giovedì 24 febbraio 2011

libri. Un Camilleri sottotono

Il sorriso di Angelica
di Andrea Camilleri

Andrea Camilleri sforna un altro episodio della saga di Montalbano. Ma come fa? Una prolificità stupefacente che, ahimè, alla lunga inevitabilmente finisce con l'impoverire il prodotto finale. E' questa la sensazione che mi ha lasciato la lettura de Il sorriso di Angelica.
Un  Montalbano po' stanco, svogliato e distratto, alle prese con gli anni che passano e che gli pesano non poco. Anche il rapporto "storico" con Livia appare ripetitivo e privo di vivo interesse reciproco, visto che ormai passa con troppa frequenza da una litigata ad un fraintendimento, quasi senza soluzione di continuità. Fatale e inevitabile che alla prima occasione Montalbano ceda , senza troppe esitazioni (salvo fare marcia indietro a posteriori), alle lusinghe di una beddra fimmina, giovane e spigliata, priva di inibizioni e con pochi scrupoli. Montalbano la paragona ad Angelica, il mito dell' Orlando furioso. Il poema di Ludovico Ariosto scandirà gli eventi raccontati nel romanzo, accompagnando il dipanarsi di una vicenda fantasiosa, discretamente emozionante, a volte ironica, mediamente ricca di colpi di scena. Il tutto fin quando un membro della banda di ladri al centro delle indagini della vicenda viene trovato morto e la verità si avvicina a passi rapidi non senza qualche grande scanto per Montalbano...
Esce di scena (temporaneamente?) Montalbano 2, l'alter ego razionale, implacabile e austero che nulla perdonava a Montalbano 1, quello reale. E' sostituito dalle riflessioni di Montalbano in luogo di quella specie di sdoppiamento di personalità sperimentata in precedenza da Camilleri. I personaggi di contorno, il fido Fazio, il magistrato Tommaseo, lo scorbutico medico legale, il vacuo questore, il pasticcione Catarella... sono tutti (troppo) "incappottati" nel loro abituali cliché, senza guizzi innovativi o nuovi elementi di originalità. Insomma diciamola tutta, Camilleri è sempre Camilleri, ma questa volta non mi è parso in forma smagliante sui suoi soliti livelli di eccellenza.

Caro Montalbano, alla prossima puntata...

martedì 22 febbraio 2011

Film visti. Il nastro bianco

Il nastro bianco
Regia di Michael Haneke

con Susanne Lothar, Ulrich Tukur, Burghart Klaußner, Joseph Bierbichler.

[Voto: 3 su 5]

In questo periodo triste di forzata permanenza in casa mi manca molto la frequenza con il cinema, uno dei miei appunatmenti fissi settimanali. Forse i più attenti lettori del blog si saranno accorti della mancanza di recensioni recenti. In compenso mi cibo di massicce dosi di televisione che in questi casi è veramente provvidenziale per chi deve passare molto tempo a casa in quasi completa inattività. A patto di poter scegliere e non farsi sommergere dalla porcheria che ci viene offerta dalle tradizionali tv generaliste (Rai e Mediaset principalmente).
Se dico tv e dico cinema, non può che trattarsi di Sky Cinema. Ovviamente. Non  esiste un'altra offerta che possa competere, nemmeno nel settore delle pay tv minori.
In questi giorni è passato sugli schermi un film che mi era sfuggito al momento della sua uscita. Si tratta del film che ha vinto a Cannes nel 2009, per la regia dell'austriaco Michael Haneke. Un film d'autore (nel bene e nel male), con tutti i crismi per scomparire quasi immediatamente dal circuito commerciale del grande schermo. Come in effetti è stato a suo tempo. Per questo è una fortuna che sia finito su Sky, che accanto ad un buon 85% di robaccia di scarsissimo valore, riesce ad offrire una alternativa di qualità su uno dei suoi canali dedicati al cinema. Ribadisco il concetto: per fortuna!

Il nastro bianco è un film che lascia senza parole per la sua drammaticità, per la sua asciuttezza narrativa e per la storia che viene raccontata. E' girato in bianco e nero con una bellissima fotografia che riesce a trasmettere al tempo stesso la bellezza dei paesaggi della verde Germania e la tetra atmosfera della vicenda. Tanto è sfolgorante e luminosa nelle riprese in esterno, tanto è grigia e oppressiva nei passaggi più drammatici. L'ambientazione storica è fissata all'incirca negli anni 1910-1915, in prossimità dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando in apparenza il mondo era ancora vergine e non macchiato del sangue di milioni di morti. In apparenza. Perchè il senso del racconto portato sugli schermi da Haneke è che nelle pieghe del formalismo moralistico e bacchettone dell'epoca, sussiegoso delle istituzioni, della religione e della famiglia, si nascondono i germi di quella follia collettiva che covava sotto le ceneri, nelle rigide chiese protestanti, nei talami nuziali, nei rapporti umani tra persone che di lì a poco sarebbe sfociato nell'orribile piaga del nazismo. Ovvero, nulla nasce per caso e all'improvviso. Nessun bubbone scoppia da sè se prima non ha covato in silenzio e macerato a lungo la parte sana del corpo umano ad ogni livello. Ed ecco che allora Haneke ci mostra una società tedesca molto ossequiosa dei formalismi borghesi e religiosi, con famiglie rette su modelli rigidissimi nei rapporti genitori e figli, con le donne sottomesse e considerate a rango di comparse destinate al soddisfacimento dei bisogni maschili o -al più- a crescere la prole. Non sicuramente a dare ai figli un'educazione, perchè quello è un ruolo che spetta al "signor padre" che non esita a impartire punizioni pesantissime e manipolatrici della personalità dei figli. Per non parlare della chiesa protestante, dominante in Germania, che si fa portabandiera degli stessi modelli di rigidità inflessibile. Salvo poi, nel chiuso delle mura domestiche, nel silenzio delle camere da letto, dare libero sfogo ai propri istinti lussuriosi con chiunque capiti a tiro. Ma la facciata, luminosa e sfolgorante (come la fotografia del film rende alla perfezione) è salva.
In una società siffatta Haneke coglie i germi del nazismo che di lì a poco avrebbero infettato tutta la Germania. Il film utilizza lo strumento della voce fuori campo affidata al maestro del villaggio. E' il maestro dell'unica scuola e dell'unica classe, frequentata da tutti i bambini. Ed è proprio con i bambini come protagonisti protagonisti che il maestro narra i fatti di quegli anni. Lentamente, inesorabilmente, estenuantemente, attraverso un continuo succedersi di quadri a camera fissa, fatti di dialoghi ed eventi “rivelatori”, il regista mostra come in quel mondo non ci fosse quasi nulla che fosse riconducibile al calore umano. Ma non solo: concetti come disciplina, purezza ed educazione erano divenuti talmente ossessivi e ossessionanti da travalicare ogni limite logico nella loro applicazione; l’estrema severità di comportamenti e atteggiamenti nascondeva derive perverse e patologiche che trovano applicazione nelle violenze domestiche (fisiche o mentali) e soprattutto nel sopruso nei confronti dei più deboli: donne, bambini, handicappati. Esattamente quanto è successo durante il delirio nazista. Il trionfo della razza perfetta a discapito dei più deboli e dei diversi.
Il film si conclude con la dichiarazione di guerra dell'Austria in seguito all'attentato di Sarajevo del 1914 (spero di non sbagliare la data...). La storia a venire, purtroppo, è tragicamente conosciuta.
Il film è impegnativo, dura oltre due ore. E' bene armarsi in anticipo di pazienza e perseveranza per non desistere dalla visione anticipatamente. Sarebbe un peccato.

venerdì 18 febbraio 2011

Benigni, il magnifico cantore dell'Unità d'Italia

Ieri sera sono incappato quasi per caso nell'esibizione di Roberto Benigni a Sanremo. Ed è stato un bene perchè ho visto qualcosa che mi ha emozionato e commosso fino alle lacrime e che resterà nella mia memoria di italiano. Più di mille discorsi celebrativi, più di mille cerimonie. Benigni ha toccato il cuore di chi lo stava ascoltando sul tema dell'Unità d'Italia.

Una prima parte satirica per rompere il ghiaccio. Benigni dopo un'entrata trionfale a cavallo con tanto di bandiera tricolore, sceglie un profilo basso quasi solo accennando marginalmente agli scandali che subisce l'Italia. Le stoccate non mancano, ma senza affondi diretti e grossolani. Quasi che l'argomento di fondo, l'Unità d'Italia, meritasse il massimo del rispetto senza eccessivi inquinamenti polemici.
L'Italia ha 150 anni. "E che sono per una nazione? Niente. E' una bambina. Una minorenne". E insiste, "dobbiamo parlare dell'Inno di Mameli, che tutti pensano che Mameli quando l'ha scritto era un vecchio con la barba, invece aveva vent'anni. All'epoca la maggiore età si raggiungeva a ventuno, quindi... era minorenne. Che poi 'sta cosa delle minorenni è nata proprio qui a Sanremo, ve la ricordate Gigliola Cinquetti? Non ho l'età, non ho l'età... S'era spacciata per la nipote di Claudio Villa". "Ma io parlerò solo dell'Inno di Mameli. Avete presente, quello che dice Dov'è la vittoria... Sembra scritto dal Pd". E ancora, "Dov'è la vittoria? / Le porga la chioma / che schiava di Roma / Iddio la creò. Umberto - dice Benigni rivolto idealmente a Bossi - schiava di Roma non è l'Italia, è la vittoria. Umberto, hai capito? Che c'é lì pure tuo figlio Renzo? Questo Paese è talmente libero che ci si può persino permettere di dire che non si vuole festeggiare l'anniversario dell'Unità".
Arriva poi la parte più seria e culturale, drammaticamente molto intensa, in cui Benigni da il meglio di sè. Affronta il testo dell'Inno di Mameli facendone l'esegesi come ci ha abituato a fare con la Divina Commedia di Dante. E' questa la parte più toccante di tutto l'intervento sul palco di Sanremo. Confesso, non ho difficoltà ad ammetterlo, che mi ha commosso ed emozionato fino alle lacrime. Una frase mi ha colpito tra le tante. "Quei ragazzi, quei giovani italiani di poco più di vent'anni andavano a morire per noi, per costruire l'Unità d'Italia. Non lo facevano per difendere la loro terra o la terra dei padri, ma per dare una terra a noi che siamo i loro figli". Se chi rema contro l'Unità e ai valori che la sottendono capisse il significato di queste poche parole l'Italia sarebbe un paese migliore. Grande Benigni.

Ecco i video per chi si fosse perso lo spettacolo:
I parte http://www.youtube.com/user/mauryinz1#p/u/10/oE08wJ7K84M
II parte http://www.youtube.com/user/mauryinz1#p/u/9/2Wm-3KQ-EZM
III parte http://www.youtube.com/user/mauryinz1#p/u/8/5itBCcZYoqQ
IV parte http://www.youtube.com/user/mauryinz1#p/u/7/S8gMpbZ1Tp8

In conclusione uno dei momenti più commoventi. Benignaccio abbandona le vesti di enfant terrible e canta l'Inno come lo avrebbe cantato uno di quei ragazzi che andavano a morire per fare l'Italia unita. Sommessamente, con un fil di voce, quasi in raccoglimento. Memorabile. Ecco il video: http://tv.repubblica.it/copertina/benigni-canta-l-inno-nazionale/62370?video


mercoledì 16 febbraio 2011

Cialtroni

Cialtroni 1 : L'arroganza strafottente di La Russa 











Cialtroni 2 : La "macchina del fango" de Il Giornale rievoca e manipola a piacimento fatti di oltre 30 anni fa


Libri. Da evitare assolutamente

L'Ipnotista
di Lars Kepler


Lars Kepler, nella presentazione del libro, viene addirittura annunciato come il nuovo Stieg Larsson, ma a mio modesto avviso non ha nemmeno la metà del talento del'inventore della saga di Millennium. Il libro, un bel malloppo di circa 600 pagine, si trascina stancamente vagando qua e là, ora allontanandosi per la tangente ora ritornando al plot principale, lo sterminio di una famiglia intera. L'omicida viene svelato quasi subito e da lì in poi il racconto si imbarca in divagazioni noiose e prolisse, prive di reale interesse. Per non parlare dei personaggi, descritti sommariamente senza dar loro una parvenza di credibilità. L'ipnotista del titolo, Erik Bark, è uno psichiatra che si imbottisce di pillole che prende a manciate, come se fossero noccioline. Pillole per dormire, per star sveglio, per tonificarsi, per restare lucido. Un passato di successo come brilante ipnotista ricercatore che però ad un certo punto va in disgrazia e buonanotte all'ipnosi. La di lui moglie è un tipetto emotivamente instabile che ci mette due minuti a separarsi da lui quando crede di cogliere una telefonata sospetta con possibile tradimento. Lo sbatte fuori di casa su due piedi, dedicandosi nel giro di poche pagine ad un altro uomo segretamente ambito e -attenzione!- in contemporanea con il rapimento del figlioletto emofiliaco. Ridicolo.
E poi una serie di personaggi di contorno tutti poco credibili e inverosimili, dal poliziotto investigatore a una banda di ragazzini terribili che, da piccoli delinquenti, taglieggiano i loro coetanei a colpi di piccole somme e ricariche di cellulari, salvo poi arrivare al tentato omicidio di un poliziotto come se niente fosse. Ridicolo. Per non parlare del finale, scontato e prevedibile, senza l'ombra di sussulti.
Insomma una vera ciofeca. C'è in giro un secondo libro di Lars Kepler sull'onda del successo del primo. Da evitare assolutamente.

martedì 8 febbraio 2011

Italia: l'approssimazione come regola

Qualche notizia colta al volo sui giornali di oggi. Non viene voglia di incazzarsi...?


Alberi fuorilegge.
Gli alberi secolari ai margini delle strade italiane sono quasi tutti fuorilegge. È, questo, l'innovativo principio giuridico di sicurezza stradale stabilito dalla Cassazione nella sentenza di condanna per omicidio colposo di un capo cantoniere dell'Anas di Foligno. Secondo la Corte suprema, l'uomo avrebbe dovuto provvedere a mettere in sicurezza ("predisponendo un idoneo guardrail nel tratto di strada dove si troava la pianta"), la statale "centrale umbra" orlata da una fila di alberi secolari, bellissimi da vedere, ma pericolosissimi per gli automobilisti. In queste condizioni sono migliaia e migliaia di km delle nostre strade. E sarebbero tra i principali responsabili di tanti incidenti mortali verificatisi nel corso degli anni, anzi di decenni, da quando le strade italiane sono percorse dalle automobili. Un vizio d'origine che si perde nel passato. O non si dovevano piantare gli alberi (secolari) in previsione del successivo percorso stradale o le strade non dovevano passare da lì. Ma se un automobilista esce di strada e va a sbattere su un platano, magari per l'eccessiva velocità, per ubriachezza, per disattenzione o per pura fatalità, la colpa è dell'albero? O piuttosto dell'automobilista stesso o del caso? E' assurdo dare la colpa agli alberi. L'incidente è sempre la risultate dell'interazione di tre fattori: uomo, veicolo ed ambiente. Non sarebbe più logico puntare sui primi due fattori piuttosto che prendersela con gli alberi?



Il 17 marzo sarà festa nazionale. Anzi no.
Il ministro leghista Calderoli è contrario alla giornata di riposo prevista per festeggiare i 150 anni dell'Unità d'Italia. Meglio lavorare. Dello stesso avviso Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. Una giornata di festa significa blocco delle attività produttive con perdite di milioni di euro. E così ci sarà chi festeggia in osservanza alla ricorrenza e chi invece se ne fregherà bellamente. Caos assicurato.
Ma pensarci prima, no? - quando la decisione è stata presa a livello di Governo (di cui fa parte lo stesso Calderoli)- ? L'Italia è sempre il paese del tira-e-molla. Diceva il grande Totò: "se ricevi un ordine, prima di eseguirlo, aspetto il contrordine". Una barzelletta, ma nel nostro paese non bisogna mai stupirsi di nulla.



(archivio)Di chi è il Canal Grande a Venezia?
Il Canal Grande non è più del Comune di Venezia. La notizia è giunta come una bomba nella sede municipale a Ca' Farsetti. Faccenda vecchia di anni che risale addirittura agli inizi del Novecento. Per legge le superfici marine e  lagunari sono di proprietà dello Stato, date in concessione/convenzione agli enti locali con protocolli ad hoc. Il ministro Calderoli, nel noto decreto «ammazzaleggi» (quello festeggiato in pompa magna dalla Lega con un rogo simbolico di quintali di codici e leggi) ha cancellato in un sol colpo tante norme antiche ancora vigenti senza preoccuparsi di prevederne le conseguenze. Tra queste, la concessione del Canal Grande da parte dello Stato al Comune di Venezia. Per la serie: tanta propaganda politica ad effetto, ma poche idee concrete e soprattutto confuse. Adesso è prevedibile che si aprirà un contenzioso amministrativo e burocratico per ristabilire lo statu quo, infatti per riassegnare il Canal Grande al Comune servirà comunque un provvedimento di legge che servirà ad abrogare l'abrogazione. Sembra un gioco di parole, ma è solo l'ennesimo pasticcio all'italiana fatto di incompetenza e approssimazione.  Con conseguente perdita di tempo e di risorse. E chi paga? Pantalone, naturalmente...

venerdì 4 febbraio 2011

Alberto Burdese

Il professor Alberto Burdese era ordinario di Istituzioni di diritto romano presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Padova; è scomparso ieri all'età di 84 anni. Come ogni essere umano, alla fine anche lui se n'è andato. Pace all'anima sua.  E' stato bravo ad arrivare alla venerabile età di 84 anni, perchè con tutte le maledizioni che i suoi studenti gli hanno indirizzato in decenni di carriera professorale, l'irreparabile sarebbe potuto accadere molto ma molto prima. Ne parlo perchè il prof. Burdese è una di quelle persone che lasciano un segno indelebile di sè nell'animo e nella memoria degli studenti. Come la professoressa di matematica delle medie o quella di latino del liceo. Come gli esami di maturità. Insomma uno che se ci finisci sotto le grinfie come studente, te lo ricordi tutta la vita. Io sono tra questi. La mia (breve) carriera universitaria è passata sotto le forche caudine dell'esame di Diritto romano (e Storia del Diritto romano), la sua materia. E' un esame che a quei tempi (ora non so) si sosteneva nel primo anno, con lo spirito elevato verso nuovi e nobili traguardi, verso sfide nuove per lo studente appena maturato al liceo e quindi dotato di grande entusiasmo. E quello era il primo grande errore. Perchè da studentelli pivellini inesperti, andare subito a sbattere contro un esame e, peggio ancora, contro un professore del genere, era come affrontare un muro e pensare di buttarlo giù a mani nude. Infatti le percentuali degli studenti che su quel m uro ci restavano spiaccicati come moscerini erano impressionanti. Cifre intorno al 97-98%. Conti facili da fare, perchè negli appelli con un centinaio di iscritti erano solo 2 o 3 quelli che riuscivano a passare. Una strage sempre annunciata e sempre realizzata ad ogni sessione d'esami. E come se non bastasse, i modi erano dei peggiori, strafottenti e arroganti. Sono così passati nella leggenda i libretti lanciati dalle finestre o fatti volare per aria, le battute pesanti, i commenti sarcastici ai danni degli studenti colpevoli di non saper rispondere alle domande del professore. Erano gli anni di Giurisprudenza di Padova che aveva la fama di essere la migliore facoltà d'Italia. Erano, nel mio caso, quelli dal 1975 in poi. Dove per alzare la fama e la considerazione della facoltà veniva individuata nella percentuale dei promossi agli appelli uno dei criteri maggiormente qualificanti. E allora per avere brillanti carriere universitarie bisognava essere dei geni o avere le giuste conoscenze. Tutti gli altri, carne da macello.  Come se non bastasse, l'ambiente in cui affondava le sue radici la facoltà era prevalentemente quello di destra, dove i più moderati ed "aperti" erano quelli (!) delle correnti democristiane più arcigne e conservatrici. D'altra parte erano gli anni del 6 politico e del 18 garantito. Erano gli anni di Scienze Politiche a Padova e di Sociologia a Trento, che furono terreno di crescita della Sinistra extraparlamentare, di Lotta continua, di Autonomia operaia e infine anche del partito armato. Logico che la roccaforte della destra, Giurisprudenza, dovesse in tutti i modi distinguersi dalla massa del movimento studentesco. Ma sono altri discorsi che ci porterebbero lontano dal nostro professor Burdese.

Per capire il clima che si viveva durante quegli esami-strage voglio citare un aneddoto che in quegli anni circolava sulle bocche di tutti. Un'avvenente studentessa decise di giocarsi altre carte oltre a quella della preparazione precisa e dettagliata della materia. Quindi si presentò all'esame con una minigonna mozzafiato e una camicetta generosamente sbottonata. Durante l'esame chiese disinvoltamente di poter fumare (in quegli anni non c'erano le restrizioni al fumo come oggi) e così portò a termine la sua interrogazione. Che sfortunatamente per lei non fu ritenuta sufficiente. Nel comunicarle la bocciatura, l'esimio prof. Burdese ebbe a dire, con voce impostata e faccia opportunamente contrita: "Signorina, nel congedarmi da lei e invitarla a tornare al prossimo appello avendo ben studiato il mio libro di testo, la saluto come Enea salutò la sua città in fiamme, salpando a bordo di una imbarcazione: Addio Troia fumante!!".

Giusto per notizia, l'esame con il professor Burdese io lo passai con successo al primo colpo, feci parte di quel misero 2-3% di promossi in quella sessione. 
Col senno di poi potrei dire che a qualcosa il prof Burdese e il suo esame però sono serviti. A non darsi per sconfitti ancor prima della battaglia.