martedì 27 dicembre 2011

Libri. Da regalare a chi vi sta antipatico

La mappa del destino
di Glenn Cooper






Glenn Cooper è uno che ci marcia. Alla grande. Negli Usa deve esistere un proverbio molto simile al nostrano "il ferro va battuto finchè è caldo". Infatti dopo il successo del primo libro continua a sfornarne a getto continuo, con rapidità impressionante. Purtroppo questo prolifico autore deve essersi montato la testa parallelamente al depauperamento della vena letteraria ed ha imboccato un piano inclinato che lo porta molto lontano dalla sua opera d'esordio La biblioteca dei morti, che non era niente male nel suo genere (fantasy).  La mappa del destino, invece, è assolutamente da evitare. Parla di monaci medievali che trovano casualmente il segreto della longevità, scoperto trentamila anni prima da uomini preistorici. Un segreto che si perpetua fino ai giorni nostri con risvolti criminali che portano a bagni di sangue pazzeschi. Fatta eccezione per l'esilissima trama noir, per il resto siamo a zero.
Insomma un guazzabuglio incredibile che si snoda in varie epoche storiche, giusto per incasinare il tutto il più possibile. Girare alla larga o da regalare a chi vi sta antipatico.

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Livello di guardia
di Natalino Balasso







Il livello di guardia del titolo è quello delle acque del Po nel suo ultimo tratto prima di scaricarsi nel Mar Adriatico. Siamo in Polesine, tra le province di Rovigo e Ferrara. Terra di nebbie eterne e di lotte altrettanto eterne con il fiume. A lottare sono le popolazioni del posto che difendono il loro territorio e le loro case, in definitiva le loro vite, dalla furia del fiume quando il livello sale a dismisura e si riversa ovunque travolgendo gli argini. Territori di una bellezza desolata, ma struggente. Gli amici di questo blog hanno letto brevi resoconti di viaggio sul Delta del Po e sul Polesine in più occasioni essendo una delle mete nei miei giri in moto con la bella stagione.
Natalino Balasso è un attore comico che ha raggiunto la notorietà grazie al programma televisivo Zelig. E' un cabarettista che fonda il suo successo sul personaggio dialettale, molto ruspante e altrettanto ignorante. "Sana ignoranza", si dice in questi casi. Giochi di parole, storpiature dialettali, doppi sensi, saggezza popolare spicciola e chi più ne ha più ne metta. Un successo meritato il suo, che lo ha portato anche a calcare i palcoscenici teatrali anche per cose più serie e importanti del cabaret. Balasso si è cimentato anche al cinema e in alcune fiction televisive. Non gli manca certo l'intraprendenza e la voglia di mettersi in gioco, puntando sempre sul suo essere un personaggio sanguigno, popolare e dialettale. Infatti il denominatore comune delle sue performance artistiche è proprio l'uso del dialetto e la sua forza espressiva superiore e immediata rispetto alla lingua italiana.
Non ha esitato a cimentarsi anche con la scrittura. Questo "Livello di guardia è il suo secondo romanzo. Un romanzo che lui stesso autodefinisce "umido", giocando proprio sui doppi sensi da bravo cabarettista. In realtà questo libro è un ibrido, un incrocio tra il genere umoristico e quello poliziesco, non senza qualche incursione nell'introspezione social-sociologica. Insomma, un po' troppo, a dirla proprio tutta. Un piccolo libretto, nei contenuti e nelle dimensioni, in cui è abbozzato di tutto e di più, finendo per non assumere nulla di preciso e di compiuto. Il paesino polesano dove si svolge il racconto è un coacervo di personaggi, per lo più macchiette di maniera e dunque prevedibili e poco o nulla originali, che sono sul limite (pericoloso) tra il suscitare il sorriso o la riflessione più seriosa. Troppi e troppo eterogenei questi personaggi che si disseminano lungo il percorso di una trama anche piuttosto confusa e poco incisiva. Insomma anche in questo caso -come nel precedente- un libro, tutto sommato, da evitare. Sia pure con ben altre motivazioni.
Un suggerimento.Da non regalare ad amici veneti, lo troverebbero troppo banale e scontato a causa dell'uso del dialetto alquanto grossolano.
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sabato 17 dicembre 2011

Il razzismo uccide

Martedi 13 dicembre, Firenze.
Una vera e propria caccia al senegalese, cominciata in mattinata al mercato di piazza Dalmazia (alla periferia nord) e terminata nel pomeriggio al mercato di San Lorenzo in pieno centro cittadino. E Firenze piomba nel terrore: in mattinata un uomo di 50 anni, Gianluca Casseri, militante di estrema destra, ha aperto il fuoco al mercato di piazza Dalmazia, su un gruppo di ambulanti senegalesi: due morti e un ferito gravissimo. Poi è andato al mercato di San Lorenzo, nel centro della città, ha ferito due ambulanti, e quando si è accorto di essere accerchiato dalla polizia, piuttosto che farsi prendere ha preferito uccidersi sparandosi con una 357 Magnum nel garage del parcheggio. L'obiettivo premeditato: i senegalesi. Non a caso, non il primo che passa. No, i senegalesi. Immigrati di colore, a volte clandestini, molte altre in regola. Come tanti altri immigrati, buoni e cattivi, onesti e delinquenti. Le due vittime risultano incensurate. Ma con la colpa di essere neri e senegalesi. Sufficiente per diventare bersagli umani del razzismo più violento e criminale. Non quello parolaio, volgare e incivile che tanto spesso si avverte nelle nostre città. Quello alimentato da certe parti politiche fino all'altro giorno presenti nel governo. Razzisti da bar, buoni per urlare slogan contro neri e terroni, vestirsi di verde e fare scena con la faccia incazzata. No. Questo è il razzismo che non parla, ma spara e uccide.

Oggi a Firenze una grande manifestazione contro la violenza razzista, sia quella verbale, volgare e maleducata, che quella sanguinaria che si esprime non a barzellette e luoghi comuni, ma con il piombo corazzato delle Colt 357 Magnum. Sfilano alla manifestazione oltre diecimila persone. Il portavoce della comunità senegalese Pape Diaw dice: «Da oggi niente sarà più come ieri», mentre viene intonato un canto religioso. In prima fila gli amici delle due vittime, Modou Samb e Mor Diop, che reggono le foto dei due senegalesi morti. Su un cartello, oltre la foto di Modou ci sono quelle delleamoglie e della figlia di 13 anni. «Tredici anni senza vedere la sua famiglia - c'è scritto accanto alle immagini - e il suo sogno si è fermato il 13 dicembre». «Non ha nemmeno visto la sua bambina una volta», racconta con le lacrime agli occhi uno degli amici.

Non una parola di solidarietà dal centro sociale di estrema destra a cui faceva capo l'omicida, Casa Pound:  «Noi non chiederemo scusa» - Il centro sociale che si ispira dichiaratamente al fascismo prende le distanze dall'omicida definendolo un folle che non aveva reali legamo con Casa Pound Italia. Dal Corriere della Sera:  «Il nostro stile politico ci ripulirà da una macchia che ci ha sporcati ingiustamente e per cui non abbiamo nessuna colpa nè sentiamo di dover chiedere scusa a nessuno». In un certo qual senso le vittime sembrerebbero loro, "sporcati" dal folle gesto razzista. Per le vittime neppure un pensiero. Non occorre aggiungere altro.
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giovedì 15 dicembre 2011

Emozioni (il rugby in immagini, ma non solo)

Venerdì 16 dicembre, in tema di rugby, è in uscita un libro fotografico d'eccezione. Si intitola "Emozioni" (in campo, fuori campo… ovunque) e già il titolo fa capire come non si tratti di semplici immagini di azioni di gioco, ma molto di più. L’autore, anzi l’autrice, è Elena Barbini. Un nome che nel campo della fotografia sportiva specializzata non ha bisogno di presentazioni.

Il rugby è uno di quegli sport che come pochi altri suscita forti emozioni in chi lo pratica, ma anche in chi si limita a guardarlo  fuori dal campo. Difficile rimanere insensibili di fronte al rugby. Facilissimo innamorarsene per sempre. Per tanti motivi, per i valori e la cultura sportiva di cui è portatore e per la tradizione che ne ha segnato la sua storia centenaria. Ma anche perché è uno sport di sacrificio, di contatto anche aspro, pur sempre nei limiti del rispetto nei confronti dell’avversario. Ma non è certo questo il momento e il luogo di ribadire concetti che sono ben noti a noi malati di rugby.
Elena accompagna la presentazione del suo libro con poche semplici parole che ben evidenziano lo spirito con cui lo ha realizzato: “Mi piacerebbe che questa mia pubblicazione suscitasse ai rugbisti, ai tifosi, ai  giocatori, ma anche ai semplici spettatori quelle “EMOZIONI” che vivo continuamente in ogni “scatto” del mio lavoro e che trasmettesse la bellezza di questo mondo anche a coloro che ne sono esclusi”.
Volendo chiosare le riflessioni di Elena si può ben dire che le sue foto sono la trasposizione in immagini di stati d’animo, di sentimenti, di sensazioni. Così come la poesia è la sublimazione della semplice e spesso arida forma scritta.

Il libro è composto da 180 pagine con foto a colori e in bianconero (formato 20x30): si suddivide in capitoli in base alle diverse situazioni emotive (le vittorie e le sconfitte, il sudore e le lacrime, l’attesa del confronto dentro e fuori dal campo, la vita dura dei rugbysti). E’ già disponibile on line sul sito ufficiale di Elena (http://www.elenabarbini.com/) e lo sarà anche al Centro Geremia del Petrarca Rugby (Guizza, Padova). Nelle prossime settimane Elena presenterà il suo lavoro presso le principali club house rugbystiche del Veneto.

Il prezzo di vendita per precisa scelta dell’autrice (praticamente “simbolico”) è di soli 20 euro.

domenica 11 dicembre 2011

Film visti. Midnight in Paris (con i saluti dell'Ente per il Turismo francese...)

Midnight in Paris
Regia: Woody Allen
Con: Owen Wilson, Carla Bruni, Adrien Brody, Marion Cotillard, Kathy Bates, Léa Seydoux.


Voto: 3 su 5



Leggo le recensioni di Midnight in Paris su vari giornali. Voti altissimi, giudizi eccellenti, entusiasmo alle stelle. Mah... Possibile che all'improvviso, dopo anni di aurea mediocrità, il vecchio Woody sia tornato ai suoi antichi splendori? Me lo immagino sempre più impantanato tra un numero imprecisato di figli e qualche moglie troppo giovane per lui. Che abbia davvero ritrovato il bandolo della matassa e rinverdito la sua vena di grande "cinematografaro"? Il dubbio mi assilla, mi rode, mi attanaglia. Fidarsi delle recensioni o fare come al solito: ignorarle? Ma alla fine decido, vado.
Sabato pomeriggio. Sala semivuota, non è un buon segnale. In genere il passaparola del pubblico funziona meglio delle recensioni dei critici, troppo pensosi e intellettuali. Non che mi aspettassi la sala piena, ma neanche solo una misera decina di persone.
La vicenda narra di uno sceneggiatore hollywoodiano di successo che, ad un certo punto della sua vita e della sua carriera, decide di prendersi un anno sabbatico e cimentarsi con la scrittura vera, un romanzo tutto suo. Con la sua fidanzata di buona e ricca famiglia va fare un viaggio in Europa, vecchia e tradizionale meta degli americani in viaggio per turismo. La scelta è Parigi, la meravigliosa, straordinaria, intellettuale Parigi. Colà, tra una passeggiata sul lungo Senna e un pomeriggio di shopping,  incontrano una coppia di amici. Lui è a Parigi per una conferenza alla Sorbona, è il tipico so-tutto-io, massimo esperto e gran conoscitore di ogni cosa dello scibile umano. Insomma un saccente rompiballe. Le due ragazze, grandi amiche, organizzano immediatamente seratine frizzanti tra grandi ristoranti e super discoteche. Ma il nostro protagonista/aspirante/scrittore è stufo di chiasso e confusione e inoltre non sopporta il sapientone so-tutto-io. Decide di non aggregarsi all'allegra compagnia e di preferisce solitarie, quanto rilassanti, passeggiate notturne per le strade di Parigi. Preferibilmente sotto la pioggia. Un diluvio di luoghi comuni. Un trionfo di banalità in carta patinata. Cartoline illustrate da spedire agli amici, se già non preferite la foto scattata col telefonino e spedita per mms in tempo reale. Giusto per fare invidia a chi è a casa a lavorare. Avete mai provato a girare per Parigi sotto la pioggia? Ve lo dico io che l'ho provata, fidatevi: l'acqua piovana di Parigi è una vera schifezza, umida e fastidiosa, nè più e nè meno come la pioggia italica nostrana.

L'ho fatta un po' lunga, più di quanto servisse, per introdurre bene l'antefatto.  Finora è tutto di una banalità disarmante. Un grande spot pubblicitario di Parigi che potrebbe senz'altro essere stato commissionato dall'Ente per il Turismo parigino. Il protagonista, il biondo e belloccio Owen Wilson, una fotocopia ossigenata del vecchio Woody, si agita e balbetta imitando il maestro, ma riesce solo ad innervosirmi. La fidanzata, biondiccia e belloccia anche lei, è altrettanto agitata e ansiosa. I personaggi di contorno non meritano particolari menzioni. La comparsata di Carla Bruni è pleonastica e del tutto ininfluente. Andiamo bene. Comincio a guardare l'orologio. Brutto segno, indice di scadente qualità del film.
Ma, proprio quando sento che sta per arrivare l'abbiocco da noia, ecco la genialata che cambia le carte in tavola. Lo sceneggiatore/aspirante/scrittore finisce, per qualche strano motivo non precisato, proiettato indietro nel tempo. A ritroso fino agli anni '20, agli anni della grandeur artistica di Parigi. Incredibile ma vero, gli sfilano davanti, tra una festa e l'altra, personaggi come Hemingway, Scott Fitzgerald, Picasso, Gauguin, Cezanne, Toulouse Lautrec, Dalì (un Adrien Brody strepitoso), Bunuel e tutto il milieu culturale del tempo e prima ancora, a ritroso fino alla Belle Epoque. Non manca neanche un degno rappresentante del mondo musicale, tale Cole Porter, ancora sconosciuto alle masse. Tutti lì, a sorseggiare cognac o bere champagne, tra un tavolino in una brasserie e una festa sciccosa ed elegante. Tutti disponibili, giovani e di belle speranze. Nessun altezzoso atteggiamento da star, pardon, étoiles... Per forza, non sono ancora nè celebri, nè famosi. Un dipinto impressionista quando l'Impressionismo nessuno sapeva cosa fosse? Solo 500 franchi. Roba da annusare l'affare e comprarne una mezza dozzina in attesa di rivenderli a decine di milioni ciascuno...
Naturalmente il nostro scrittorucolo in trasferta da Hollywood, di fronte a mostri sacri come Scott Fitzgerald o Hemingway, va in sollucchero e vive tutto come un trionfo estatico. E come altro si potrebbe vivere una situazione del genere? Peccato che il transfert temporale funzioni solo di notte, dopo il dodicesimo rintocco e invece durante il giorno si ritrovi a fare i conti con lo zuccheroso mondo di giovani americani in vacanza a Parigi. Tutti troppo volgari, troppo dediti al meschino shopping, alle meschine feste e alle meschine discoteche. Quanta volgarità nel 2010, quanta rozzezza d'animo, quanta superficialità. Insomma per farla breve, il biondo alter ego del vecchio Woody si innamora, negli anni '20, di una modella di Picasso, una vezzosa Marion Cotillard, che nel frattempo amoreggia con quell'impenitente di Hemingway. Lo scrittorucolo vorrebbe non uscire più da quel bozzolo temporale e non lasciare più Parigi, non fare più ritorno a Hollywood, non vedere più quella lagna della fidanzata e il suo insopportabile amico sapientone. Ancher se a ben vedere, il sapientone ne dice effettivamente una di giusta quando sentenzia che l'amore per le cose antiche nasconde un'intrinseca incapacità di vivere bene il tempo presente. Una dotta analisi snocciolata con non chalance durante una visita ai giardini di Versailles con il gruppo di amici americani. Un po' il succo di tutto il film. A inseguire spasmodicamente il passato il vero rischio è di perdere di vista il presente, cioè la realtà.

Foto di scena sul lungo-Senna
Non vi dico come va a finire il film, naturalmente. La parte decisamente migliore è quella con la presenza dei grandi artisti del passato, tutti magnificamente impersonati da grandi attori da gustarsi uno a uno. Il film diventa scoppiettante e inarrestabile in un magistrale gioco tra presente e passato, tra reale e irreale. Degno del buon vecchio Woody, come non si vedeva da troppo tempo.  Buona visione, nonostante tutto (gli nuoce la parte introduttiva e il caramelloso atteggiamento verso Parigi) il film lo merita, anche se sinceramente non ne parlerei in termini del tutto entusiastici, come invece si legge sui giornali.

Mais oui... Parigi, è pur sempre Parigi..., parola di Woody Allen (e dell'Ente per il Turismo parigino....).

giovedì 8 dicembre 2011

Don Giovanni alla Scala (il dissoluto impunito)

Leporello e Don Giovanni
Sant'Ambrogio 2011, la prima alla Scala. Undici minuti di applausi per il Don Giovanni, che con la direzione di Barenboim e la regia del canadese Carsen, ha inaugurato la stagione scaligera. Presenti anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano, il premier Monti e i ministri Cancellieri, Ornaghi e Passera. Applausi per il neo premier nel foyer. Il commento di Napolitano: è stata un’opera bellissima. Il loggione promuove il Don Giovanni a pieni voti, qualche critica per Baremboim e Carsen.
Fortunatamente anche quest'anno Rai5 ha trasmesso l'evento in diretta permettendone la divulgazione ad una grande quantità di appassionati e di neofiti. Sempre poco rispetto a quanto sarebbe opportuno trasmettere in tema di musica "colta" e di spettacolo classico.
 La prima sorpresa è stata di vedere insieme Napolitano e Monti. Quando mai si è visto Berlusconi alla Scala? L'ultimo presidente del consiglio a presenziare alla prima fu Prodi. Berlusconi coltiva ben altri interessi... Vedere insieme le due cariche dello stato è un'immagine di forte simbolismo che fa bene al cuore e all'anima. Ce n'è un gran bisogno in questo momento in Italia.

Napolitano e Monti insieme alla Scala
E in tema di simbolismi il Don Giovanni ne ha da vendere. La figura del libertino impenitente e dissoluto che alla fine viene punito per il suo scellerato stile di vita è quanto di più attuale ci possa essere oggi nel nostro paese. Il titolo originale dell'opera di Mozart su libretto dell'italiano Da Ponte era "Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni". Se fosse un'opera letteraria contemporanea porterebbe tra i titoli di coda la dicitura "ogni riferimento a fatti o personaggi reali è da ritenersi casuale". Chi vuole intendere intenda...

Le cronache ci dicono che il foyer (giudizio "di pancia") ha apprezzato e applaudito la messa in scena e l'orchestrazione, ma le stesse cronache riferiscono che dall'alto del loggione da qualche raffinato intenditore qualche contestazione è arrivata al maestro Baremboim. L'accusa sarebbe di eccessiva lentezza nella interpretazione della partitura musicale. Non ho competenze in merito, ma di certo è difficile accontentare tutti, specie chi sta lì col ditino puntato alla ricerca della nota stonata. Il mio giudizio da spettatore assolutamente "di pancia e di cuore" è certamente positivo anche se la messa in scena del canadese Carson non sfiora la magnificenza della Carmen del 2009 ad opera di Emma Dante. Tuttavia l'uso della scenografia come parte integrante del racconto è senza dubbio d'effetto ed efficace. Molto bella, al limite della genialità, la trovata del regista di inserire un enorme specchio sul fondo palcoscenico che riflette l'immagine della platea e del contorno dei vari ordini di palchi. Il pubblico guarda sè stesso riflesso sul fondale del palcoscenico. Un gioco delle parti, come a dire che Don Giovanni, il dissoluto impuntito e impenitente, siamo (anche) noi. Ognuno è libero di leggervi qualsivoglia messaggio subliminale riferito alla realtà di questi anni. Anche la scelta di far muovere gli interpreti al di fuori del perimetro del palcoscenico è senza dubbio contro corrente in ambiente lirico, solitamente molto poco incline alle innovazioni. In particolare di grande effetto è stata l'idea di piazzare il "Commendatore" al momento del suo monito finale proprio sul palco delle autorità (tra Napolitano e Monti).
La locandina praghese del 1787
Certo, per i puristi del melodramma lirico si tratta forse di innovazioni poco digeribili, ma l'interpretazione del regista Carson è parsa convincente e riuscita e per certi versi provocatoria. E gli applausi finali lo dimostrano.

Esiste una disputa (molto dotta) sul finale dell'opera. In particolare sulla scena 20 in cui tutti i personaggi si trovano sul palco per commentare la fine di Don Giovanni. Il libretto recita la morale  conclusiva con tre versi "Questo è il fin di chi fa mal:/E de' perfidi la morte/Alla vita è sempre ugual". L'opera fu scritta da Mozart nel 1787 e debuttò prima a Praga e poi a Vienna. La differenza tra le due versioni starebbe proprio nel finale della scena 20. La versione viennese ne sarebbe stata priva (fermandosi quindi alla 19), perchè ritenuta poco in linea con la mentalità della capitale dell'Impero.
Questione di lana caprina? Per i dotti filologi mozartiani pare proprio di no, visto che a distanza di oltre due secoli ancora se ne parla...

giovedì 1 dicembre 2011

Libri. Alex, storia tragica di una donna

Alex
di Pierre Lemaitre


Nomen omen, dicevano i latini. Ovvero "di nome e di fatto". L'autore di questo splendido libro è Pierre Lemaitre, il cui cognome tradotto in italiano significa: "il maestro". Maestro di nome e di fatto. Per me è una scoperta in quanto si tratta di un autore finora sconosciuto. Invece leggo che in Francia gode di un indiscusso successo, già prima della pubblicazione di Alex.

Alex è un nome di donna, una giovane donna di bell'aspetto, consapevole della sua bellezza che usa spesso in maniera alquanto spregiudicata. Succede che una certa sera venga brutalmente rapita da uno sconosciuto che la picchia selvaggiamente e la rinchiude in una gabbia di legno sospesa nel vuoto in un edificio abbandonato infestato dai topi. La lascia lì da sola, a morire di fame e di sete, a fare da esca per quegli schifosi roditori affamati e feroci. E' evidentemente mosso da una voglia di vendetta incontenibile. Ma perchè? Qual è il legame tra vittima e carnefice? Sono solo le prime domande che sorgono all'avvio del libro. In seguito altri dubbi e altri interrogativi si porranno e a tutti Lemaitre darà risposta. Un libro vulcanico che non finisce mai di stupire.
A indagare sul caso di rapimento è chiamato Camille Verhoeven, un abile poliziotto (comandante, nel gergo francese) con una storia personale tormentata e dall'aspetto fisico molto particolare. E' poco più di un nano (avete presente il senatore Brunetta...?); durante la gravidanza sua mamma  fumava in maniera smodata e il feto, alla nascita, ne subisce le conseguenze con un ritardo di sviluppo fisico. Un rapporto tra madre e figlio che il comandante Camille si porta dietro per tutta la vita e che Lemaitre pone tra gli elementi cardine del libro aggiungendoli alla trama strettamente poliziesca. Posto il rapimento di Alex come punto di inzio del racconto, Lemaitre sviluppa l'intera vicenda del libro che definire appassionante nei suoi sviluppi è decisamente limitativo.
Il libro è strutturato su due piani narrativi. Uno è quello dal punto di vista di Alex, la vittima; l'altro è quello del comandante Camille Verhoeven. Un'ulteriore suddivisione in tre parti il racconto. Al termine della prima la vicenda giunge ad un punto che sembrerebbe conclusivo e definitivo, ma di fronte ad altre duecento pagine viene da chiedersi cosa debba succedere ancora. E infatti il racconto riparte con nuovi colpi di scena e un crescendo di suspence. Stesso discorso al termine della seconda parte. Stesso interrogativo per il prosieguo della vicenda e subito nuovamente altre situazioni che "acchiappano" fortissimamente il lettore.
Diavolo di un Lemaitre! Riesce a dare nuova energia ad ogni pagina e suscitare interesse ad ogni capitolo. Veramente un maestro (nomen omen...) di scrittura e di inventiva.

Non posso assolutamente aggiungere una parola di più sulla vicenda per non svelare nulla. Non sarebbe giusto nei confronti di chi leggerà il libro. Posso solo suggerire di fidarvi di me. Alex vi terrà col fiato sospeso fino all'ultima pagina, anzi fino all'ultima riga. Invece posso dirvi che il libro non è solo un racconto poliziesco ma riesce a scavare in profondità nei personaggi, descritti in maniera mirabile e approfondita, pur senza mai essere pedante o noioso. Tutta la tragica storia personale di Alex e della sua famiglia sono portanti nell'economia del libro. Alex comincia con l'essere una storia prettamente poliziesca, ma finisce con divenire un'introspezione spietata di personaggi e situazioni sconvolgenti. La famiglia da guscio protettivo e accogliente si trasforma in un inferno distruttivo. Una cosa non cambia dall'inizio alla fine del libro: il destino di Alex, sulla cui vita tutti sembrano esercitarsi in ogni sorta di tragico sadismo senza limiti.
Datemi retta, un gran libro scritto da un vero maestro.
P.S.: attenzione nel capitolo finale all'ultimo scambio di battute tra il comandante Verhoeven e il suo collaboratore...!

mercoledì 30 novembre 2011

Cosa c'è di più bello del sole d'inverno ...in moto

Ok, siamo in novembre, quindi tecnicamente è ancora autunno. Ma il sole di questi giorni è bellissimo. La temperatura esterna si aggira tra 0° e 7-8° nelle ore più calde. Approfitto appena posso per mettermi tranquillo faccia al sole a farmi scaldare dai raggi tiepidi e carezzevoli. In pausa pranzo al lavoro mi ritaglio sempre dieci minuti inn un angolo soleggiato prima di reintarre in ufficio. Mi rigenera, mi appaga e mi riconcilia con me stesso. Inutile dire che approfitto anche per fumare un mezzo toscano.
Domenica mi sono svegliato piuttosto presto, come d'abitudine. Il mio orologio biologico non accetta il fatto che nel fine settimana potrebbe rilassarsi e lascisrmi dormire un po' più del solito. E pensare che una volta mi facevo di quelle tirate di sonno da 8-10 ore continue e anche di più. Adesso invece è raro se supero le sei ore. Invecchiare significa anche questo? Non mi piace affatto.
Dicevo di domenica. Do un'occhiata fuori dalla finestra. Un sole splendido. Il termometro segna zero gradi. Faccio le mie cose. Leggo un po', porto giù Jack a fare la sua passeggiatina del mattino. Si fanno le 8.30. Temperatura quasi 2 gradi. Va meglio. Decido al volo, senza pensarci troppo, sennò va a finire cha cambio idea. Mi vesto di tutto punto "da moto": calzamaglia e maglietta della pelle termiche in tessuto tecnico (chissà che vuol dire). Un bel pile, pantaloni da moto con rinforzi e protezioni anticadute; giacca da moto invernale con imbottitura. Casco, guanti, scarponcini alti in caviglia e via. Peccato non avere gli stivali da moto. Ma non riesco a trovare la mia misura. Mai trovato un 48 in tanti anni. Scarpe da basket a caviglia alta a volontà, ma stivale da moto niente da fare. Ma non ci sono motociclisti con il piede misura 48? Sono l'unico?

Non c'è in giro anima viva. Men che meno motociclisti. Ma sono tutti ancora sotto le coperte a dormire o in pasticceria a sbafare cappuccini e brioches? Esco dalla città e prendo la direzione del mare, verso Chioggia. Da lì imbocco la Romea e proseguo in direzione sud verso il Delta del Po. Ci sono stato anche questa estate, ma faceva un caldo torrido. Almeno trenta gradi in più di oggi. Da un estremo all'altro.
La giacca da moto tiene benissimo il freddo e l'aria. Un paio di gradi in moto sono piuttosto pesantucci da sopportare se l'abbigliamento non è adeguato. Per fortuna non è così e il freddo rimane all'esterno. Anche la carenatura della mia Aprilia Caponord fa il suo dovere e mi ripara in modo eccezionale. Unici punti dove patisco il freddo, i piedi e le mani. Ma è solo per i primi 20 minuti, poi in qualche modo il freddo passa (o sono le mani che si adeguano e reagiscono al freddo?) e tutto procede più che bene, pur trattandosi di temperature proibitive.
Arrivo sul Delta. Il panorama si apre a 360°, l'aria e tersa e trasparente. I colori sono sgargianti. Arrivo sulla spiaggia di Boccasette. Il mare è piatto come l'olio. Non un'increspatura, non un'onda. La temperatura è salita. Siamo a 7-8 gradi almeno. Al sole si sta benissimo. Più ci rimango immobile, più lasensazione di tepore cresce. Il termometro della moto segna effettivamente 8 gradi, ma la sensazione è che siano di più. Mi tolgo la giacca imbottita, il pile è più che sufficiente. Mi trovo un punto comodo per sedermi sulla sabbia, tra le capanne vuote e sprangate di un bar ristorante chiuso per la stagione invernale. Silenzio assoluto. Pace e tranquillità che sembrano quasi palpabili, da poter toccare con mano. Non si sente il rumore del mare, non essendoci onde che si frangono sulla spiaggia. Il vento soffia leggero o quasi inesistente. Neanche i gabbiani sembrano osare di rompere il silenzio e la tranquillità del posto. Fantastico.
Una piacevolezza simile l'ho trovata solo in montagna, nel silenzio delle valli e delle vette imbiancate. Ma è molto più consueto che tanto silenzio regni in montagna. Al mare lo sciabordio dell'acqua sulla riva è quasi inevitabile e fa da sottofondo costante e ineliminabile. Non oggi, non qui a Boccasette. Qui oggi c'è solo silenzio e pace assoluta. Fantastico.

Si fa ora di pranzo. Comincio ad avere fame. Prendo la statale Romea a ritroso e arrivo a Chioggia. Conosco un posticino dove fanno certe mozzarelle in carrozza da far resuscitare un morto. Parcheggio la moto in centro. Sono quasi le 14, i ciosoti sono tutti a pranzo. Il bar rosticceria è semideserto. Mi siedo ad un tavolino all'aperto. In pieno sole, si sta benissimo. C'è anche il fungo a gas che dovrebbe servire a scaldare gli avventori che si siedono all'aperto. Ma non ce n'è bisogno. Ordino due mozzarelle in carrozza calde, appena uscite dalla friggitrice e un bicchiere di cabernet. Roba da far resuscitare i morti... ovvero i motociclisti che viaggiano anche col freddo novembrino. Roba da matti, a ben pensarci. Ma si sa che i motociclisti sono un po' matti.
E poi, cosa c'è di più bello del sole d'inverno ...in moto?

domenica 20 novembre 2011

Film visti. Stai sereno!

Scialla!
Regia: Francesco Bruni
Con: Fabrizio Bentivoglio, Barbora Bobulova, Filippo Scicchitano, Vinicio Marchioni



[Voto: 3,5 su 5]



Il professor Beltrame (Fabrizio Bentivoglio) è un insegnante in disarmo, fancazzista per scelta e per indole. Alternativo e fuori dagli schemi. Ha lasciato l'insegnamento attivo per dedicarsi alle ripetizioni private più agili da gestire e meno impegnative professionalmete.  Arrotionda anche scrivendo "i libri degli altri", ossia biografie su commissione. Veneto (padovano?) trapiantato a Roma da una vita, non ama il calcio, ma gli piace il pallone ovale e tifa per il Cus Padova. E questo già lo rende simpatico... Un certo giorno si fa viva una sua ex, di cui aveva perso il ricordo e le tracce, che gli affida a sorpresa il figlio che lui non sapeva di avere, ma che, guarda il "caso" (?), già conosceva essendo un suo allievo di ripetizioni. Insomma per uno che ha già i suoi problemi esistenziali scoprire all'improvviso l'esistenza di un figlio è un colpo mica da poco...

Questo è il canovaccio su cui si costruisce Scialla! il film di Francesco Bruni premiato all'ultima Mostra del cinema di Venezia con un  premio minore. Un premio meritatissimo, perchè il film è piacevolissimo, ben diretto, ottimamente scritto e ben recitato. Un film deve prima di tutto raccontare una storia e se Scialla! riesce bene in questo compito il merito è senz'altro della sceneggiatura che non è costruita astrattamente a tavolino, ma agganciata alla realtà. Il personaggio di Luca, il figlio un po' guascone e svogliato a scuola, ma vivo e intelligente, è "vero" e potrebbe essere il compagno di classe di uno dei nostri figli in età studentesca. Il tipo è comune e lo si trova ovunque: pantaloni portati bassi a fil di natica con mutanda firmata ben in vista. Camminata a gambe larghe, faccia da schiaffi e sguardo sprezzante. Insomma atteggiamenti da bulletti, ma imberbi. Il linguaggio è alquanto criptico, ma sicuramente per limiti del sottoscritto che non ha dimistichezza con il mondo giovanile adolescenziale contemporaneo. Le mie figlie hanno da tempo superato quell'età e certe terminologie mi sono sconosciute. A cominciare dal titolo che in gergo significherebbe "stai sereno". Sarebbe curioso risalire all'etimologia del termine. A me ricorda "Insciallah", espressione araba (Se Dio vuole) e titolo di un famoso best seller di Oriana Fallaci. Ma dubito che c'entri qualcosa.  Il film è un lungo florilegio di termini in uso tra i ragazzi, mi sfugge se limitato al dialetto romanesco (Luca è romano e il film è ambientato a Roma) o se si tratti di un linguaggio generazionale che va oltre i confini della capitale.
Ma a parte questi particolari di scrittura, il film fila via piacevole e accattivante, per tutta la sua durata. Bentivoglio è sempre il solito gigione, con la sua parlata simil-veneta che sembra voglia sempre prenderti per i fondelli, il giovane attore che fa Luca è credibilissimo e, anzi, sembra preso direttamente da un liceo romano e teletrasportato sul set cinematografico. Da antologia i dialoghi surreali sulla doppia penetrazione e il pompino stereofonico tra il professor Beltrame/Fabrizio Bentivoglio che si guadagna da vivere scrivendo la biografi dell'ex pornostar Tina/Barbara Bobulova. Nessun eccesso, nessuna volgarità, ma dialoghi intelligenti e frizzanti. In una parola: veri.
Come vero e credibile è tutto il film, cosa rara e decisamente apprezzabile, pur trattandosi di una commedia. E solitamente le commedie per il cinema italiano sono tutt'altro che agganciate alla realtà e credibili.
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Libri. Calma apparente a Fjällbacka

LO SCALPELLINO
di Camilla Läckberg










Fjällbacka, località turistica estiva della Svezia sud occidentale. Affacciata sul mare, in lontananza probabilmente nelle giornate serene e limpide si possono scorgere le coste della vicina Danimarca. Più a nord il confine con la Norvegia. Un posto bellissimo, anche se desolato per 10 mesi l'anno, neanche mille gli abitanti residenziali.
Un piccolo angolo di paradiso in una terra ghiacciata nella brutta stagione dove la scrittrice Camilla Lackberg ambienta i suoi romanzi polizieschi. Lo scalpellino è il terzo libro della serie di grande successo (vedi in questo stesso blog Il predicatore e La principessa di ghiaccio) che ha portato l'autrice a porsi subito dietro Stig Larsson e la sua trilogia Millennium nella graduatoria degli scrittori svedesi più letti nel mondo. Alcuni personaggi fissi (il poliziotto Patrick e sua moglie Erica, ma non solo) e altri invece introdotti appositamente seguendo le esigenze narrative.
Essendo ormai giunti al terzo romanzo si possono individuare dei temi ricorrenti. Due sembrano essere di maggior rilievo: a) le apparenze borghesi e perbeniste dietro la cui facciata si nasconde una realtà spesso spietata e feroce; b) l'esasperazione del credo religioso visto come un'ossessione deviante e pericolosa se portata verso una rigida interpretazione e osservanza. Per il resto Camilla ci presenta un ventaglio di umanità,  di abitudini e stili di vita tipicamente nordici che, al di là della trama poliziesca di fondo, costituiscono certamente gli aspetti più interessanti dei suoi romanzi. Sicuramente istruttivi anche se a volte alquanto "raccapriccianti" per noi mediterranei. Mi spiego con un piccolo esempio a proposito dei cibi e dei gusti alimentari. Il protagonista Patrick, poliziotto brillante e intelligente, suole fare colazione o uno spuntino ingurgitando una tazza di cioccolata calda, due o tre fette di pane, burro, formaggio da spalmare e crema di uova di merluzzo (!!!). Pensate che schifezza immangiabile e imbevibile deve essere un cocktail del genere con i sapori di cioccolata, formaggio e pesce mischiati insieme... Bleah, preferisco non pensarci...

Fjällbacka
Ma veniamo a Lo scalpellino. La narrazione porta avanti storie parallele, alcune in tempo presente, altre in tempo passato con l'uso di flash back che rimandano ad avvenimenti accaduti agli inizi del '900 e che in apparenza sembrano del tutto slegati con i fatti che accadono a Fjällbacka. Lo scalpellino del titolo lo ritroviamo nel filone "storico" che riporta i fatti avvenuti nel primo novecento. Tutto il resto della vicenda è contemporanea. Quindi il primo interesse per il lettore è cercare di intuire quali siano i legami tra le varie storie e i personaggi. Va detto che il titolo risulta abbastanza slegato dalla vicenda, in quanto il vero e proprio scalpellino (lavoratore della pietra nelle cave) finisce con l'avere una parte tutto sommato marginale fino a scomparire dalla storia, mentre assumono importanza e rilevanza superiore altri personaggi. Tutta questa fase che potremmo dire introduttiva e preparatoria occupa la quasi totalità del libro (circa 600 pagine). Ahimè, una parte piuttosto noiosa e sonnolenta in cui, a parte l'antefatto tragico da cui prende il via la vicenda, non succede quasi più nulla. E' il limite maggiore del libro, peraltro già riscontrabile in maniera pressoche identica nel precedente Il Predicatore. Troppi personaggi, troppi intrecci che spesso finioscono con l'ingarbugliare la narrazione invece di arricchirla. Ad un certo punto, quando prende quasi forma la voglia di abbandonare la lettura del libro, la situazione subisce un'improvvisa accelerazione, i colpi di scena si succedono fin troppo e finiscono con l'accavallarsi quasi spasmodicamente. Dalle stalle alle stelle, tutto nelle ultime 100-120 pagine. Succede di tutto, molti nodi vengono al pettine, molti dubbi vengono sciolti e rivelati. Peccato questa discontinuità così accentuata ed eccessiva. Una maggior omogeneità narrativa con una distribuzione più avveduta dei fatti più importanti avrebbe, nel complesso, certamente giovato al libro.

Come detto, il tema principale è la verità nascosta che si cela sotto la corteccia esteriore della rispettabile e perbenista società svedese. Poco o nulla è in realtà ciò che sembra in apparenza. Le indagini di Patrick sembrano essere ad un punto morto, proprio perchè l'apparenza esteriore dei personaggi e delle rispettive famiglie di appartenenza sembrano coriacee e inattaccabili. Un continuo scavare e indagare oltre tali apparenze riescono a portare qualche risultato. Ma non basta. Solo un caso fortuito e un'intuizione improvvisa riusciranno a far sì che Patrick possa trovare il bandolo della matassa per risolvere il caso della bambina annegata in acqua dolce e ritrovata cadavere in mare aperto al largo di Fjällbacka.

Camilla Läckberg
Anche in questo libro, come nel precedente Il Predicatore, troviamo personaggi che sguazzano nella loro religiosità apparentemente integerrima e tutta d'un pezzo. La Lackberg pennella questi personaggi come fossero ossessionati dalla religione e dalle regole di vita contenute nella Bibbia. Il che è in aperta controtendenza con l'immagine che abbiamo noi della società svedese, libera e libertina. Evidentemente si tratta di luoghi comuni e stereotipi al pari della pizza e del mandolino italici. Altro mito da sfatare sembrerebbe essere l'impostazione educativa nei confronti dei figli. Nel nostro immaginario di latini mediterranei e mammoni i popoli nordici avrebbero idee e comportamenti opposti ai nostri. Quante volte abbiamo sentito dire che in Scandinavia i bambini sono lasciati per conto loro a gattonare per terra con i loro giochi, quasi che le mamme li abbandonassero con disinvoltura per occuparsi di altro. Che possono strillare quanto vogliono per reclamare attenzioni, ma che i genitori li ignorano perchè acquistino autonomia di comportamento e indipendenza caratteriale. Il modello scandinavo, o nordico in genere, era un punto di riferimento fisso quando più di vent'anni fa vennero al mondo le mie figlie e, come tutti i bravi genitori, anche io e mia moglie ci informammo e documentammo minuziosamente sui criteri educativi e sulle scuole di pensiero pedagogiche che andavano per la maggiore. Salvo poi fare di testa nostra... naturalmente. E per fortuna.
Ebbene la protagonista Erica è l'esatto contrario di quel modello stereotipato di mamma dura e inflessibile che, sorda ai pianti del bambino, segue imperterrita i principi educativi nordici. Balle. Erica ne fa addirittura una malattia depressiva dello star dietro ai pianti della piccola Maya, dei suoi ritmi di veglia e sonno, del ritmo delle pappe. La sua vita e quella coniugale con Patrick sono cadenzati dai ritmi imposti dalla neonata che detta legge a forza di pianti e di strilli. Alla faccia dell'imperturbabile inflessibilità dei genitori nordici...

Vabbè, siamo partiti da una trama poliziesca e siamo finiti a parlare di principi educativi dei figli. Cose che capitano discorrendo di libri.... Per fortuna.

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mercoledì 16 novembre 2011

"El gateo dea Morena, poareto!"

Ieri pomeriggio, verso l'imbrunire. All'orizzonte sul profilo frastagliato dei Colli Euganei splendevano i riflessi rossastri del sole al tramonto. Un'atmosfera magica. Colori accesissimi e intensi da rimpiangere di non avere con sè la macchina fotografica. Come se non bastasse, a rendere la prospettiva ancora più accattivante, una leggera bruma che sfumava i contorni dando al tutto un effetto flou naturale. Impalpabile, morbido e soffice. Uno di quegli spettacoli della natura che ti mettono in pace col mondo.

Procedo su una provinciale di campagna poco trafficata quando in mezzo alla strada scorgo una macchia scura. Quasi uno straccio buttato là. Magari, chissà, una sciarpa o dei guanti sfuggiti a qualcuno di passaggio. Mi avvicino sempre di più e mi accorgo che non si tratta di una vecchia sciarpa, ma di un gatto. Lo evito e mi fermo a lato. Mi avvicino, è un piccolo gattino a prima vista di pochi mesi. E' riverso sull'asfalto, appoggiato su un fianco. Le zampe di dietro immobili e inerti, mentre con quelle anteriori cerca di spostarsi da lì portandosi dietro un fardello che immagino dolorosissimo. Evidentemente deve essere stato travolto da una macchina o da un altro mezzo. Che non lo ha schiacciato e ucciso sul colpo, ma lo ha preso di striscio, magari cercando di evitarlo, probabilmente fratturandogli il bacino.
Deve essere successo da pochissimo. Nell'arco di questi pochi minuti il micino ha raggiunto il ciglio della strada, sull'erba verso il fosso. Proprio lì accanto c'è una casa di contadini, con il cortile, gli attrezzi agricoli, il trattore. Entro per vedere se c'è qualcuno. Magari il micino è loro, magari gli possono dare aiuto. Magari nelle vicinanze c'è un veterinario. In campagna è facile che i contadini abbiano frequenti rapporti con un veterinario. Vuoi che non ce ne sia uno nei paraggi?
Vado dentro, suono al campanello, aspetto che esca qualcuno. Dopo qualche istante si affaccia sull'uscio una signora piuttosto anziana, capelli bianchi. Faccia rubizza e incartapecorita di chi ha passato una vita al sole e all'aria aperta tutto il giorno. Spiego perchè sono lì, dico che c'è un gattino sulla strada che ha bisogno di cure. "Ah madona, el gateo de a me nevoda!" dice la vecchietta. Il gattino di mia nipote... Si fa indicare dov'è il micino, anche se il miagolio si sente da lontano nella semioscurità indicando la direzione da prendere. Nel frattempo sta calando una nebbia pesante e fredda. Densa e scura, da tagliare con il coltello. E' la prima nebbia della stagione e contrasta in maniera assurda con lo splendore del tramonto di pochi minuti prima. Lo stesso contrasto stridente del miagolio disperato del micino col silenzio assoluto e quasi pauroso della campagna. "El gateo dea Morena, poareto!", dice subito la nonna (il gattino di Morena, poverino). Morena dev'essere la nipotina.
Rientriamo in casa per prendere qualcosa per trasportare il gattino senza fargli troppo male tenendolo il più immobile possibile. Cerca e ricerca, la nonnina tira fuori un vassoio da caffè. Quelli belli di peltro che si usano per servire le tazzine di caffè o di the agli ospiti di riguardo. Lo useremo come una barella. Nel frattempo telefona a qualcuno e capisco che si tratta di un veterinario. Sarà quello che fa nascere i vitelli in stalla, andrà bene anche per un gattino. Torniamo fuori. Il silenzio è totale. Non si sente più il micino miagolare. Un silenzio che sa di morte. Ci avviciniamo al ciglio della strada. Lui è ancora lì, sull'erba, immerso nella nebbia. Ma non si muove più. Non si lamenta più. E' immobile del tutto adagiato su un fianco, ha finito di soffrire. Povero micino. Pochi mesi, neanche ha fatto in tempo a vedere cosa ci fosse oltre il fosso al di là della strada, che odori strani, che mondo misterioso..., che la sua vita era già finita. La vecchietta piange, non so se per il gattino oper come ci resterà male la sua nipotina Morena. Io saluto e me ne vado, non voglio mettermi a tirar su col naso anch'io....

Addio, piccolo gateo dea Morena, poareto.
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giovedì 10 novembre 2011

11/11/11

Scaramantici, superstiziosi, cabalistici, appassionati di numerologia o semplici curiosi, tutti coloro che vedono significati reconditi o simboli misteriosi da decifrare nei numeri, domani dovranno stare sul chi va là. La data di domani sarà di quelle incredibilmente particolari per le quali si potrà dire "io c'ero", per il semplice fatto che si tratta di una concatenazione di numeri tutti uguali: 11/11/11- E non basta. Per i più attenti e sofisticati osservatori assumerà un significato altrettanto particolare il momento della giornata coincidente con le ore 11, 11 minuti e 11 secondi dell'11/11/11. Una vera e propria orgia di numeri "1" e di "11".
E allora come la mettiamo? C'è o no un significato recondito dietro questa incredibile sfilza di "uni"?
Intanto diciamo che l'"uno" è un numero primo, anzi il primo dei numeri primi, ovvero divisibile solo per 1 (e dai...) e per se stesso. Il che in matematica è un dato tutt'altro che banale e oggettivamente rilevante. In simbologia e numerologia il tris di 11 viene abbinato al diavolo, chissà perchè. Ma secondo altre teorie l'11, venendo subito dopo il dieci, cifra tonda e positiva per eccellenza, indica anche rinascita. Come dire che dopo il 10, considerato una specie di punto di arrivo, il massimo dei voti, l'eccellenza per antonomasia, con l'11 si fa punto a capo e si ricomincia a salire, a contare, ad andare a avanti.
Mi ricordo quando andavo a scuola in prima elementare, la mia maestra, ma prima ancora mia mamma, con lo stesso metodo intuitivo, mi insegnavano a contare da 1 a 10. Dopodichè si passava all'11 anche con un tono di voce e una mimica diversi, segno proprio che questo benedetto 11 ha proprio qualcosa di particolare. Se sia anche misterioso o ancestrale o addirittura diabolico non saprei proprio, anzi... Ma, come diceva Benedetto Croce, "vale sempre la pena ricordare che tali congetture non esistono, ma è bene tenerne conto". Chiaro, no?

Per inciso, è in uscita anche un film. Genere horror, naturalmente. E la data della prima ovviamente è 11/11/11.....!!!

lunedì 7 novembre 2011

Follie da collezionisti dementi

Venduto all'asta un molare cariato di John Lennon. Cifra sborsata dal collezionista per l'aggiudicazione: 23.000 euro.

Il molare di John Lennon venduto per 23.000 €
Eh sì, l'augusto molare di John Lennon, per giunta cariato, è stato battuto all'asta in Inghilterra per 20.000 sterline (23.000 euro circa): l'acquirente è curiosamente un seguace canadese, tale Michael Zuk che di mestiere fa proprio il dentista. L'autenticità non è stata comprovata dal test del Dna, il molare era fin troppo fragile e si sarebbe rotto, ma ci si deve fidare di Dorothy Jarrett, arzilla novantenne che faceva la cameriera a casa Lennon negli anni'60. (Corriere della Sera, 7/11/2011)



Ehm..., io avrei dei calzetti con un buco proprio in corrispondenza di entrambi gli alluci. Sarei disponibile a venderli con dichiarazione firmata che comprova la mia proprietà. Posso prima lavarli, naturalmente. Se poi invece il collezionista li volesse in versione originale profumata (parfum de pieds) posso anche accontentarlo. N.B.: misura 48.
Ci mettiamo d'accordo sul prezzo naturalmente... Con piacere reciproco, mi auguro.

giovedì 3 novembre 2011

Film visti. La Luisona non perdona (ma non fa ridere)

Bar Sport

Regia: Massimo Martelli
Con: Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Angela Finocchiaro, Antonio Catania, Antonio Cornacchione, Lunetta Savino, Teo Teocoli


Voto: 1 su 5



Vita da bar negli anni '70. Un'altra epoca, un'altra storia. Un'altra Italia, tremendamente diversa da quella di oggi. Quasi naif da far tenerezza. Slot machines? No, scopa e tressette e per i più tecnologici il flipper. Spritz e long drink? No, Crodino e lambrusco. Sky tv e pay per view? No, Rai in bianco e nero. E sullo sfondo il ciclismo epico e cavalleresco o le trasferte per vedere la propria squadra del cuore dal sapore di pane e frittata. Roba d'altri tempi, quando ancora al bar c'erano i vecchi tuttologi che raccontavano e pontificavano intorno al tavolino della briscola.
E' la fauna da bar indimenticabile di quando eravamo ragazzi... Per quelli della mia età, naturalmente.

Insomma in questo quasi romantico quadretto storico-sociale da leccarsi i baffi aggiungiamo un libro di successo, che è un cult consacrato (di Stefano Benni), come fonte letteraria di ispirazione e un cast con attori di prim'ordine. Il successo è assicurato?!? O no?
E invece no, sia pure con queste promesse appetitose, il film è una ciofeca incredibile. Una commedia brillante in cui non si ride neanche un po'. Come definirla? Deprimente? Patetica? Prevedibile? Scontata? Tutto questo e anche di più.
E quello che doveva essere il tormentone di tutto il film, il pezzo forte da far scompisciare dalle risate le folle di spettatori...? E' la Luisona, un incrocio tra un mega bignè e un monumento al diabete prossimo venturo. Un simulacro portafortuna dell'intero Bar Sport, con farcitura alla crema, ma vecchio di anni. Un cimelio del giorno dell'inaugurazione del bar ormai rancido, ma che fa ancora bella mostra di sè nella vetrinetta del bancone, accanto ai cannoli e alle brioches fresche di giornata. Nessuno oserebbe mai sognarsi di addentarla, la Luisona, ben sapendo a cosa andrebbe incontro. Ma per qualche motivo un cliente di passaggio la sceglie e se la mangia con gusto. Una bocca foderata d'amianto di sicuro. Dovrebbe essere la scena clou dell'intero film, l'apoteosi finale. Come la classica scena della signora cicciona e antipatica che scivola sulla buccia di banana nelle comiche dell'epopea del cinema muto. Invece allo spettatore quello sfigato del cliente fa solo pena e non suscita alcuna risata. Anzi, se potesse, vorrebbe addirittura avvisarlo per risparmiargli il castigo divino che lo attende entro qualche minuto. Cosa che puntualmente avviene in un bagno pubblico di un autogrill in autostrada. Ma il poveraccio non fa ridere, al massimo ispira compassione.

Ecco, il film è tutto così.  Personaggi, situazioni, racconti che letti sulle pagine del libro di Benni fanno ridere e divertono perchè interpretabili dalla fantasia del lettore, ma che trasferiti sullo schermo sono ingabbiate in clichè polverosi, visti e rivisti, patetici e tristi, nonostante i buoni attori chiamati ad intepretare la fauna del Bar Sport. Come dire che nonostante gli ingredienti di prima qualità, non sempre la torta Luisona riesce buona e appetitosa da leccarsi i baffi... Che sia colpa del pasticcere?

Un film da dimenticare. Al più presto.

lunedì 31 ottobre 2011

Film visti. Cow boys, indiani e alieni, gran fritto misto à la carte

Cowboys & Aliens
Un film di Jon Favreau. Con Olivia Wilde, Harrison Ford, Daniel Craig.
Voto: 1 su 5
Un filmetto e niente più. Un  western con l'innesto di una vena di fantascienza. Un guazzabuglio indecente spiattellato al cinema con dovizia di nomi importanti senza vergogna alcuna.
Nel tipico villaggio del Far West i personaggi ci sono tutti: lo sceriffo, il saloon con pianista, il figlio di papà piantagrane e viziato, il boss del paese che spadroneggia indisturbato e la ciurma di poco di buono che lo spalleggiano... Finchè non arriva uno straniero, naturalmente misterioso e silenzioso. Una specie di faccia-di-pietra brutta copia di Clint Eastwood di leoniana memoria, interpretato da Daniel Craig, attuale titolare fisso del ruolo di 007/James Bond. Succede che il cow boy misterioso sia stato colpito da amnesia e non ricordi nulla. Ma questo non gli impedisce di cacciarsi nei guai appena arrivato in paese andando a pestare i piedi al figlio di papà. Il paparino (un patetico Harrison Ford) arriva a spron battuto per mettere al sicuro il pargolo, quando all'improvviso dal cielo arrivano delle macchine volanti paurose e seminatrici di morte. Noi smaliziati spettatori avvezzi a qualunque cosa ci passi uno schermo cinematografico ci mettiamo due secondi per inquadrare la situazione, ma per quei rustici cow boy di metà '800 la cosa non è affatto facile, nè intuitiva. In aggiunta, chi guida quelle macchine volanti ha anche il brutto vizio di rapire gli umani prendendoli al lazo proprio come dei cow boy. Cosa manca al menu? Ma la bellona del villaggio e gli indiani pellirosse, naturalmente. Tutti insieme, in stile armata brancaleone versione far west, si lanciano in una lotta senza quartiere con gli alieni malvagi e razziatori. Pistole, archi e frecce contro raggi della morte e astronavi... Come andrà a finire?
Olivia Wilde
Se volete provare a indovinare fatelo pure, ma non sforzate troppo il cervello. Il finale è un capolavoro di prevedibilità...

Il film meriterebbe più o meno uno zero, ma con molta generosità elargisco un "1" in virtù della fulgida bellezza di Olivia Wilde, assurdamente fuori ruolo nei panni della aliena "buona". Con uno sguardo torbido e ambiguo come il suo, il ruolo perfetto per lei è quello di sensualissima dark lady a vita. Una delle più belle attrici in circolazione. Quanto a bravura, mi riserverei il diritto di non rispondere per valutarla in film e ruoli più credibili.
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domenica 30 ottobre 2011

Film visti. Cheyenne, il bambino che c'è in noi

 This must be the place

Regia di Paolo Sorrentino, con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton

[Voto: 4 su 5]
Cheyenne (uno splendido Sean Penn), di famiglia ebrea, è una ex rockstar ormai in disarmo da oltre trent'anni. Una vita agiata regalatagli dai successi ottenuti sul palco in compagnia di mostri sacri come Mick Jagger (era lui che voleva cantare con me...); una personalità indecifrabile a metà tra la noia e la depressione.  Un uomo-bambino con una maschera che lo mette al sicuro dal confronto con la realtà adulta fatta di ombretto, rossetto e unghie laccate. Un freakkettone, si sarebbe detto un tempo. Quel tempo erano gli anni '80, quelli di David Byrne e dei grandi Talking Heads che fanno da colonna sonora portante a tutto il film, ma ai quali Cheyenne sembra essere saldamente aggrappato. Un bozzolo al cui interno il protagonista passa, proprio come un bambino, dalla ingenuità disarmante e infantile alla voglia inesauribile di conoscere, di capire. In una parola: curiosità. Come se ad un certo punto mettendo il naso fuori dal suo bozzolo protettivo si fosse reso conto di essersi perso qualcosa per strada. Ma quel qualcosa è la sua vita, la vita degli altri, di suo padre, del mondo. Cito a memoria: "C'è un momento nella vita in cui si giunge all'età in cui non si pensa più a quello che si farà, ma si fanno i conti con quello che si è fatto".  Forse il personaggio Cheyenne si potrebbe riassumere in queste poche battute: semplicemente fulminante.
L'elemento scatenante che da la svolta a tutta la vicenda è la morte di suo padre, dopo una vita trascorsa nell'indifferenza reciproca. Salvo poi convincersi che un padre non può non amare suo figlio e rimpiangere lui stesso di non avere avuto figli da poter amare. Ed è il bisogno di recuperare quel rapporto mai avuto e il suo ricordo che lo spingono a tornare in America per completare l'opera di suo padre alla ricerca di un ex gerarca nazista.
Sentendo in giro i giudizi di chi lo aveva visto, mi ero fatto l'idea del solito film lento e inconcludente. La solita pizza intellettualoide. Tutt'altro. Le due ore passano in un lampo e sono assolutamente coinvolgenti. Cheyenne riesce a calamitare l'attenzione di tutti coloro che gli vengono a tiro. Il suo modo di fare è sincero e fa breccia con tutti. Perchè nessuno dopo la prima dubbiosa occhiata riesce a diffidare di lui nonostante il suo aspetto esteriore fuori dall'ordinario. La narrazione è assolutamente coinvolgente, i personaggi sono deliziosi e tratteggiati con mano felicissima. Sorrentino mi ha letteralmemnte ammaliato, stupito e affascinato. Eppure il suo Divo (film biografico del 2008 su Giulio Andreotti) non mi aveva per niente convinto nonostante le lodi sperticate ricevute. Qui rivela invece un tratto registico geniale e coraggioso nel raccontare una storia non facile che si dipana tra Europa (Dublino) e America (quella rurale, delle pianure sterminate). Decisamente luoghi molto distanti e diversissimi tra loro, ma distanti anche dal napoletano purosangue Sorrentino. Invece il film è un gran film. Che merita di essere visto, magari avendo l'accortezza di portarsi un blocchetto notes per prendere appunti. Non sono impazzito. La sceneggiatura è ricca di battute e dialoghi/riflessioni che vale la pena annotarsi e ricordare. Sarebbe un peccato dimenticarle dopo averle gustate e apprezzate durante il film.
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giovedì 27 ottobre 2011

Belen o non Belen. This is the problem...

Tema leggero, giusto per sdrammatizzare un po' l'atmosfera tetra di questi giorni di crisi economica e di stallo politico (si è sfiorata la blasfemia arrivando a parlare di possibile crisi di governo...!) sempre più incombente. E per di più con le risatine di Sarkozy e la Merkel a rincarare la dose.
Il tema è Belen Rodriguez, nota frequentatrice di riviste di gossip dalle scarse doti artistiche, ma dalla grande avvenenza. In sintesi, una gran bella "figliola". Notare il termine volutamente arcaico per sottolineare il suo aspetto. Bella e dunque desiderata, ambita e sognata. In tutti i modi e in tutte le posizioni da una decina di giorni a questa parte...

Sono giorni e giorni che in ufficio, davanti alla macchinetta del caffè, a qualunque ora, che sia mattino o dopopranzo, l'argomento principale dei caffeinomani di sesso maschile è il porno video di Belen. E' in rete da circa una settimana ed ha letteralmente spopolato. A patto di trovarlo sul web. Perchè è tuttaltro che facile. Si viene sbattuti da un sito all'altro senza mai arrivare al "sodo". In alternativa non resta che farselo raccontare dai pochi che sono riusciti a scovarlo in rete.

sabato 22 ottobre 2011

Fotografata la Madonna di Medjugorje!

Domenica scorsa, 16 ottobre. Jesolo, famosa e frequentatissima località turistica sul litorale veneto. Stagione estiva ormai passata e dimenticata, ma parecchia gente in giro approfittando del clima piacevolmente mite del periodo. Riunione pubblica di fedeli della Madonna di Medjugorje (Boznia Erzegovina, ex Jugoslavia). Gli organizzatori e promotori dell'incontro sono tutti cittadini jesolani che, reduci dal pellegrinaggio a Medjugorje, hanno voluto ricreare la stessa atmosfera in un palaturismo divenuto una grande chiesa per l'occasione straordinaria.
La presunta apparizione della Madonna
Un sacco di gente che partecipa a messe, preghiere, canti, omelie. Finchè qualcuno non alza gli occhi al cielo e vede o crede di vedere una figura femminile in preghiera che si staglia sullo sfondo azzurro.
Tutti, nel giro di pochi minuti, vedono la stessa cosa (o si convincono di vederla?) e qualcuno tira fuori l'immancabile macchina fotografica e immortala l'evento. Lo vedete nella foto qui accanto. Un'immagine  un po' sottoesposta nella parte bassa, molto luminosa nella parte alta. E in mezzo al cielo una macchia biancastra, allungata e dai bordi frastagliati. Quella, secondo i seguaci/fedeli che credono nelle apparizioni di Medjugorje, non è una nuvola di passaggio o un riflesso di qualche tipo. No. Non è neanche un UFO di passaggio. E' l'immagine della Madonna in preghiera. Tutti d'accordo, ovviamente.Senza incertezze.  A nessuno è venuto il dubbio che potesse essere una nuvoletta dalla forma strana. Non esiste proprio.  No, tutte certezze granitiche: è la Madonna. A posteriori nemmeno qualche piccolo dubbio che la foto possa essere stata sottoposta a qualche fotoritocco, giusto per sgrezzarla un pochino? No, assolutamente. Quella macchia bianca nella foto è la Madonna. Se lo dicono loro che a Medjugorje ci sono stati di recente chi oserebbe mai metterlo in dubbio? Comunque, sia ben chiaro, niente a che vedere con le apparizioni sul sito originale oltre frontiera. Da quelle parti si assiste ad apparizioni coi fiocchi, con effetti speciali straordinari. Pare che di sovente il sole, se fissato a lungo, cominci a roteare come una trottola. Straordinario. Segno divino senza alcun dubbio. Il tutto davanti a migliaia di testimoni sicurissimi di ciò che hanno visto. Lo dice anche il "famoso" giornalista Paolo Brosio (quello martirizzato da Emilio Fede al Tg4 al tempo di Mani Pulite davanti al Palazzo di Giustizia di Milano), che di recente è diventato un convinto sostenitore delle apparizioni di Medjugorje. Ha anche scritto un libro sull'argomento. Molto venduto, ovviamente. Tutti fedelissimi della Madonna con naso all'insù, plaudenti e credenti. Ovviamente.

Che dire, che pensare di fronte a fatti del genere? Certo, ognuno è libero di credere in ciò che vuole. Credere aiuta a convivere con la propria umanità che anela giustamente a nutrirsi di spiritualità, credere aiuta ad avere fiducia nel futuro e a vivere meglio il presente. Avere fede è importante. Poi, in coscienza, ognuno potrà avere fede in ciò che più gli piace o lo convince a seconda della religione abbracciata. Forse anche chi si professa ateo ha fede. Ha fede che davvero un dio non esista. E' fede anche questa versione negazionista, ancorchè comunque indimostrabile, come il suo esatto contrario. Ma di certo ci vuole misura, ragionevolezza, buon senso e prudenza anche nel credere. Criteri che hanno qualcosa a che spartire con la fede, che in quanto tale non ha categorie logiche a governarla? Difficile dare una rispoosta per chi non abbia importanti frequentazioni con l'alta filosofia. Ma è la Chiesa stessa che prende le distanze da questi fenomeni miracolistici di massa. Saggiamente, aggiungerei. Va bene credere; va bene ritenere che possa esserci un filo diretto tra la divinità e gli esseri umani; va bene tutto o quasi tutto. Ma se ogni nuvoletta in cielo o macchia su una fotografia dovesse essere interpretata come manifestazione divina, non sarebbe più finita. In fin dei conti viviamo nell'era di Photoshop...

domenica 16 ottobre 2011

Libri. Y O U A R E T H E E V I L (Tu sei il male)


Tu sei il male
di Roberto Costantini

Tu sei il male, non solo una vicenda poliziesca ottimamente articolata in un gioco raffinatissimo di incastri, ma anche un pezzo di storia d'Italia lungo 24 anni. Un libro da non perdere. E non meravigliatevi dello strano titolo di questo post (chi ha letto il libro ha già capito...).

Roma, 11 luglio 1982. La sera della vittoria italiana al Mundial spagnolo Elisa Sordi, giovane impiegata di una società immobiliare del Vaticano, scompare nel nulla. L'inchiesta viene affidata a Michele Balistreri, giovane commissario di Polizia dal passato oscuro. Arrogante e svogliato, Balistreri prende sottogamba il caso, e solo quando il corpo di Elisa viene ritrovato sul greto del Tevere si butta a capofitto nelle indagini. Qualcosa però va storto e il delitto rimarrà insoluto.
Roma, 6 luglio 2006. Ancora una volta finale dei Mondiali di calcio, 24 anni dopo. Mentre gli azzurri battono la Francia in Germania, Giovanna Sordi, madre di Elisa, si uccide gettandosi dal balcone.
Una vicenda che si racchiude nell'arco di 24 anni, durante i quali l'Italia si traforma. Dagli anni di piombo del terrorismo si passa agli anni del berlusconismo, dell'immigrazione, dei clandestini, del malessere di un'intera società che diventa insofferente e intollerante nei confronti della massa di stranieri che si riversano nel paese. Un'Italia non più alle prese con organizzazioini armate di terroristi sovversivi, ma con bande di delinquenti e di disperati disposti a tutto.
In breve si scopre che tra le due morti c'è una storia sommersa che il commissario Balistreri porta progressivamente alla luce, attraverso indagini non facili e spesso ostacolate da forze segrete e ostili. Indizi e testimonianze che gli permettono di riallacciare i fili della memoria e ricondurre le vicende del 1982 a quelle del 2006.

sabato 15 ottobre 2011

Criminali in piazza tra gli Indignados

Indignados in piazza oggi a Roma. Una manifestazione che voleva essere di legittima protesta non violenta è stata trasformata in guerriglia. La prima domanda che sorge spontanea è come sia possibile che le forze dell'ordine non siano state in grado di arginare subito e con la dovuta durezza i black bloc la cui presenza era annunciata da giorni e giorni? La conseguenza è che, non adeguatamente contrastati, questi delinquenti infiltrati hanno fatto ciò che hanno voluto per tutto il pomeriggio scatenando una vera e propria guerriglia in piazza San Giovanni, luogo storico delle manifestazioni sindacali e democratiche, e in altre zone della Capitale. Altra conseguenza è che la legittima protesta di tanti giovani  (i nostri figli) sulla cui pelle si sta scaricando la crisi economica e politica attuale è stata oscurata dalla violenza criminale di alcune centinaia di delinquenti.

lunedì 10 ottobre 2011

Steve Jobs o Stefano Lavori, non è la stessa cosa

Hai voglia ad essere nato genio... Se non si nasce nel posto giusto e al momento giusto, non basta avere delle idee più che brillanti e innovative per sfondare. Ci vuole anche la fortuna di trovare le condizioni giuste per mettere in pratica il genio che cova sotto la cenere.
E' questa la tesi di un giovane blogger napoletano che riscrive provocatoriamente la vita di Steve Jobs immaginando che invece della California la sua terra di nascita sia Napoli, Italia. Il suo blog, dopo la pubblicazione del post, ha registrato punte di decine e decine di migliaia di accessi. Un successo travolgente non senza polemiche. Le accuse dei suoi detrattori sono di calcare la mano sul solito piagnisteo depressivo e autoassolutivo dei bamboccioni italiani che non riescono a sganciarsi dalla famiglia. Ma siamo sicuri che sia proprio così e che invece il blogger Menna non abbia visto giusto?
Ecco il suo racconto.


martedì 4 ottobre 2011

Film visti. Driver, il duro dal cuore tenero

Drive
Regia: Nicolas Winding Refn  (Miglior Regista Cannes 2011)
Cast: Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston

[Voto 4 su 5]




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"Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti: qualunque cosa accada in quei cinque minuti sono con te, ma ti avverto, qualunque cosa accada un minuto dopo sei da solo. Io guido e basta!"
La filosofia di Driver è questa. E la esprime in maniera chiara e inequivocabile al momento di accettare un nuovo lavoro: guidare un'auto dopo una rapina per assicurare la fuga ai malfattori. Insomma, ti do il massimo ma non voglio impicci di nessun tipo. Uno che di certo non si fa coinvolgere dagli altri, che ci tiene a delimitare ruoli e compiti, con fredda professionalità. I primi dieci minuti del film mostrano in maniera splendida il concetto di impermeabilità del personaggio. Poche parole da parte di Driver, ma molta efficienza. Quindi obiettivo raggiunto. Ma Driver (non viene mai chiamato per nome) ha anche una attività pulita da svolgere alla luce del sole, meccanico d'auto e stuntman cinematografico. Una simbiosi a tutto tondo fra lui e le auto.
Succede che il suo freddo distacco dagli altri e la sua impermeabilità vengono meno nel momento in cui fa conoscenza con la giovane vicina di casa (Irene), mamma di un bimbo in tenera età. Un affetto o addirittura un amore manifestato con lunghi silenzi, gite in campagna e serate passate davanti alla tv con quell'embrione di famiglia della porta accanto. Senonchè spunta fuori il marito di Irene appena uscito di prigione e naturalmente Driver si fa da parte. La frequentazione continua, sia pure con modalità diverse. Ed è così che si apprende che l'ex carcerato è ricattato da una banda di malviventi per la restituzione di una ingente somma, pena ritorsioni sulla moglie e il figlioletto. A questo punto entra in azione Driver.