografare il triste fenomeno della violenza sulle donne? Ci pensa in un sol battito di ciglia un anonimo prete di La Spezia che spiattella, urbi et orbi, la sua verità.
"Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?"

Il testo poi prosegue così: "L'analisi del fenomeno che i soliti tromboni di giornali e tv chiamano appunto femminicidio. Una stampa fanatica e deviata attribuisce all'uomo che non accetterebbe la separazione questa spinta alla violenza. Domandiamoci: Possibile che in un sol colpo gli uomini siano impazziti? Non lo crediamo. Il nodo sta nel fatto che le donne sempre più spesso provocano, cadono nell'arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni. Bambini abbandonati a loro stessi, case sporche, piatti in tavola freddi e da fast food, vestiti sudici. Dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva al delitto (forma di violenza da condannare e punire con fermezza) spesso le responsabilità sono condivise.
Quante volte vediamo ragazze e signore mature circolare per strada con vestiti provocanti e succinti? Quanti tradimenti si consumano sui luoghi di lavoro, nelle palestre e nei cinema? Potrebbero farne a meno. Costoro provocano gli istinti peggiori e poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo, roba da mascalzoni). Facciano un sano esame di coscienza: forse questo ce lo siamo cercate anche noi?".

Cosa dire di fronte a questa posizione che gronda retrivo maschilismo e sfacciata misoginia a piene mani? Siamo ancora in un ambito culturale in cui all'uomo-maschio viene concessa l'attenuante della provocazione se si lascia andare a reati di violenza a sfondo sessuale. La colpa non è sua, ma della donna che lo provoca. Non è la protervia di un pensiero che che attribuisce al maschio una superioità intellettuale e genetica tale da consentirgli di decidere della vita e della morte dei suoi simili di rango inferiore. Ma, attenzione, la forma è salva e la facciata diventa rispettabile allorquando nel volantino si definisce "roba da mascalzoni" la violenza sulle donne. Non è un reato ripugnante, un crimine schifoso, è una mascalzonata. Roba da sepolcri imbiancati. Non criminali, ma mascalzoni. Bricconcelli... meritereste una bacchettata sulle mani per ogni stupro che commettete per colpa della lascivia femminile!
Nauseante.

Ma è un prete impazzito e fellone a dare di matto o il fenomeno è di più vasta portata e gravità?
La lettera/volantino di don Piero Corsi affissa alla vigilia di Natale nella bacheca della parrocchia di San Terenzio non è in realtà un fenomeno isolato nell'area ecclesiale cattolica. Già, perchè in realtà il contenuto della lettera riprendeva i contenuti, già pubblicati il 21 dicembre, sul sito online della rivista integralista cattolica Pontifex che individuava nella “provocazione delle donne” l’origine della violenza maschile. Quindi è lecito pensare che il violantino spezzino sia probabilmente solo la punta di un iceberg di ben più vasta dimensione. Il parroco naturalmente è stato richiamato aspramente dal vescovo (e vorrei vedere il contrario...) e ha ritirato la lettera (forse, non è chiaro), ma non sembra aver cambiato di una virgola le sue convinzioni. Che evidentemente sono ben radicate in un certo settore della Chiesa. Nel febbraio del 2011 l'arcivescono di Foligno, Arduino Bertoldo, colpevolizzava la donna che se cammina “in modo sensuale e provocatorio qualche responsabilità nell’evento ce l’ha, perché anche indurre in tentazione è peccato”.
Siamo nel 21° secolo, l’Onu ha condannato la violenza sulle donne come crimine e grave violazione dei diritti umani. Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla violenza alle donne, sono stati raccolti dati, denunciato il fenomeno, ma certa parte della Chiesa cattolica sembra tuttora pervasa da uno strisciante oscurantismo di stampo medievale che alimenta pregiudizi misogini e sessuofobici. Sul tema leggevo in questi giorni delle interessanti considerazioni che spaziano nel vasto terreno della psicanalisi alla ricerca di un perchè a questi atteggiamenti così retrivi. La tesi, molto interessante, sarebbe che il senso di tale giustificazione nella provocazione da parte delle donne andrebbe ricercata in un meccanismo di difesa da contenuti inconsci che sentiamo inaccettabili e che attribuiamo ad altri: agli alieni, al demonio, alle donne, agli immigrati, ai “neri”, agli omosessuali e talvolta purtroppo persino ai bambini o alle bambine. Insomma, non sono io, maschio degenere e scellerato, che ho una mentalità deviata e sessualmente prevaricatrice, ma è colpa loro che sono donne. Il che fa il paio con una barzelletta che sentivo girare ancora ai tempi della scuola: non sono io che sono razzista, sono loro che sono negri"! Verrebbe quasi da ridere se non ci fosse soltanto da piangere.

giovedì 20 dicembre 2012

21/12/2012. Evviva Kazzenger...!

Fra poche ore secondo i sommi jettatori Maya il mondo finirà. A mezzanotte saremo nel ventunesimo giorno del dodicesimo mese del 2012 e ....puff. Niente più mondo, niente più genere umano.

Se ne sono dette tante su questo giorno che ormai si può considerare come il trionfo dei Kazzenger di tutto l'universo. Meglio buttarla in ridere.
Propongo una barzelletina (ambientata in Veneto, la mia regione):
Tre amici veneti si trovano a chiacchierare e la conversazione cade sulla profezia dei Maya e su come salvarsi la vita. Il primo: io ho prenotato un Jumbo jet e per tutto il giorno volerò a 10.000 metri di quota. Qualunque cosa succeda sulla Terra io sarò al sicuro lassù. Il secondo: io invece ho fatto costruire sotto la mia villa sui colli Euganei un bunker antiatomico dove potrò stare al riparo per almeno sei mesi. Qualunque cosa succeda sulla Terra io sarò al sicuro laggù trenta metri sottoterra. Il terzo, notoriamento un po' avaro, sfoggia la sua soluzione: io invece me ne vado a Rovigo. A Rovigooo? -chiedono meravigliati gli amici- Sì, a Rovigo, perchè lì sono sempre indietro di dieci anni.... mi salvo di sicuro!

E per finire con una grassa risata alla faccia dei Maya (anche se in questo caso non c'entrano niente):

...con i finestrini chiusi ovviamente!
 

sabato 8 dicembre 2012

Il Lohengrin di Wagner alla Scala

Come ogni 7 dicembre, per me è un appuntamento irrinunciabile, specie da quando la prima della Scala viene trasmessa in diretta da Rai 5. L'ho detto già altre volte, è una scelta meritevole e degna del massimo risalto. Quest'anno è stata una vigilia tormentata e innevata per il capolavoro di Wagner. A cominciare dalle polemiche per la scelta dell'opera  in favore del più classico e tradizionale Verdi. Polemiche sciocche a mio avviso. Se c'è qualcosa di universale è propririo la musica in tutte le sue espressioni, opera lirica compresa. Tirar fuori polemiche su Verdi piuttosto che Wagner mi sembra proprio di una futilità assoluta. Ma tant'è di polemiche oggi si vive.
Intanto c'è stato il colpo di scena iniziale. L'influenza tiene lontano dal palcoscenico la soprano titolare del ruolo di Elsa, Anja Harteros, sia la sua "riserva" Ann Petersen, che avrebbe dovuto sostituirla. La nuova protagonista, Annette Dasch, è arrivata in tutta fretta a Milano in piena notte senza poter provare nulla se non frettolosamente e utilizzando addirittura degli abiti di scena non suoi. Tuttavia ha incantato il pubblico della Scala.  Ho fatto il tifo per lei. Ci vogliono palle per affrontare una prima alla Scala senza preavviso e senza prove. Complimenti.

Wagner non mi entusiasma, anzi a dirla tutta, lo trovo noioso e ed eccessivo. Non mi prende, non mi acchiappa. Sicuramente per limiti miei e per la mia incultura musicale, me ne rendo conto. Ma è stato difficile arrivare alla fine delle oltre 5 ore di rappresentazione. Oltretutto anche il libretto ci mette del suo con tutti quei richiami continui alla purezza. Del regno di Brabante, degli uomini nobili e probi, di Elsa, di Lohengrin stesso. Quando sento un tedesco parlare troppo insitentemente di purezza, mi vengono sempre i brividi per la schiena... Tuttavia devo riconoscere che è stato uno spettacolo all'altezza della Scala con gli assi nella manica rappresentati dagli interpreti, dal maestro Baremboin, dal coro. Unico neo, la scelta registica di Claus Guthdi di ambientare la vicenda nell'800. Proprio sbagliata. Come si fa a collocare nel XIX secolo una storia di quasi mille anni prima, fatta di dei, di eroi semidei, di uomini trasformati in cigni, di Graal e compagnia mitica cantante? No, davvero, proprio non ci siamo.
Del resto la mia diffidenza verso Richard Wagner è in buona compagnia:
"Non posso ascoltare molto Wagner. Mi fa venire voglia di invadere la Polonia.".
"Devo acquistare tutti i dischi di Wagner. E anche una motosega".
                                                                                                    Woody Allen
 
 Annette Dasch (soprano) e Jonas Kaufmann (tenore),
 protagonisti di Lohengrin
La parte del leone l'ha fatta la musica di questa opera romantica; quelli che ne capiscono dicono che è la più 'italiana' fra quelle del compositore tedesco, qualunque cosa voglia dire.... Grandi applausi a Barenboim e all'orchestra scaligera, come ho detto, ma anche tanti consensi al formidabile coro della Scala, protagonista al pari dei personaggi in scena. Mi sono commosso al termine dello spettacolo, quando il coro e l'orchestra hanno attaccato con impeto improvviso l'Inno di Mameli che ha entusiasmato l'intera sala con tutti gli spettatori in piedi a cantare. A proposito dell'inno, il protocollo prevede che l'esecuzione sia obbligatoria solo se c'è il presidente della Repubblica o un presidente straniero. Forse per questo motivo, in assenza di Napolitano, l'esecuzione è stata posticipata alla fine. Ed è stato anche più emozionante con gli applausi scroscianti per i cantanti tutti schierati in scena, piuttosto che all'inizio della serata con l'atmosfera ancora fredda e molto formale.
 

martedì 4 dicembre 2012

Un esempio dal rugby, sport di valori educativi

Il rugby. Il mio sport. Lo sport che amo. Perchè è uno sport di valori e di rispetto per gli avversari. Perchè consente a tutti di andare a vedere una partita senza timore degli avversari, di considerarli degli amici e non dei nemici da combattere. Perchè educa al rispetto reciproco e dunque all'amicizia.

Un esempio? Eccolo. Un'iniziativa rivolta ai genitori dei ragazzini che giocano a rugby. Perchè non si facciano coinvolgere in tifo esasperato scimmiottando cattivi esempi portati da altri sport. Perchè rispettino i propri figli non fecendone dei "mostri" cresciuti con il mito della vittoria a tutti i costi.

Roberto Rapetti e Matteo Farsura (ex giocatore del Petrarca Padova, ora allenatore delle categorie giovanili) hanno pensato a questo volantino per i tanti genitori che hanno i figli che giocano a Rugby; magari non hanno mai giocato e questo strumento può essere utile per ricordare loro lo spirito di questo favoloso sport. E’ disponibile una discreta quantità, se qualche genitore che condivide quanto esposto nel volantino o qualche società fossero interessati a distribuirli e a diffonderli si mettano in contatto con loro!

Matteo Farsura è rintracciabile sulla sua pagina facebook http://www.facebook.com/#!/matteo.farsura
Idem per Roberto Rapetti http://www.facebook.com/#!/roberto.rapetti.3

Naturalmente, questi consigli per i genitori dei mini rugbysti vanno benissimo per qualunque sport. Sono lo spirito dell'iniziativa e i valori educativi che sono universali.

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sabato 1 dicembre 2012

Libri. Il corpo umano, comunque dilaniato

Il corpo umano
di Paolo Giordano



Cinque anni fa esordiva con La solitudine dei numeri primi, conquistando immediatamente i favori del pubblico e della critica e aggiudicandosi il Premio Strega 2008. Paolo Giordano è tornato con il suo secondo lavoro, Il corpo umano, un romanzo ambientato tra i soldati impegnati in Afghanistan.
Si legge facilmente, lo scrivere è scorrevole, accattivante, diretto. In breve i personaggi diventano familiari e si imparano a conoscere.
Tutto bene dunque? No, non del tutto. Perchè questo libro, come il primo "dei numeri primi", che onestamente non si può non definire un bel libro, mi ha lasciato sostanzialmente freddino. Paolo Giordano non mi acchiappa, non mi entusiasma. Non è riuscito a coinvolgermi fino in fondo nonostante il tema scottante e struggente affrontato nel libro. Se vogliamo dirla in altro modo, nelle pause della lettura non sono riuscito a sentire nostalgia dei personaggi, come invece mi succede per altri autori. Per me è una efficace ed affidabile cartina tornasole nella valutazione di un libro.
Brevemente, la trama. I protagonisti sono militari, truppa, sottufficiali e ufficiali del contingente italiano inviato in zona di operazioni in una delle zone più pericolose al mondo: l'Afghanistan. Un miscuglio di varia umanità passata al frullatore della vita. Quella privata, con storie personali in parte lasciate in patria e in parte portate in zona di operazioni; quella tipicamente militaresca di soldati che vivono una fetta della loro vita in un campo militare in una terra sconosciuta, impegnati in una missione di pace con una popolazione in gran parte ostile. Missione di pace? Bella domanda. Una pace mascherata da guerra o, se volete, una guerra mascherata da pace. Più giusta la seconda, con un fulminante riferimento in un passo del libro alle caramelle distribuite dai soldati ai bambini, quasi fosse una sorta di spot pubblicitario per farsi benvolere dalla popolazione locale.
È un plotone di giovani ragazzi quello comandato dal maresciallo Antonio René. L’ultimo arrivato, il caporalmaggiore Roberto Ietri, ha appena vent’anni e si sente inesperto in tutto. Per lui, come per molti altri, la missione in Afghanistan è la prima grande prova della vita.
Al momento di partire, i protagonisti non sanno ancora che il luogo nel quale verranno destinati è uno dei più pericolosi di tutta l’area del conflitto: la Forward Operating Base (fob) Ice, nel distretto del Gulistan, “un recinto di sabbia esposto alle avversità”, dove non c’è niente, soltanto polvere, dove la luce del giorno è così forte da provocare la congiuntivite e la notte non si possono accendere le luci per non attirare i colpi di mortaio.
Ad attenderli laggiù, c’è il tenente medico Alessandro Egitto. Finito il suo periodo di missione ha scelto di rimanere in Afghanistan, all’interno di quella precaria “bolla di sicurezza”, di sua volontà, per sfuggire a una situazione privata che considera più pericolosa della guerra combattuta con le armi da fuoco.
Quella dentro la fob è una vita che non conoscono, ma che imparano ad affrontare e a sopportare, tra difficoltà ambientali e malattie, tra colpi di artiglieria che fischiano all'improvviso e le amicizie da caserma, fatte spesso di soprusi e di contrasti tra commilitoni. Ma soprattutto hanno a che fare con la nostalgia e la mancanza di affetti e di riferimenti familiari. Cercano distrazioni di ogni tipo e si lasciano andare a pericolosi scherzi camerateschi che rasentano, se non lo sono del tutto, becere espressioni di nonnismo vecchio stampo. E poi arriva la notte quando, sdraiati sulle brande o collegati via web con casa, vengono sorpresi dai ricordi. Nel silenzio assoluto della natura e del nulla che li circonda, ma che è anche il silenzio della civiltà da cui provengono, riescono ad ascoltarsi dentro, a sentire la pulsazione del proprio cuore, l’attività incessante del corpo umano.
C'è anche tra loro chi si è lasciato alle spalle situazioni difficili o irrisolte. E la lontananza diventa anche occasione di riflessione, di pausa, di interruzione dei rapporti stringenti con cui avevano a che fare a casa. Che non è sempre una cosa deprecabile.
Ma poi succede quello che tutti segretamente temevano. La chiamata all'azione, quella vera, con le armi e le pallottole che fischiano. Con i pattugliamenti sul territorio e le bombe che uccidono. L’occasione in cui saranno costretti ad addentrarsi in territorio nemico sarà anche quella in cui ognuno, all’improvviso, dovrà fare i conti la propria coscienza e con ciò che ha lasciato in sospeso in Italia. E per molti sarà una missione senza ritorno. Il maresciallo René, il tenente Egitto, e gli altri sopravvissuti ne usciranno segnati per la vita, anche se il destino ha loro salvato la vita stessa.

Per essere l'Italia un paese che nella sua Costituzione ripudia la guerra, questo romanzo che parla invece proprio di guerra combattuta da soldati italiani suona in maniera straniante. Dirompente anzi, tale da mettere il lettore con le spalle al muro, qualora abbia cercato di non sapere e non vedere che c'è una guerra combattuta da soldati italiani in quell'angolo del mondo. Quanti sono i militari italiani caduti in Afghanistan dall'inizio della "missione di pace"? Ho perso il conto. Una trentina? Di più, probabilmente. Ormai i media ne parlano solo quando qualcuno salta su una mina. Questo è il primo libro, di cui ho conoscenza e che ho letto, che tratta di questo argomento. Onore al merito. Lo affronta da dentro, con gli occhi dei protagonisti. Non si limita a descrizioni esterne e superficiali. Paolo Giordano in Afghanistan c'è stato. Il libro è frutto di un viaggio che l'autore ha compiuto assieme ai militari italiani nel dicembre 2010, con l'idea iniziale di farne un reportage. Ma la visita alla fob “Ice”, un avamposto particolarmente isolato nel distretto del Gulistan, nel sud del paese, incontrando dei coetanei alla soglia dei trent’anni, ha fatto scattare in lui lo spunto e lo stimolo di scriverne in un romanzo che parla di corpi umani, comunque dilaniati dalla guerra o dalla vita.