giovedì 27 maggio 2010

Ogni volta

Sono tuttaltro che un fan di Antonello Venditti, ma questa è una bellissima canzone. Ha il dono di evocare atmosfere particolari e suscitare emozioni. Musicalmente asseconda il fluire libero e crepuscolare dei pensieri.
Per ascoltarla: http://www.youtube.com/watch?v=Qgr_Ij1Zoxg


Ogni volta

Ogni volta che parlo di te

tu fai parte o non parte di me

ogni volta che piango per te

tu fai parte o non parte di noi

E mille nuovi amori cercherò

per non amarti più

ma mai nessuna al mondo sarai tu

E stanotte la passi con lui

ma ogni cosa ti parla di noi

ogni frase, ogni gesto che fai

è già stato vissuto da noi

Chiudi gli occhi e pensi che

le sue mani, la sua pelle no, non sono me

Ogni volta che parli di me

faccio parte o non parte di te

ogni volta che piangi per me

faccio parte o non parte di noi

A tutti i nostri amici tu dirai

di non amarmi più

ma solo io saprò a chi pensi tu

voglio te voglio te, voglio te

perché tu, tu fai parte di me

voglio te, voglio te, voglio te

fino all'ultimo sguardo

all'ultimo istante

all'ultimo giorno che avrò.
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Nostalgia della barca...

Dramma familiare in casa Briatore.

«Da quando siamo stati costretti ad abbandonare il nostro yacht il piccolo Nathan Falco piange spesso, non è più tranquillo e sereno come prima». Elisabetta Gregoraci, in un'intervista al tipico settimanale da leggere sotto il casco della parrucchiera, parla di quello che definisce un «terribile incubo» vissuto dopo il sequestro da parte della Guardia di finanza dello yacht "Force Blue" (63 metri di lusso sfrenato e del valore di decine di milioni di euro), sul quale viveva stabilmente con il figlio di due mesi e il marito Flavio Briatore, ora indagato per contrabbando e frode fiscale.
La frode fiscale starebbe nell'affitto pro forma di 240.000 euro al mese, quando invece Briatore sarebbe proprietario occulto della barchetta.

 - «Il nostro bambino è quello che ha risentito di più di questa situazione, di questo brusco cambiamento - spiega la Gregoraci-. Da quando siamo usciti dalla clinica di Nizza dove ho partorito, ha vissuto a bordo dello yacht: ora non è più tranquillo e sereno come prima, sente la mancanza della sua cameretta bianca, dei suoi spazi, che lo hanno protetto fin dai primi giorni».
Questa è la notizia, clamorosa e drammatica, che è apparsa su tutti i giornali e sui siti on line delle testate internet che sta facendo vivere giorni di tensione a tutti gli italiani.


OK, posso capire che questa gente straricca a palate possa vivere abitualmente su uno yacht (63 metri di lunghezza..., la "barchetta" assomiglia più a un mercantile che a uno yacht), posso capire che, nei meandri della legge e della legalità in frode al fisco, utilizzi modi "creativi"  per giustificare la disponibilità di simili imbarcazioni facendola passare per un mezzo a noleggio invece che di piena ed esclusiva proprietà (da qui la denuncia/sequestro della Finanza); posso capire che il pargoletto possa aver familiarizzato con la sua marinaresca cameretta sulla "barca" invece della linda stanzetta in una casa come tutti gli altri comuni e miserabili mortali; posso capire che il cambio di ambiente sia stato avvertito dal piccolo fenomeno, magari con plebee scariche di diarrea quali reazioni al drammatico stress subito. Posso ammettere e accettare quasi tutto, ma assolutamente non riesco a capire, neanche sforzandomi, come si possa decidere di chiamare il proprio figlio -innocente creatura!- Nathan Falco. Ma che cazzo di nome è? Sì, lo so che è un personaggio di fumetti, ma Nathan Falco è forse un nome da dare a un essere umano in carne e ossa? Il prossimo nascituro lo chiameranno Aquila della notte - Tex Willer?

Bisognerebbe interdire certi genitori, altro che sequestragli la barca...
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domenica 23 maggio 2010

Film visti. Robin Hood

ROBIN HOOD

Regia di Ridley Scott
con Russell Crowe, Cate Blanchett,William Hurt.
[voto: 2,5 su 5]

In gergo sportivo si dice "squadra che vince ma non convince" per indicare una situazione di aurea mediocrità, non negativa da meritare giudizi insufficienti, ma neppure positiva per mietere elogi. Robin Hood di Ridley Scott è così. Ben fatto e ben recitato, ottimamente ambientato, attori accattivanti, ma il film non "prende" lo spettatore, più incline a guardare l'orologio che a farsi coinvolgere dalla storia narrata. E non perchè sia sempre la solita storia vista e rivista. Anzi, la narrazione è piuttosto originale e non ricalca pedissequamente altre già ampiamente rappresentate al cinema. Anzi, alcuni riferimenti storici danno una contestualizzazione che nei precedenti cinematografici non esisteva (per esempio la citazione dell Magna Charta...). Tuttavia l'intero film manca di pathos, cioè quel qualcosa di magico che scatta e che fa passare in un battibaleno le due ore e mezzo del film. Purtroppo per l'amato Scott (penso di aver visto quasi tutti i suoi film) è l'ennesimo passo falso, un altro film che si aggiunge a quelli riusciti a metà e non del tutto convincenti. Penso ai più recenti Le crociate (2005) o a Un'ottima annata (2006).  Del film non aggiungerei altro per lasciarlo alla visione di chi ancora non l'ha visto, se non una chicca per appassionati e fan si Ridley in particolare. Il brano musicale che fa da sottofondo alla scena del ballo davanti al fuoco di Robin/Russell Crowe e Lady Marian/Cate Blanchett è lo stesso utilizzato da Ridley Scott in un altro suo film molto famoso e molto apprezzato, I duellanti (1975). Sentire e riconoscere quelle note è stato un piccolo tuffo al mio cuore di cinefilo.
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martedì 18 maggio 2010

Portavo i calzoni corti

In questi giorni a Padova c'è la Fiera. La Fiera è sempre stata un evento in città. Adesso un po' meno, ma quando ero ragazzino in calzoni corti, la visita in fiera era uno degli avvenimenti più importanti dell'anno. Almeno per la mia famiglia, che ra però uguale a tante altre. Intanto la fiera cadeva (e cade) in un bel periodo: maggio, esplosione di primavera; e poi la scuola era quasi finita e si incominciava a respirare aria di vacanze. Se i miei ricordi non mi ingannano, negli anni '60-'70 credo che la Fiera di Padova fosse addirittura programmata per giugno, più o meno in concomitanza con l'altro grande evento della città, la festa di Sant'Antonio. C'erano le giostre in Prato della Valle e per noi bambini e anche per quelli più grandi e più sgamati, era occasione di grande eccitazione e di grandi sollazzi ...e grandi mangiate di zucchero filato. Gli autoscontri, i dischi volanti, i chioschi con i pesci rossi da vincere col lancio delle palline... che gioia, che festa, che allegria. I più temerari si cimentavano addirittura con l'otto volante o montagne russe, a costo di vomitare anche l'anima. Con il passare degli anni e con l'avvento di altre forme di comunicazione e propaganda commerciale, la Fiera ha via via perso interesse e fascino. Certo rimane comunque uno dei punti di riferimento dal punto di vista economico e commerciale, ma per noi padovani, da un certo punto in poi, non era più la stessa cosa. Perchè andare per stand e padiglioni stipati come sardine a vedere delle cose che si potevano vedere comodamente in televisione, ormai a colori? Si era nei primi anni '80, con l'avvento delle tv locali infarcite di pubblicità e televendite. Ricordo ancora adesso come rimanevo estasiato di fronte al banco dell'omino che faceva le dimostrazioni di quanto comoda, rapida ed efficiente fosse la macchinetta per tagliare e tritare le cipolle in un minuto o quale portento della scienza e della tecnica applicate fosse il frullatore che trasformava la frutta (banane, mele, pere... kiwi e altra frutta esotica erano ancora quasi sconosciuti) in succulenti e appetitosi beveroni da leccarsi i baffi. Si sa, per i bambini la frutta è sempre ostica da accettare e il frullatore faceva miracoli, almeno nella mia famiglia.
Il giorno della fiera era un giorno di festa. Mia mamma si faceva bella ed elegante col vestito buono delle grandi occasioni. Io e mia sorella avevamo il permesso di vestirci come quando si andava alla messa della domenica o in visita agli zii di Treviso. Insomma, era un'occasione speciale. Col risultato che le scarpe della domenica erano dure e scomode e a fine giornata, dopo ore di fiera, si tornava a casa con le vesciche ai piedi.
Per i miei ricordi di ragazzino, andare in fiera significava principalmente due cose: fare incetta di depliants pubblicitari e montare sui trattori e girare il volante come per guidarli. Roba da andare fuori di testa per l'emozione e la gioia. Come si sa, ogni espositore fieristico si dota di materiale pubblicitario dei suoi prodotti. Per me andare in fiera significava passare in rassegna tutti, ma proprio tutti gli stands e farmi dare i volantini o meglio ancora i pieghevoli in carta patinata. Gli espositori degli stand più ricchi ed avveduti si procuravano addirittura i palloncini colorati, sapendo che avrebbero sì attirato nugoli di bambini molesti, ma accompagnati dai genitori che comprano....Che goduria andare in giro con fasci di depliants sotto il braccio e il palloncino legato al polso perchè non volasse via. Depliants di tutti i tipi e naturalmente del tutto inutili per un ragazzino della mia età. E come me ce n'erano decine, anzi tutti i bambini in grado di andare in giro senza stare alla mano della mamma o del papà, erano autonominati ufficialmente cacciatori di depliants. A fine giornata c'erano, stivati nelle capienti borse delle mamme, pacchi di carte multicolori. Macchinari sconosciuti e misteriosi, gru, escavatori, macchine per la pasta, frigoriferi industriali, mangiatoie per allevamenti bovini, divani, calcolatrici elettriche, televisori e motociclette. Ricordo che rimasi a bocca aperta nel vedere una macchina che sfornava a getto continuo il ghiaccio secco. Ghiaccio secco? A essere del tutto sincero, che roba sia esattamente, me lo chiedo ancora adesso.
Di tutto, di più. Un ciarpame infinito di carta pubblicitaria, ma affascinante.  Almeno per i miei occhi. Nei giorni e settimane successivi me li andavo a sfogliare tutti, uno per uno. Alla fine era anche istruttivo, oltre che colorato e appagante al tatto. La carta patinata delle brochure e degli opuscoli pubblicitari per me ha sempre avuto un grande fascino. Chissà, forse anche per questo, tanti anni dopo, sono finito a lavorare nel settore commerciale, che della pubblicità e della comunicazione fa il suo pane quotidiano.
Portavo i calzoni corti quando mio papà, ai miei occhi di bambino uomo sempre serio e quasi imbronciato, si addolciva e cedeva alle suppliche di farmi salire sul trattore in esposizione alla fiera. E allora mi afferrava con le sue mani possenti e mi sollevava lassù in alto, fino al seggiolino del guidatore, al posto di guida, sotto lo sguardo bonario e rassegnato dello standista che era ormai capitolato di fronte alla sequela interminabile di bambini che attendevano il loro turno per salirci sopra. Nei giorni in cui mio papà si portava anche la macchina fotografica, ci scappava pure la foto. Ma allora sul trattore ci saliva anche la mia sorellina, giusto per la foto ricordo, evento ancor più raro ancorchè eccezionale "perchè alle femmine i trattori non interessano"; sono cose da uomini, perbacco.
Che tempi, che ricordi. Se ci penso mi prende una certa nostalgia.... dei tempi passati, del vestito "buono", del ricordo dei miei genitori, dell'innocenza infantile, chissà. Adesso in fiera non ci vado più da tanti anni e nemmeno ricordo di averci mai portato le mie figlie. Se sapessero quanti depliants e quanti trattori si sono perse, mi odierebbero.
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venerdì 7 maggio 2010

Una ciofeca misteriosa e intrigante

La biblioteca dei morti, di Glenn Cooper.

Parte prima.
Questo libro me l'ha consigliato mia figlia, che è appassionata di quel filone mistery della narrativa contemporanea che ultimamente va tanto per la maggiore. L'ho ignorato a lungo, ma poi l'ho preso in mano e ho cominciato a leggerlo anche per constatare, lo confesso, che gusti avesse la mia giovinotta. Tanto per chiarire come la penso, dopo una quarantina di pagine mi sono detto: "ma che cavolo di ciofeca è...?", e me la sono presa anche con lei e i suoi gusti insani.
Brevemente la storia (purgata): tra le rovine di un monastero dell'isola di Wight, all'epoca del governo di Winston Churchill (post seconda guerra mondiale), viene ritrovata una sterminata quantità di libri manoscritti dell'epoca medievale. Sterminata? di più, molto di più... Tutto frutto del lavoro di pazienti monaci che in un salto temporale della narrazione ci vengono presentati dall'autore Glenn Cooper come pallidi, emaciati e silenziosi religiosi dell' VIII secolo d.C. che, di generazione in generazione, si applicavano al maniacale lavoro di scrittura dei libri. Ma dall'esame più approfondito del contenuto della sterminata biblioteca, il cui completamento aveva richiesto svariati secoli di certosino lavoro degli ammanuensi, emerge una verità sconvolgente. Al punto tale che tutta l'immensa biblioteca viene trasfeita un po' alla volta negli USA (più attrezzati alla bisogna della malandata Inghilterra alle prese con le rovine post belliche), nella famosa Area 51, quella degli Ufo, per intenderci. Ovviamente sotto massima copertura e con il vincolo del top secret. Non dico ovviamente nulla di più sulla natura del segreto, anche perchè è l'unica cosa buona del libro, il quid che lo tiene insieme e che spinge il lettore a continuare la lettura invece di far volare il libro dalla finestra. Sì, devo ammettere che  l'idea base da cui prendono il via tutte le vicende connesse e collegate con il ritrovamento è oggettivamente affascinante ancorchè genialmente strampalata. Ma in questi casi, più le situazioni sono fantasiose e inverosmili, meglio è. Altrimenti che filone mistery sarebbe?
Sul libro, ahimè, non c'è molto altro da dire se non che sguazza nei più classici e prevedibili clichè della letteratura poliziesca americana e che, a lettura finita, il mio pensiero irriverente è andato all'autore, chiedendomi perchè invece di continuare a fare il suo mestiere (se non sbaglio fa l'imprenditore di successo) si fosse messo a scrivere. Mah.

Parte seconda.
Ieri, come ogni giovedi, sfoglio il magazine settimanale del Corriere della Sera (Sette) e butto l'occhio sulla rubrica del critico letterario Antonio D'Orrico. Con mia grande meraviglia leggo la presentazione di un altro libro di Glenn Cooper, Il libro delle anime, in uscita in questi giorni. Ohibò -leggere per credere- non vi dico le meraviglie del libro annunciate nell'articolo e ancor più del precedente di cui è il sequel. Indovinato? Sì: La biblioteca dei morti, la ciofeca stuzzicante di cui sopra.
Tutto questo mi ha messo in crisi non poco. Il dubbio è il seguente: sono io che non capisco niente di libri e non riesco ad apprezzare il lavoro di Cooper per le tante qualità espresse e sottolineate dal critico D'Orrico? Oppure è lui che prende un grosso abbaglio e il libro è davvero una ciofeca?
Ubi maior minor cessat, recita il latinorum. D'Orrico sarà pur per qualcosa il critico del Corriere o no? Mica della Gazzetta di Forlimpopoli.... Sì, ok, il sospetto che dietro possa esserci qualche manovra editoriale c'è sempre, ma voglio pensare che il Corriere sia superiore a queste cose venali.
E dunque ormai sono rassegnato a leggermi anche il sequel della sunnominata ciofeca, se non altro per vedere come va a finire e se alla fine avevo ragione io o l'illustre critico.

lunedì 3 maggio 2010

Film visti. Cosa voglio di più

Cosa voglio di più
Regia di Silvio Soldini, con Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston.
[Voto: 2.5 su 5]

Innanzitutto il titolo. Cosa voglio di più nel senso di "cosa preferisco" oppure cosa voglio di più nel senso relativo di "cosa pretendo di più di quanto già non abbia"? Dubbio che è un po' una chiave o la chiave di lettura del film. Cosa vogliono di più che già non abbiano i protagonisti della storia narrata da Silvio Soldini? Oppure su quale dei due, tra amante e moglie/marito, cadrà la scelta di vita che in qualche modo sono chiamati a fare?
La storia è una come tante altre, di coppie che si arrabattano a livello di galleggiamento nel tran tran quotidiano, alle prese con il mutuo da pagare, con i conti che non tornano mai, con i figli -se già ci sono- oppure con il progetto di metterne in cantiere uno perchè forse è arrivato il momento giusto, con gli amici, con i progetti per le vacanze low cost. Storie di vita ordinarie e per questo brutalmente banali, piatte e monotone. Ma ad un certo punto queste vite piatte si incrociano tra di loro e deragliano nel breve giro di qualche sguardo e qualche sms. Un Lui e una Lei qualsiasi (il piacione Favino e l'algida Rohrwacher), che hanno una vita di coppia, che hanno dei compagni/e e anche dei figli decidono di dare una svolta alla loro piatta esistenza e di avviare una relazione tutta sesso e clandestinità. E qui torniamo al titolo ambivalente. Cosa vogliono di più? Non gli basta ciò che già hanno e che fino ad allora sembrava soddisfarli? Cosa vogliono di più? E' preferibile una vita tranquilla, ma banalmente piatta o la sferzata di adrenalina che deriva da una relazione proibita che li svegli dal loro torpore?
L'ambientazione in cui si svolge la vicenda mi ha riportato, per atmosfere e caratterizzazioni dei personaggi, ad un Pietro Germi d'annata, tradotto e aggiornato con il linguaggio dei giorni nostri. Un'operazione nostalgia che coglie in pieno le atmosfere malinconiche e depresse di quell'ambiente popolare dove tutto è routine, dove i due stipendi non bastano mai e la massima botta di vita viene dalle serate con gli amici al pub tra un Risiko e un Monopoli. E' una fotografia dell'Italia di oggi come lo era quella degli anni '50 splendidamente letta e interpretata dal genio di Germi. Soldini sforna un'opera piutttosto sonnolenta e spesso ripetitiva nelle situazione descritte; sembra quasi che la piattezza dell'esistenza dei protagonisti sia anche una certa piattezza del film stesso. Perfino le scene di sesso tra i due amanti, ampiamente sottolineate da trailers e locandine, sono piatte e sembrano ricordare un glamour da hard discount di periferia. Anzi i sospiri lussuriosi dei due poveri amanti sembrano più delle crisi di asma bronchiale che vette di sesso infuocato.
Insomma tutto sembra essere pervaso da un senso di depressione che finisce per coinvolgere lo spettatore che alla fine del film esce dalla sala con un senso di tristezza difficile da scrollarsi di dosso. Primato forse uguagliato dai precedenti lavori di Soldini, sia Pane e tulipani, ma soprattutto Giorni e nuvole. Anche in quelle precedenti opere il malessere del vivere era palpabile. Un malessere che ha le sue radici sia nelle anime dei personaggi che nella vita che loro conducono, condizionata sempre dai soliti problemi personali, economici, di relazione. Problemi che portano inevitabilmente alla fuga. Da tutto: dalla famiglia, dal lavoro, dagli affetti più cari, cui pure si è profondamente legati.
Salvo poi riprendersi i propri bagali e fare ritorno a casa, lasciando dietro di sè una scia di ricordi e di lacrime amare per aver solo furtivamente assaporato quello che poteva essere e che non è stato.