giovedì 17 marzo 2011

Libri. Vita di Eugenia (o di Daria?)

Un karma pesante
di Daria Bignardi

Eugenia ha un karma pesante. E' una persona difficile, non malleabile. Con un carattere forte, che ama il "tutto o niente", senza mezze misure, senza remore. Forse.
Eugenia è una regista di successo, ha vinto parecchi premi e ha ricevuto parecchi riconoscimenti per il suo lavoro. Una persona di successo è appagata, realizzata, in pace con se stessa perchè è riuscita nel proprio lavoro, perchè ha realizzato i suoi sogni, perchè fa qualcosa che le piace per scelta e non per obbligo? Forse.
Eugenia ha avuto una vita tormentata e dolorosa. Ha perso affetti familiari, ha avuto un aborto, è finita sotto un tram, ha amato, è stata riamata, è diventata madre. Ma la costante di tutta la sua vita è il dolore. Forse perchè incontentabile, mai soddisfatta, troppo "giusta", troppo "sbagliata". Troppo di tutto. Troppo intellettuale, troppo auto sottovaluata, ma anche troppo auto sopravvalutata. Insomma un karma pesante a tutto tondo. Un po' rompicoglioni, poco indulgente con gli altri e con se stessa, troppo snob ma anche troppo alla mano. Insomma un tipaccio interessante. Da scriverci un libro.

Il "Karma" è il secondo libro di Daria Bignardi, giornalista e scrittrice di buon talento, donna interessante nell'aspetto e nella sostanza. La si può vedere all'opera ogni venerdi sera su La7 nel programma Interviste barbariche, proprio nel ruolo di conduttrice e intervistatrice. Mi piace Daria Bignardi e siccome mi piace, le perdono anche di aver condotto la prima o le prime edizioni di quel circo urlante e volgare che è il Grande fratello, modello principe del ciarpame televisivo che ci affligge. La perdono perchè quella prima edizione l'ho vista anch'io per la novità che rappresentava, il reality show. Era molto meno circo di oggi, quasi ingenuo rispetto ai grandi fratelli coatti e barbari che imperversano attualmente, quasi vero, quasi credibile.
Il Karma è forse il libro che mi piacerebbe aver scritto io, perchè parla di persone e di sentimenti. Di emozioni e di esperienze di vita personali nel perimetro degli amici e della famiglia. Oltretutto è parzialmente ambientato a Padova e nel Veneto. Sprazzi di provincia intercalati con vicende che si svolgono tra Milano e New York. Eugenia è una che gira molto. Padova c'entra poco o niente, ma è un punto di ulteriore affezione. Peccato però che il racconto sia un po' caotico nell'esposizione, con stacchi su diversi momenti, in diverse situazioni e in diversi tempi. Si salta dalle esperienze giovanili a quelle di mezza età, dalla fase della costruzione di una vita e di una carriera quando si decide cosa fare da grandi (o ci si illude di poterlo decidere) a quando grandi lo si è già e si comincia a guardarsi indietro. Ci sono forse troppi personaggi che entrano ed escono dalla narrazione con un po' di confusione, costringendo il lettore a rincorse a volte affannose per ricordare chi siano e da dove saltino fuori. Ma è un libro sincero. Al punto che giurerei che possa essere autobiografico, in tutto o in parte, e che Eugenia sia in realtà Daria. Mi piace pensarlo perchè alla fine ci si affeziona a Eugenia. O è Daria che m'attizza con quella sua aria da ragazza per bene che la sa lunga? Una bronsa coerta, si direbbe qui a Padova.

Centrali nucleari sicure?


L'esplosione nella centrale di Fukushima
In questi giorni le tragiche vicende giapponesi hanno innescato una discussione sul nucleare in Italia. Mentre in tutto il mondo i governi hanno prudenzialmente tirato il freno a mano, bloccato ogni iniziativa e ordinato immediati controlli degli impianti, i nostri governanti hanno esibito una notevole disinvoltura affermando che in Italia il programma nucleare andrà avanti. Ineffabili e impermeabili a tutto, pur di portare avanti il progetto che evidentemente è visto come affidabile e sicuro (e soprattutto vantaggioso) nonostante tutto. Ciechi, sordi e muti? Attratti da chiemere di gloria e successo politico (e magari non solo politico...)? Stupidamente ottusi? Oppure esiste davvero il nucleare sicuro e i nostri governanti hanno ragione ad essere fiduciosi e ottimisti? Esistono davvero le centrali nucleari che garantiscono la sicurezza al 100%, anche ipotizzando catastrofiche condizioni ambientali? Penso a un terremoto (l'Italia è un paese a forte rischio sismico) a inondazioni (l'Italia è un paese dove 12 ore di pioggia sono sufficienti a fare esondare fiumi e torrenti, a frane e smottamenti, ma anche -perchè no- ad attentati terroristici (un 11 settembre è sempre possibile).
Partendo da queste premesse esiste davvero la centrale sicura? Si parla tanto di centrali di terza generazione, quindi moderne e aggiornate ai più recenti criteri di sicurezza. Ma l'esempio del Giappone ci insegna che se anche la struttura della centrale può resistere ad un terremoto devastante (posto che sia costruita realmente seguendo le regole), basta che un banale generatore di corrente vada fuori uso per innescare un processo catastrofico e mortale. Proprio così: a Fukushima le centrali hanno retto al sisma, ma tutto quello che è successo dopo è stato causato dal mancato funzionamento delle pompe di raffreddamento delle barre di uranio. Da lì è nato il surriscaldamento che ha portato alle esplosioni a ripetizione e alla fuoriuscita di materiali radioattivi che hanno contaminato la popolazione e il territorio nel raggio di centinaia di km. E inoltre una centrale non è eterna ed ha una sua vita e una sua durata. Fra una ventina d'anni le centrali cosiddette sicure di terza generazione non saranno più tanto sicure perchè obsolete. Dunque il problema della supposta e asserita sicurezza è solo temporaneo. E dopo? A Fukushima il disastro atomico è scoppiato in una centrale costruita neglia anni 60. Quindi a distanza di cinquant'anni dovrebbe essere lecito e logico ipotizzare che sia da considerare obsoleta. Manutenzioni, controlli e verifiche di ogni tipo saranno anche stati effettuati (il Giappone passa per essere una nazione rigorosa e tecnologicamente affidabile), ma il risultato è sotto gli occhi di tutti. Cosa altro deve succedere per incrinare il mito delle centrali sicure, quando basta un corto circuito per far saltare tutto in aria? Un incidente del genere, oltre ad uccidere in tempi brevi migliaia o centinaia di migliaia di persone, ha poi una coda di tumori e leucemie che si trascina per generazioni e decenni. Vale la pena di rischiare un'apocalisse del genere che può coinvolgere i figli dei nostri figli?

Altro aspetto sconcertante. Il governo Berlusconi annuncia di continuare nel programma nucleare. Nel 2015 si dovrebbe cominciare la costruzione della prima centrale italiana. Ok. Dove? In quale sito verrà costruita? I primi no si sono già fatti sentire. Il governo proprio ieri ha asserito che le centrali verranno costruite solo nelle regioni che acconsentiranno. Vogliamo scommettere che ci sarà un clamoroso rimpallo di rifiuti? Chi o quale regione deciderà di avere una centrale nucleare confinante col giardino di casa propria? Perchè a parole si può anche credere o far credere che esista il nucleare sicuro, ma voglio vedere chi accetterà di costruirlo nel proprio territorio. Soprattutto in un paese come il nostro che ha sterminati territori desertici e quasi privi di popolazione.....
L'Italia è un paese in cui non si riesce a smaltire la "mondezza" di Napoli, come pensare di riuscire a gestire il rischio nucleare? Per non parlare dell'assalto delle varie mafie e camorre agli appalti per la costruzione delle centrali e relative mazzette ai corrotti. Ma chi vogliamo prendere in giro?

domenica 13 marzo 2011

All'inseguimento della stella di Strindberg

La stella di Strindberg
di Jan Wallentin

Una croce ansata, una stella, un metallo sconosciuto, strane iscrizioni in una lingua misteriosa, un viaggio in pallone sui ghiacci del Polo, degli omicidi insoluti e un ritrovamento di reperti in un pozzo in fondo ad una miniera abbandonata. Questi gli elementi di avvio del libro di Wallentin, autore svedese pomposamente paragonato ora a Stieg Larsson (Millennium)ora a Dan Brown (Il codice Da Vinci). Credo che il tutto vada ridimensionato, e non di poco. 
La stella di Strindberg è essenzialmente un romanzo d'avventure più che qualsiasi altra cosa. Da quanti anni o decenni non leggevo niente del genere? Un'enormità, e devo dire che non mi è affatto dispiaciuto farlo, perchè mi ha rispedito indietro nel tempo e dio sa quanto fa bene farlo ogni tanto e ritornare un po' bambini, capaci di rimanere a bocca aperta davanti ad un racconto.
 
Questo libro, bisogna dirlo chiaramente, ha però più ombre che luci, specie nell'epilogo che è totalmente assurdo e includente, raffazzonato e poco credibile, quasi da far sorgere il fondato dubbio che l'autore non sapesse come uscirne per arrivare alla fine. Le cose buone del libro sono tutte prima dell'epilogo nel momento in cui la narrazione si stacca dalle avventure dei protagonisti in senso stretto gettando uno sguardo sulla storia europea delle prime due Guerre mondiali. Ecco allora che la qualità cresce e diventa interessante quando ha agganci e riferimenti storici concreti, l'esatto contrario di quando Jan Wallentin lavora di pura fantasia. Conseguentemente, il giudizio complessivo non può essere sufficiente. Particolarmente irritante la figura del protagonista Don Titelman che si impasticca di farmaci anfetaminici per tutto il libro e cita frasi in lingua Yiddish ad ogni piè sospinto. Insopportabile. E se il protagonista risulta istintivamente e visceralmente antipatico è pressochè inevitabile che il libro (di avventure) segua lo stesso destino.

sabato 12 marzo 2011

L'Apocalisse in Giappone e il nucleare italiano

L'Apocalisse. A distanza di un paio di settimane da quello di Christchurch in Nuova Zelanda, un altro terremoto nell'area asiatica. Ancora più devastante, questa volta in Giappone. Ma i danni principali e le morti a migliaia non sono venuti direttamente dalle scosse sismiche che pure sono state misurate al grado 8,9 della scala Richter, ma dall tsunami successivo che si è abbattuto sulle coste orientali. Radio e tv di tutto il mondo stanno diffondendo immagini terrificanti di devastazione. Tanto che sembra di vedere scene di un film apocalittico come ce ne sono decine in circolazione. Ma si tratta del mondo reale, non di quello digitale degli effetti speciali cinematografici. La morte è reale, la distruzione è reale. Come è un dato reale che una centrale atomica è stata danneggiata gravemente con conseguente evacuazione di migliaia di cittadini nelle zone circostanti. E questa mattina -sabato- circolano in tv anche le immagini di una esplosione che ha polverizzato un settore della centrale.
Tutto questo nel paese più attrezzato al mondo per prevenire e limitare i danni di un terremoto. Con tutta l'efficienza e la tecnologia dei giapponesi che ne fanno quasi una religione e uno scopo di vita.
http://www.youtube.com/watch?v=pHHQXW7VSMw
Ma in Italia da qualche anno ci sarebbe qualcuno, Berlusconi in testa, che vorrebbe riaprire al nucleare. Anzi non si tratta di una intenzione, ma di una decisione del governo già presa. L'Italia, il paese dove basta qualche giorno di piogge intense o che un fiume straripi per mettere in ginocchio un'intera regione. Altro che tsunami devastante, in confronto basta una fogna che tracima per mettere in crisi l'Italia. Proprio qui vorremmo rimetterci a costruire centrali nucleari? Con la nostra situazione idro-geologica e un rischio tellurico in ogni regione dello stivale? Proprio nel nostro paese del magna-magna dove troppo spesso le mafie e gli avvoltoi degli affari lucrano su tutto pur di portare a casa guadagni facili e mazzette? Proprio qui in Italia dove gli edifici sono fatti al risparmio sul cemento e le strutture antisismiche sono una novità degli ultimi anni? La recente storia de L'Aquila non ha insegnato niente?
Tornare al nucleare è la follia assoluta per il nostro paese, ancor più che per gli altri nel mondo dove vige una legalità maggiore e controlli più assidui e una classe politica più affidabile e più onesta. Un vero suicidio per noi e per le generazioni future.

domenica 6 marzo 2011

Film visti. Il cigno nero

Il cigno nero

Regia: Darren Aronofsky; con: Natalie Portman, Mila Kunis, Winona Ryder, Vincent Cassel, Barbara Hershey
Natalie Portman Premio Oscar 2011 Miglior Attrice


Voto: 4 su 5

Devo sforzarmi di non esagerare con i superlativi. Bellissimo il film, bravissima e bellissima la protagonista Natalie Portman, molto convincenti e in ruolo i coprotagonisti ben diretti dal regista, bellissima la colonna sonora (Lago dei cigni di Pyotr Ilyich Tchaikovsky), coinvolgente e ammaliante l'atmosfera magica del balletto come lo rapppresenta Aronofsky. Potrei probabilmente fermarmi qui, cosa dire di più per sottolineare le qualità de Il cigno nero? Ma qualcosa vale la pena di aggiungere. Solo per la cronaca, Il cigno nero mi è stato fortemente consigliato da mia figlia che manifesta sempre più una bella passione per il cinema. E' uno dei miei punti di orgoglio sia come cinefilo che come padre. Da qualcuno avrà pur preso, no?


Cominciamo dal regista, Darren Aronofsky. All'inizio mi diceva qualcosa, mi ricordava qualcosa, ma non riuscivo a focalizzare bene cosa. Poi, leggendo il suo curriculum, è saltato fuori che è anche il regista di The Wrestler, altro gran bel film di un paio di stagioni fa, protagonista il redivivo e in stato di grazia Mickey Rourke. In comune con The wrestler a ben vedere qualcosa c'è anche nel Cigno. Entrambi i protagonisti sono ad un punto di svolta della loro vita. A fine carriera e a pezzi il campione di wrestling Rourke, abbruttito e devastato da anni di lotte sul ring, con il cuore diviso e spezzato tra una ragazza di vita con cui amoreggia saltuariamente e la figlia che sembra averlo rinnegato e dimenticato come padre (ma la cosa è vicendevole, sia pure da punti di vista opposti). Dall'altra parte abbiamo l'eleganza, la leggiadria e la bellezza di Nina, ballerina classica in ascesa cui si aprono le porte del successo quando ottiene il ruolo principale nel Lago dei cigni. Un punto di svolta anche per lei, dunque. Ma anche per la leggiadra Nina la vita non è facile, nonostante le atmosfere rarefatte ed eleganti in cui è immersa. Deve fare i conti (e li fa da sempre) con una mamma oppressiva e castrante che proietta sulla figlia ciò che lei non ha potuto o saputo essere nella danza. Una mamma-sergente di ferro che la plagia e la mette sotto una campana di vetro indirizzando la sua vita in unica direzione: la danza e il successo. Risultato: un'esistenza irregimentata tra scarpette da ballo e diete ferree, con una evidente e paurosa carenza di autostima e di vita sociale, sacrificata alle prove e alla carriera fin da bambina.
Ma arriva l'occasione della vita, quando l'étoile del New York City Ballet  abbandona più o meno volontariamente il palcoscenico per raggiunti limiti di età. C'è bisogno di volti nuovi e freschi per il ruolo del cigno. Un ruolo particolarmente difficile e impegnativo, non solo per le doti tecniche di ballo, ma per la parte interpretativa che si sdoppia tra cigno bianco e cigno nero, due personaggi da interpretare da parte della stessa ballerina. Eterea e piena di grazia, Nina incarna alla perfezione il candore del cigno bianco e con difficoltà il suo doppio nero e tenebroso, per il quale sono rischieste espressive doti di sensualità. Parte così una competizione difficile tra le pretendenti che aggiunge stress e tensione in Nina, oltre a quelli che già era chiamata a sopportare e gestire. Ma lo spettacolo ha le sue regole, molto esigenti e di dedizione assoluta, che possono portare le protagoniste a gravi conseguenze, ancor più se giovani e spesso inesperte del mondo e della vita. Succede così che la competizione con un'altra ballerina molto smaliziata e scaltra crei gravi conseguenze in Nina, nonostante -quasi a sorpresa- sia proprio lei la prescelta. La vicenda continua, drammaticamente appassionante, ma io mi fermo qui.
Darren Aronofsky mette in scena, in Black Swan come per The Wrestler, una storia in cui si intrecciano corpi e anime, lo sportivo e la ballerina, con un cocktail devastante che contiene tutto il dramma di due vite. I due finali sono tragicamente diversi. A voi la visione.

 

martedì 1 marzo 2011

Morire per l'Afghanistan

Un altro militare italiano è morto in Afghanistan.  La vittima è il tenente Massimo Ranzani, originario della provincia di Rovigo. Credo che sia il 37.mo dall'inizio della missione, una triste contabilità di morte. A ciò si aggiunga che ci sono anche quattro feriti gravi in seguito all'esplosione della mina che ha sventrato il mezzo blindato dell'autocolonna.
Quella in Afghanistan nella considerazione ufficiale dei protocolli e della diplomazia doveva essere una missione militare umanitaria, di pace. Si è rivelata ben presto di guerra vera, cruda e sanguinosa,  nella realtà dei fatti.
Ma si può perdere la vita o dare la propria vita per l'Afghanistan? I trentasette italiani morti in quel lontano paese davvero avevano coscienza di quanto stavano facendo e davvero consideravano la propria vita spendibile per un paese straniero?
In questi giorni, in questi mesi, infuria la polemica sulle celebrazioni per il 150.mo dell'Unità d'Italia. C'è chi, nell'Italia di oggi, anno 2011, si rifiuta di rendere il dovuto omaggio a coloro che un secolo e mezzo fa immolarono la propria giovane vita per fare l'Italia, ovvero per aggregare sotto un unica bandiera un territorio e soprattutto un popolo fino ad allora diviso e perciò debole, costantemente alla mercè di conquistatori e invasori di ogni sorta. Un'unità prima di tutto umana e culturale e poi politica e geografica. Per ideali del genere si poteva dare la propria vita? Certamente sì e sono migliaia e migliaia i giovani italiani che lo hanno fatto. Ma si trattava del proprio paese, della propria patria allora nascente. Del diritto a una identità nazionale non più asservita e divisa. Perdere la vita per l'Afghanistan o per qualsiasi altro paese straniero per tutelare in massima parte interessi economici e politici sotto il manto protettivo dell'intervento umanitario e portatore di legalità e democrazia e dura, molto dura. Chissà se i nostri militari mandati a combattere e a morire o a restare feriti e mutilati se ne rendono conto e sono consapevoli dei veri motivi della missione. Sì certo, una volta sul posto,  il contingente italiano non lesina a distribuire aiuti e assistenza medica a chi ne ha bisogno. Non se ne sta con le mani in mano, ma realmente contribuisce a ristabilirte un ordine in quel paese dilaniato dalla guerra civile degli integralisti talebani. Ma il vero scopo è ben altro. Sono pedine sacrificabili che servono ad altri scopi.Servono a stabilire chi comanda nel mondo, a tutelare gli interessi economici di quella fetta di occidente egemone, a far fare affari ai commercianti di armi e mercanti di morte.
Questo significa morire per l'Afghanistan. Siamo sicuri che il tenente alpino Massimo Ranzani e i suoi commilitoni vittime della guerra afghana ne fossero pienamente consapevoli?