giovedì 27 gennaio 2011

Via Poma 21 anni dopo, troppe incertezze per una sentenza di colpevolezza

Ieri c'è stata la sentenza per l'omicidio di Simonetta Cesaroni, il cosiddetto delitto di via Poma nell'accezione con cui è passato alla storia della cronaca di questi decenni. L'ex fidanzato Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere. Il tutto a distanza di 21 anni dal delitto. Colto da malore dopo la lettura, l'imputato commenta: «Mi chiedo perché devo essere la vittima».
Il quadro è questo, nella sua estrema sintesi: una condanna che arriva 21 anni dopo il delitto. Un quadro che lascia perplessi e che in un certo senso atterrisce. Un uomo è stato condannato per un delitto commesso 21 anni prima. Nel corso di questo lunghissimo scorcio di tempo le indagini sono state portate avanti in maniera ondivaga, alterna, contraddittoria e spesso incomprensibile. Ricordiamo tutti il nome di Pietrino Vanacore anche senza essere particolarmente informati sui fatti di "Via Poma". Un signor nessuno che in qualche modo è entrato nella conoscenza di tutti. Dal '90 ad oggi una generazione è cresciuta sentendo parlare periodicamente della Cesaroni, di Vanacore e di via Poma, come se fosse un pezzo di storia patria. Questo perchè la vicenda ha evidenziato da subito il suo carattere di apparente casualità e improvvisazione. Come se gli inquirenti andassero un po' a caso o a tentoni, giusto per sopire le polemiche di stampa e dare un contentino al pubblico. Per un po' hanno perseguito il Vanacore, che era il portiere dello stabile, insieme ad un certo Valle che vi abitava. Dopo essere arrivati addirittura al processo, che in secondo grado li ha visti prosciolti, le indagini si sono indirizzate altrove, quasi a riparazione del buco nell'acqua commesso fin dall'inizio. Ed è allora e solo allora che salta fuori l'ex fidanzato Busco. Credo si tratti del 2004, 14 anni dopo. Ma come è possibile? E fino ad allora era ritenuto del tutto estraneo per poi improvvisamente non solo essere coinvolto, ma diventare addirittura l'imputato principale, l'assassino, ilo mostro che ha ucciso con 29 coltellate quella povera ragazza. Ma non è un segno di approssimazione incredibile? O gli inquirenti hanno una pista precisa dettata da prove, circostanze e soprattutto movente che sarebbe dovuta emergere nitidamente da subito oppure non si può cambiare obiettivo e indagato dalla sera alla mattina solo perchè i primitivi colpevoli non sono più stati ritenuti tali. Ma cos'è questo tipo di giustizia, una caccia al tesoro dove ciò che conta è il tesoro e non importa come e quando ci si arrivi? E il premio finale? Una tacca sul calcio della colt come usava nel far west tra gli sceriffi dell'epoca?
Raniero Brusco nel 1990
No, non è possibile. Questo tipo di giustizia non convince per nulla. Soprattutto perchè sembra colpire nel mucchio pur di trovare un colpevole. Non entro nemmeno nel merito delle indagini, anche se sui giornali si legge che le prove a carico dell'imputato non sarebbero frutto di indagini impossibili da svolgere a distanza di 21 anni, ma da perizie tecnico-scientifiche. In altre parole la colpevolezza si deduce dal ritrovamento di tracce organiche sulla scena del delitto in qualche modo riconducibili all'imputato. Ergo: colpevole. Possibile? A chiunque potrebbe succedere di essere coinvolti in questo modo. Succede un fatto di sangue, le indagini vanno a individuare un presunto colpevole. Poi improvvisamente 10, 15 o 20 anni dopo ecco che ci si ritrova coinvolti. Vai tu a trovare nella memoria dell'epoca circostanze, fatti, situazioni, alibi a propria discolpa.... per un episodio risalente ad una vita fa. Già perchè l'ex fidanzato nel frattempo si era fatto una famiglia, una moglie, dei figli come una qualsiasi persona normale. Salvo poi essere chiamato a giustificarsi a distanza di anni. Immagino la situazione paradossale alla domanda posta nel 2004 "dove si trovava il pomeriggio del 7 agosto 1990"? Assurdo.
Raniero Brusco oggi

Ipotesi. L'imputato ricorre in appello e lo vince. Viene prosciolto, è innocente. Che facciamo, si ricomincia daccapo alla ricerca di un altro colpevole? E chi c'è nella lista dopo l'ex fidanzato? Il datore di lavoro, il vicino di casa, il lattaio, il cugino di terzo grado....? A chi tocca? Con che prove, con che testimonianze, con che indagini a distanza di 21 anni? Una vita fa.
L'unica cosa certa in questa storia piena di incertezze del delitto di Via Poma è che Simonetta Cesaroni è morta nel fiore degli anni e della giovinezza. Purtroppo.

domenica 16 gennaio 2011

Film visti. La vita, la morte, l'aldilà.

HEREAFTER
Regia di Clint Eastwood, con Matt Damon, Cécile De France, Bryce Dallas Howard, i fratelli McLaren.
[Voto: 4 su 5]

La vita, la morte, l'aldilà. Il triangolo perfetto, quello che riassume tutto e comprende tutto. Ciò che siamo, ciò che non siamo, ciò che (forse) saremo. Lo dice, nel film, un personaggio secondario, una scenziata ricercatrice di una clinica svizzera: questo triangolo assoluto che comprende tutto vale per tutti, sia che l'analisi e l'interpretazione siano filtrate da fede e religione, sia che l'approccio sia ateo e razionalistico. Perchè la vita e la morte sono di tutti e per tutti, senza esclusione alcuna. E' l'interrogativo arcaico che dilania l'uomo fin dalla notte dei tempi su cosa ci sia dopo la vita, che cosa sia in realtà la morte e se se ci sia qualcosa nell'aldilà, non risparmia nessuno. In ogni tempo e in ogni luogo.

Clin Eastwood approccia questi temi con il suo modo personalissimo e poetico di affrontare le cose a cui ci ha abituato in tutti questi anni di magistrale attività registica. La sua poetica è però come sempre asciutta, rigorosa, senza facili e gratuite strizzatine d'occhio al mero e becero sentimentalismo. Un grande Clint. Grazie Clint.
Tre personaggi, tre storie, tre ambientazioni individuali che partono da lontano anche geograficamente ci vengono proposte nel film. Tre punti di vista e tre esperienze diverse che in qualche modo finiranno per intersecarsi e interagire tra loro. A San Francisco c'è un giovanotto dallo sguardo sereno -Matt Damon- che fa l'operaio cercando di dimenticare la propria capacità (dono o maledizione?) di entrare in contatto con i defunti. Un sensitivo vero, non un fenomeno da baraccone o un ciarlatano da strada. A Londra c'è un bambino (il piccolo McLaren) che viene da una famiglia border line con madre tossicodipendente e alcolizzata, padre assente/sconosciuto, un fratellino gemello (il secondo McLaren) con cui vive in affettuosa simbiosi e che ad un certo punto muore per una tragica fatalità. A Parigi c'è una giovane e bella giornalista di successo - Cécile de France- che nel corso di una vacanza in oriente scampa alla morte in seguito allo tsunami del 2004 . Scampa alla morte, ma dopo essere quasi-morta per qualche minuto. Il suo ritorno alla vita non è nè facile nè indolore e provoca in lei uno sconvolgimento che da lì in poi segnerà la sua esistenza.
Tre persone agli antipodi, l'operaio-sensitivo, il bambino solo, la giornalista morta e risorta, che vivono e si interrogano ciascuno a modo suo sulla vita, cercando di viverla al meglio. ma andando inevitabilmente a sbattere addosso alla morte (la strage in metropolitana per esempio...). Un'attrazione fatale, forte e irresistibile. I due estremi che si attraggono, la vita e la morte, lasciando nel mezzo l'uomo, la donna, il bambino come in un mare in tempesta. E il fulcro di questo percorso a tre finisce per essere il sensitivo pentito Matt Damon che in qualche modo, proprio per essere depositario di strumenti che gli altri non hanno, finisce per dirimere i drammi che ciascuno di loro vive in maniera lacerante. Non dico come e non dico quando, naturalmente.
Il pregio di questo film del grande Clint è quello di non tentare nemmeno lontanamente di dare una soluzione, ma di limitarsi a raccontare una storia, anzi di tre storie. E di dare, questo sì, un messaggio forte e chiaro. L'antitesi tra vita e la morte ha un tramite che li mette in collegamento: l'amore. E' il ponte che unisce i due stati estremi. E' solo la capacità di amare dell'essere umano che può dare un senso alla vita e alla morte. Ed è anche lo strumento per vivere e morire superandone la paura atavica tipica dell'uomo.
Grande prova d'attore di Matt Damon e sfolgorante la presenza che buca lo schermo di Cécile de France, attrice belga, per me sconosciuta, ma che è un'autentica rivelazione.



venerdì 14 gennaio 2011

L' il-legittimo impedimento

La Corte Costituzionale ha deciso salomonicamente: la legge che introduce il legittimo impedimento per il Presidente del Consiglio è parzialmente in contrasto con il dettato della Costituzione che prevede che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge. Dunque basta con la burla degli impegni presidenziali per aggirare sistematicamente i processi. Basta con questa vergogna della legge ad personam fatta per manipolare la giustizia e beffarla con l'avallo di una legalità di cartapesta. Basta. Il punto di equilibrio tra interesse dello Stato a portare avanti i processi e l'interesse privato ad evitarli è stato individuato dall'Alta Corte nella prudente valutazione dei giudici che amministrano il processo dove è imputato il Presidente del Consiglio. Saranno loro e non altri a valutare caso per caso la fondatezza della richiesta di assenza per legittimo impedimento. Finirà dunque la riprovevole e aberrante abitudine di opporre l'impedimento sistematicamente a tutte le chiamate in un'aula di tribunale. Finirà questa vergogna solo italiana.

Ma fatta la legge, trovato l'inganno... recita il proverbio. Infatti a forza di rifiutare e di evitare le udienze il rischio di prescrizione dei procedimenti è aumentato a dismisura. Alcuni dei magistrati hanno cambiato sede o hanno altri incarichi per avanzamento di carriera o di età. In altre parole se anche il legittimo impedimento non è più un paravento opponibile sempre e comunque da Berlusconi, è il tempo che gioca ora a suo favore. Buona parte dell'iter processuale di quei processi dovrà essere riavviato daccapo con ulteriore altra pèerdita di tempo che fluirà a tutto vantaggio del calcolo della prescrizione tanto agognata da Berlusconi. E' questa la vera grande beffa del Caimano perpretata ai danni di tutta l'Italia e della Giustizia dello Stato che lui sarebbe chiamato a governare.

Provate a indovinare da chi è stato pronunciato il primo commento al vetriolo sulla decisione della Corte Costituzionale? Chi non ha esitato a bollare negativamente la decisione dei supremi giudici? Il principe dei fedelissimi di Berlusconi, il più viscido e servile di tutti: Sandro Bondi.  
Il suo commento è stato magistralmente tragico e dolente: "...è un'attacco al sistema democratico dello stato". Alla faccia del rispetto delle istituzioni (da parte di un ministro della Repubblica...). Cosa ci si poteva spettare di diverso?

Ma alla fine dei giochi e considerando il salvagente della prescrizione incombente, l'unico dubbio a questo punto è solo se Berlusconi farà a tutti marameo con la mano davanti al naso o se userà il classico gesto dell'ombrello.....

mercoledì 12 gennaio 2011

Libri. Faletti in picchiata

APPUNTI DI UN VENDITORE DI DONNE
di Giorgio Faletti

Se il precedente Io sono Dio era denso di suspence e colpi di scena e con un intreccio narrativo interessante ed originale, quest' ultimo lavoro di Giorgio Faletti è decisamente parecchi gradini sotto il livello di galleggiamento, nonostante il grande battage pubblicitario e le lodi sperticate di D'Orrico sul Corriere che, in sede di presentazione, arrivava a definire Faletti "il più grande scrittore italiano" contemporaneo. Ma a ben vedere è proprio l'eccessiva spinta pubblicitaria che lasciava intravvedere da subito i limiti del libro che altrimenti non avrebbe avuto bisogno di tanto e tale sostegno.
E' la storia di tale Bravo, magnaccia di prostitute di alto bordo, che vive border line in un mondo di malavita senza tuttavia farsene coinvolgere in maniera pesante e definitiva. La vicenda è ambientata a Milano sul finire degli anni '70, quelli di piombo, delle Brigate rosse e del delitto Moro. Ma è anche l'epoca della Milano afflitta dalle lotte tra bande di malavitosi del tipo Turatello e Vallanzasca. Sullo sfondo gli intrecci delittuosi tra politica e malavita che poi avrebbero portato alla degenerazione della Milano da bere, quella della spegiudicatezza disinvolta e priva di scrupoli di sorta.
Interessante il quadro d'insieme, ma deludente il romanzo che comincia tardivamente a decollare solo dopo le prime 150 pagine. E già questo basterebbe a chiudere il discorso. Una storia che ad un certo punto parte per la tangente e sembra sfuggire dalle mani di Faletti che si fa cogliere da manie di grandezza pensando di non avere limiti alla sua fantasia letteraria. Il risultato è che la storia arriva ad un suo epilogo ben presto bruciandosi in colpi di scena abbastanza scontati e prevedibili. Il tutto sembra esaurito a circa un centinaio di pagine dalla fine e il lettore si domanda che ci sarà scritto in ciò che resta da leggere se ormai tutto è successo e tutto è svelato. Qui infatti comincia la parte più penosa del libro, ossia la coda della vicenda che vorrebbe aggiungere sale e interesse con un paio di colpi di scena finali. Pensate ad un film che aggiunge nei titoli di coda l'epilogo della vicenda. Ad effetto, ma artefatto e forzato, nel caso di questo Venditore di donne. Invano perchè tutto sembra decisamente sopra le righe in una storia chiaramente troppo più grande del protagonista (e del suo autore) che all'improvviso si disvela per essere tutt'altra persona da quella che ci era stata presentata. Non aggiungo altro per non rovinare il rovinabile, ma vi assicuro che la sensazione di raccogliticcio e di idee raccattate qua e là è molto forte. Faletti si è forse montato la testa o ha fatto il passo più lungo della sua gamba e tenta di supplire alla pochezza del racconto con esasperanti e barocche descrizioni di fatti e situazioni col risultato di appesantire ogni oltre limite di sopportabilità la sua prosa, che finisce per essere noiosa e irritante. Colpa di chi lo incensa (vedi il già citato D'Orrico) invece di andarci piano e con avvedutezza. Urge per Faletti un radicale ravvedimento per non scadere ulteriormente di livello.

martedì 4 gennaio 2011

Natascia

A vederla, a Natascia le si darebbero una trentina d'anni. E' piccolina di statura, proporzionata, carnagione scura, capelli neri e ricci. Nervosi, difficili da tenere a freno. Uno pensa a Natascia e si immagina una eterea nordica altissima, biondissima, occhi azzurri, carnagione chiarissima.  Invece no, è tutto il contrario. Mai lasciarsi guidare dagli sterotipi. Natascia è una donna sui generis, perchè a dispetto del nome che evoca steppe siberiane è in realtà cubana. Ma non è una di quelle cubane da copertina patinata, gambe lunghe e sinuose, con il sedere modellato al tornio altissimo da terra e seni protesi a sfidare la legge di gravità. Nulla di tutto ciò, è invece "normalmente normale", come tante altre donne mediterranee. Natascia però una caratteristica veramente singolare ce l'ha. La lascia chiaramente intuire il suo nome. E' figlia di quella miscellanea curiosa e forse irripetibile nata dall'influenza dell'ex Unione sovietica sui paesi satelliti del blocco comunista. Cuba, Fidel Castro, le basi missilistiche russe, la crisi con gli Usa negli anni 60 in piena Guerra fredda, John Kennedy, il blocco navale, la Baia dei porci. Natascia è figlia di quell'epoca ormai archiviata nei libri di storia, cubana sì, ma anche russo-sovietica, ispanica dalla pelle color cioccolato, ma con un nome di origine baltiche a suggellare quell'epoca storica.
Natascia fa la cameriera in uno dei bar vicino al mio ufficio, dove vado in pausa pranzo, per un panino, un toast o un primo veloce. Chissà perchè si dice "primo veloce", forse che esistono anche i primi lenti o quelli solo accelerati, oltre a quelli che fanno venire il bruciore di stomaco al terzo boccone e quelli che si lasciano mangiare senza problemi...? Mah.
Natascia dimostra una trentina d'anni, ma in realtà ne ha parecchi di più, quasi quarantacinque. Ma non glieli darebbe nessuno. Frutto della mescolanza genetica cubano-sovietica? Comunque sia, quando le si chiede l'età nel caso che si entri in amicizia, tutti rimangono a bocca aperta. Poi si scopre che ha anche una figlia grandicella, che parla correntemente quattro o cinque lingue, che ha girato il mondo fermandosi qualche anno qui e qualche altro là. Che adesso medita di trasferirsi in Spagna, dove non è mai stata stabilmente, ma solo fuggevolmente in viaggio. Unica remora: fare almeno terminare a sua figlia le scuole medie in Italia dove le ha cominciate. Natascia non finisce mai di sorprendere.
Qualche settimana fa, al finire dell'estate, è tornata a Cuba, come suole fare periodicamente, per ritrovare vecchi amici e i parenti. Principalmente la sua anziana mamma. Radici difficili da dimenticare, giustamente, nonostante la lontananza e la vocazione giramondo ormai pluridecennale. Prima che partisse ho azzardato timidamente una richiesta, dando per scontato che fosse pleonastica. Che mi portasse da Cuba dei sigari locali (niente roba tipo Montecristo o Cohiba, che ormai si trovano dappertutto), a patto che fossero fatti a mano artigianalmente da e per la gente del posto. E già che c'era, per completare la richiesta, anche una bottiglia di rhum, anch'essa del tipo altrettanto artigianale. Pagando il dovuto, si intende. Nell'epoca della globalizzazione dei mercati niente di più facile trovare rhum cubano nei supermercati. Ma, si sa, la produzione locale è tutta un'altra cosa. Non certo roba da turisti.
Ho osato troppo? Non avrei dovuto fare richieste così invadenti alla gentile Natascia? Forse. Ho accantonato l'idea, nella convinzione di essermi allargato troppo. Figuriamoci se si mette a fare la spesa a Cuba per i conoscenti italiani. Per giunta semi sconosciuti e sfacciati, come nel mio caso. Ma il bello doveva ancora arrivare. Dopo un paio di mesi scarsi di assenza, quando il periodo di ricongiungimento affettivo al suo paese era giunto al termine, Natascia è ritornata puntualmente a lavorare al bar e a servire piadine, insalate o primi veloci. Come prima, come al solito, per sbarcare il lunario. Salvo, qualche giorno dopo, presentarsi al tavolo con un involto in carta di giornale e un sorriso stampato in faccia. "Questo è per te", dice appoggiando il malloppo sul tavolo. Scarto l'involucro e appare uan bottiglia di rhum. Marca sconosciuta, scritte rigorosamente in spagnolo, produzione marcatamente artigianale. Non roba per turisti. Incredibile, Natascia si era ricordata della mia richiesta invadente e anche un po' maleducata di chi si approfitta di un po' di confidenza in pausa pranzo. Ed ecco il rhum arrivato sul tavolino del bar dopo un viaggio di parecchie migliaia di chilometri. "Non ti ho preso i sigari che volevi, perchè quelli che ho trovato non mi convincevano", dice quasi scusandosi. Ho preteso di pagare il costo della bottiglia come da accordi presi, per non approfittare di tanta cortesia. Pensa un po': sette dollari americani.
Natascia, simpatica piccoletta sovietico-cubana col nome che viene dal freddo, sei grande!
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sabato 1 gennaio 2011

Film visti. Tron, l'umanizzazione dei programmi

Tron Legacy
Regia di Joseph Kosinski con Jeff Bridges, Olivia Wilde.
[Voto: 1,5 su 5]

Nel desolante panorama  cinematografico di questo periodo natalizio, tra cinepanettoni di rara volgarità e inutilità, tra film ampiamente sopravvalutati e marginali, si distingue questo Tron Legacy dai mirabolanti effetti digitali presentato in sovrapiù in versione 3D. Il film riprende quello di una trentina di anni fa con le dovute modernizzazioni tecnologiche del caso (e non solo tecnologiche).
Tuttavia il film risulta nel complesso sgradevole per l'eccessiva e martellante dose di immagini digitali e di musica surround al limite dell'insopportabile. All'uscita del cinema mia figlia (che bello andare al cinema con i figli anche da grandi) mi ha chiesto a bruciapelo cosa ne pensassi: ho faticato a rispondere senza cadere nel turpiloquio. Sì perchè le domande a bruciapelo appena fuori dal cinema sono spesso pericolosa fonte di risposte immediate quanto sincere. Perchè si tende a rispondere "di pancia" e non "di testa". Il che però non è detto che sia un errore.
Il Tron prima versione 1982 era un film Disney in tutti i sensi, prodotto divertente per famiglie tutto azione e fantasia. Aveva però anche la caratteristica inusuale di raccontare con rara precisione un mondo che nessuno in quei tempi raccontava, quello caro agli (allora pochi) appassionati di informatica. Era l'epoca dei videogiochi del tipo Space Invaders, dei fantasmini mangia-mangia e altre ingenuità del genere. La storia di Tron metteva in scena l'esistenza di piastre madri, di sistemi I/O, di bus, di programmi, di codici e via dicendo. Roba sconosciuta di cui nessuno aveva mai sentito parlare (non che adesso sia sia tutti diventati esperti informatici, ma almeno si tratta di termini più usuali e meno misteriosi). La storia immaginava che i programmi avessero una vita propria e una coscienza che cercava consapevolezza riconoscendo nell'essere umano il Creatore della loro realtà virtuale. Rivoluzionario per quell'epoca semi-pionieristica in cui i computer di allora avevano meno potenza e memoria del telefonino che oggi abbiamo tutti in tasca.
Il Tron del 2010 vuole tentare il salto di qualità ed estremizza il medesimo percorso e lo esaspera rimescolando i rapporti e gli equilibri che "umano" e "tecnologico" mantengono nelle narrazioni fantasy. Laddove la fantascienza solitamente sancisce la vittoria dello spirito sulla materia, cioè dell'elemento umano su quello tecnologico in maniera piuttosto tranquillizzante, Tron Legacy si spinge fino a cercare lo spirituale nel digitale, una possibilità di rinascita tra il religioso e il mistico. Ed è qui che va ricercato il principale limite del film: voler dare eccessiva rilevanza e importanza a questa rivincita della sfera tecnologica che mira ad umanizzarsi. Un "programma" che pensa, agisce e combatte per perseguire un proprio scopo ed obiettivo è cosa che istintivamente (mi) induce diffidenza e distacco e, perchè no, turbamento. Va bene il fantasy, ma non è il caso di esagerare. Anche perchè alla fine, sebbene l'essere umano sia misticamente identificato con il Creatore con la C maiuscola (e tutto quel che ne consegue), non bisogna dimenticare che basta spegnere la corrente perchè tutto abbia fine. E questo sì che è rassicurante e tranquillizzante.
Non mi è piaciuto per niente, contrariamente al solito, Jeff Bridges che appare un po' bollito nel doppio ruolo di se stesso come Creatore e del suo bellicoso clone informatico ringiovanito di oltre vent'anni. Una smagliante presenza ma nulla di più per la coprotagonista Olivia Wilde, già vista in serial televisivi del tipo Dottor House.
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2011, un inizio con le peggiori premesse

Il 2011 è cominciato solo da poche ore che già abbiamo un'anticipazione di quello che ci aspetta. Tre i fatti di cronaca: la vicenda della estradizione rifiutata per il pluriomicida Cesare Battisti, la morte in Afghanistan dell'alpino Matteo Miotto, la strage di cristiani ad Alessandria d'Egitto. Un inzio d'anno peggiore di così sarebbe stato difficile immaginare. Ma questa è la dura realtà con cui ci si deve confrontare.



Assassino riconosciuto con sentenza definitiva, Cesare Battisti che negli anni di piombo (la lotta armata di fine anni '70)  ha materialmente ucciso due persone e partecipato all'assassinio di altre due, resterà in Brasile dove deve scontare un residuo di pena (due anni complessivi per un reato minore) e poi sarà libero, nonostante penda su di lui una condanna della giustizia italiana e una richiesta di estradizione del nostro governo. Il merito di questa disonorevole vicenda è tutto del presidente brasiliano uscente Lula e della scarsa considerazione di cui gode l'Italia a livello internazionale. Il rifiuto dell'estradizione è un affronto senza uguali a livello diplomatico e politico che la dice lunga sul peso del nostro paese nei rapporti con gli stati esteri. In pratica Lula se n'è fregato delle esplicite richieste -abbondantemente motivate- giuntegli dall'Italia. Si sarebbe comportato così se si fosse trattato di un altro paese? Purtroppo l'Italia paga l'essere rappresentata all'estero da un personaggio da burla come Berlusconi, che si distingue nel raccontare barzellette e vendere fumo ad ogni occasione, che fuori dai nostri confini è noto come protagonista di scandali e di relazioni con minorenni, ma nulla di più sul piano concreto in termini di autorevolezza politica. Vedasi a conferma i rapporti in tal senso della diplomazia statunitense rivelati nelle settimane scorse da Wikileaks...

Un altro giovane militare italiano è morto in Afghanistan. Il trentacinquesimo della serie da quando è partita l'occupazione manu militari di quel paese. I talebani insorti gli hanno sparato con la chiara intenzione di uccidere, non si è trattato di una sparatoria casuale. Il papà del soldato ucciso ha raccontato di avere appreso la notizia "con brutalità: sono caduto dalla poltrona. Mi ha chiamato un ufficiale, mi pare di ricordare dall'Afghanistan. Mi ha chiesto se ero il padre di Matteo, poi mi ha detto: volevo comunicarle che suo figlio è deceduto". Il rammarico maggiore per la famiglia, ha concluso il padre, "è che gli mancavano due settimane e poi sarebbe tornato a casa: pensavamo che l'avesse sfangata e invece così non è stato". E qualcuno ancora continua a non voler ammettere che in Afghanistan sia in corso una vera e propria guerra...
Proprio poche settimane fa la giovane vittima  -Caporal Maggiore Matteo Miotto -aveva inviato una lettera al quotidiano veneto Il Gazzettino che l'aveva pubblicata sulla verione on line a questo indirizzo: http://www.gazzettino.it/articolo.php?id=126375&sez=JULIA&ssez=LETTERADAHERAT#
Nel leggerla suona profeticamente agghiacciante.


Capodanno di sangue ad Alessandria d'Egitto, dove un'autobomba esplosa davanti ad una chiesa cristiana alla fine della messa di mezzanotte del 31 dicembre ha fatto 21 morti e 79 feriti. Secondo il ministro dell'Interno egiziano si sarebbe trattato di un attentatore suicida. L'attentato è stato un duro colpo per la folta comunità cristiana d'Egitto e per i copti di Alessandria. Un testimone oculare ha riferito all'agenzia ANSA di un "bagno di sangue", seguito da un via vai di ambulanze tra i corpi martoriati a terra. Immediata la reazione rabbiosa della comunità cristiana che ha assltato una vicina moschea scaricando tutta la rabbia per l'attentato subito.


...E questo è solo un "assaggio" del 2011.
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